Quale serie tv vi ricorda più gli anni ’90? Ah be lo dico, non vale rispondere “Baywatch” eh? Troppo facile. A che titolo avete pensato, non lo voglio sapere, non qui almeno, magari scrivetelo nei commenti ma sappiate che come zia Drew Barrymore avete perso, siete inciampati nel più vecchio dei trucchi. Alla fine del post vi spiegherò il perché, ma prima parliamo di “I saw the TV glow”.
Diretto dalla regista non binaria Jane Schoenbrun, il suo secondo lungometraggio è stato presentato al Sundance Film Festival il 18 gennaio di quest’anno, distribuito dalla A24 e prodotto tra gli altri dalla Fruit Tree banner, la casa di produzione di Emma Stone e Dave McCary. Vi ho dato una certa idea di fighetteria vagamente hipster di fondo? Bene, se solo leggendo questo paragrafo vi è venuta l’orticaria, ci vediamo domani con qualche altro titolo più rozzo, sappiate che oggi vi perdete sì una storiella ad alto livello di Hipsteria violenta, ma comunque interessante.
Anno 1996, Owen (nella sua versione più giovane interpretato da Ian Foreman) è un ragazzo che ha difficoltà ad accettarsi, ma come la generazione di cui anche io faccio parte, irrimediabilmente teledipendente, il suo svago è un programma televisivo notturno, un oggettino molto strambo intitolato “The Pink Opaque”.
A scuola, l’unica altra persona con cui riesce a spiccicare parola è Maddy (Brigette Lundy-Paine), un po’ più grande e incontrata mentre sfoglia una guida ai programmi interamente dedicata al suo programma preferito, “The Pink Opaque” appunto, in onda il sabato alle ventidue e trenta, ultimo programma a colori prima delle repliche notturne per gli anziani. Per Owen e Maddy questa trasmissione è l’ora d’aria, colorata, pazza, con cui estraniarsi, una pausa da una realtà che può essere dolorosa.
Esattamente come può esserlo la scoperta della propria identità, un periodo di transizione in cui la realtà non somiglia più a quella che uno si potrebbe aspettare, resa ancora più tosta se come patrigno ti ritrovi un redivivo Fred Durst, non proprio un residuato bellico degli anni ’90, ma uno arrivato appena dopo a calare sul decennio la pietra tombale, per altro a colpi del NuMetal dei suoi Limp Bizkit. Si, quel Fred Durst, non un omonimo.
Secondo l’adorabile paparino, quella roba rosa di “The Pink Opaque” è da femmine perché sì, il rosa fa paura (specialmente ad alcuni maschietti molto fragili) e qui il gancio mentale è semplice, ve lo ricordate quando qualcuno sosteneva che “Sailor Moon” facesse diventare Gay? Sarà, pur non avendo seguito proprio tutte tutte le puntate, ho sempre pensato che le guerriere Sailor avessero della gran gambe.
Così come molti additavano Buffy come una serie per “’E femmene!” ed in effetti in “The Pink Opaque” ci sono echi di tutte queste trasmissioni, più una doppia mano di vernice di Twin Peaks, perché i personaggi che popolano il programma sembrano usciti dagli incubi post peperonata di David Lynch e Jane Schoenbrun di suo, Lyncha, Lyncha un sacco, mettendo ancora di più in chiaro il modello, più di quanto già non faccia il formato 4:3 del finto programma televisivo.
Jane Schoenbrun crea un mondo al neon, facendo comunque sfoggio di tutte quelle trovate che fanno subito film festival, come il piano sequenza che segue il protagonista tra i corridoi della scuola, mentre tutto intorno compaiono le parole (in rosa fluo) delle pagine del suo diario. Il tutto rigorosamente ripreso con l’inquadratura suprema, quella che da sola trasforma qualunque film in un film da Film Festival, la conoscete, l’amate, la odiate, alla Bara Volante gli abbiamo dato un nome fin da tempi non sospetti prima di tutti, mi riferisco alla leggendaria: NUCam!
Macchina da presa fissa sulla nuca del personaggio principale, ritmo lento, e se non vinci il Film Festival passi la selezione di sicuro, Jane Schoenbrun lo sa e ne abusa, e per molti minuti “I saw the TV glow” sembra menare il can per l’aia (ma povero cane!) ma poi quando finalmente capisci dove vuole andare a parare funziona, con mostri e creature a metà tra Lynch e Cabal. Indimenticabile il mostro del gelato, ma a suo modo anche il Signor Malinconia, che serve a traghettare il film (e il suo messaggio) in porto.
Indipendentemente dal percorso personale di Owen, quando è attuale una trama che parla di uno spettacolo del passato, ricordato come unico momento felice? Sì perché la dissociazione tra il mondo fisico e la successiva identificazione con l’immagine virtuale è materia che si affronta tutti i giorni se come me siete frequentatori di “Infernet”, dove ogni giorno il Signor Malinconia ha la meglio su tutto, di sicuro anche sulla ragione.
Certo, in parecchi momenti “I saw the TV glow” tira davvero la corda nel suo Lynchare (i concerti Punk, belli eh? Ma anche un po’ meno magari), ma vi ho già avvisati, è un affascinante oggettino rosa che tende verso l’Hipsterico se non ve la sentite, astenersi, ma ritrovare quello che sostengo spesso (mi capita anche qui sulla Bara con i film) ovvero che i vecchi ricordi d’infanzia vadano affrontati, anche solo per non fossilizzarsi diventando vittime del Signor Malinconia è un messaggio che dovrebbe essere ribadito molto più spesso, specialmente ad una generazione che di malinconia è proprio ammalata.
Insomma, non posso dire di aver amato visceralmente “I saw the TV glow”, decisamente tanto in odore di Film Festival più fighetto per i miei gusti, ma mentirei se non vi dicessi che l’ho trovato ipnotico, non proprio come una replica di “The Pink Opaque” in seconda serata ma quasi, decisamente intelligente nel trattare il suo tema, dovete solo decidere se avete voglia di farvi questo strambo e Lynchiano viaggetto.
Detto questo, vi ero debitore di un quiz tipo morale alla fine di una puntata di He-Man, tanto per restare in tema. La risposta è molto semplice ma l’avete sbagliato in ogni caso: nessuno negli anni ’90 chiamava i telefilm serie tv. YOU LOSE!
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