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I Soprano (1999-2007): made in America

Tra le frasi di Indy che cito più spesso, una torna utile
per la serie di oggi: «Dovrebbe stare in un museo».

Per certi versi con “I Soprano” è andata proprio così, 86
episodi targati HBO, con una media stimata per ogni puntata di 13 milioni di
spettatori, considerando che il canale a pagamento non raggiunge tutti gli
americani un trionfo, volete un paragone diretto? Lost non è mai andato oltre
gli 8 milioni (storia vera). 82 premi tra cui 5 Golden Globe, 21 Emmy di cui
tre vinti solo dal protagonista James Gandolfini, per un numero di nomination
in tripla cifra.

Ma la profezia di Indy è fondamentale quando si parla di
questa serie, l’unica ad essere stata proiettata anche al MoMa di New York,
regolarmente studiata ad Harvard come punto di riferimento della post-modernità
americana è anche quella che il New York Times ha battezzato come “La più
grande opera della cultura pop americana dell’ultimo quarto di secolo”, tutti
dati impressionanti ma più modestamente vorrei solo aggiungere, la serie
preferita di casa Cassidy, che sia una delle migliori di sempre non si discute,
continuo a pensare che The Wire sia superiore in quasi tutto, ma sono questioni
di lana caprina, nessuna serie parla alla pancia del pubblico (o alla mia) più
dei Soprano. Giuro che non era una battutaccia sul continuo mangiare dei
protagonisti eh?

Foto di gruppo, stile ultima cena.

David DeCesare in origine, americanizzato in Chase
dal padre, era quasi con un piede fuori dalla soglia del mondo dei telefilm,
perché ai tempi ancora li chiamavamo così, un media considerato da Chase troppo piccolo per le sue aspirazioni,
tanto che il suo soggetto relativo ad un boss della criminalità del New Jersey
che va in terapia per provare a gestire la sua vita complicata, circolava sulle varie scrivania fin dal 1997, per assurdo è stata la spintarella involontaria
ricevuta da Hollywood a portare la svolta necessaria, l’uscita di “Terapia e
pallottole” (1999) ha convinto i vertici della HBO, ma la paternità del
soggetto è saldamente nella mani di Chase, che non a caso all’inizio della
seconda stagione, mette in bocca al suo protagonista Tony Soprano, una
battutaccia sul suo disgusto per il film di Harold Ramis, divertente quando
volete, ma comunque incapace di non inciampare in una caratterizzazione
macchiettistica dei personaggi, un problema che “I Soprano” non hanno mai avuto,
malgrado il piagnisteo di qualche ex politico di uno strambo Paese a forma di
scarpa che non vale nemmeno la pena di citare, perché ha solo dimostrato di non
aver capito niente del lavoro di David Chase.

I due Boss insieme, creatura e creatore.

Per assurdo proprio l’Italia, luogo di origine dei
personaggi della serie, non ha mai tributato quel successo in termini di
pubblico che questa serie merita, trasmesso prima da Canale 5 e poi da Italia 1
ad orari sempre più improbabili della notte, nemmeno l’uscita in cofanetto nel
2008 ha davvero risollevato le sorti di una serie che è diventata amatissima
dopo, quasi a sottolineare la distanza culturale tra gli Italiani e gli
Italo-americani della serie, strano perché per titoli come “Romanzo criminale”
o Gomorra, sono piovute le stesse
identiche critiche da cui si difese ai tempi Chase, che lapidario andò dritto
al punto: «Questa è una storia sull’America. Una storia che riguarda tutti. Chi
si lamenta è un fanatico dell’etnia», impeccabile, ma andiamo per gradi come direbbe il signor Celsius.

Eppure un panino con l’affettato da Satriale con i ragazzi lo avrei mangiato sempre volentieri. Sempre meglio che essere l’affettato.

La televisione americana sul finire degli anni ’90 stava
cambiando, telefilm come X-Files o Buffy stavano portando temi un po’ più
adulti e un nuovo tipo di serialità nei canali in chiaro, ma la HBO, sul suo
palinsesto a pagamento giocava in un’altra categoria, Oz aveva alzato l’asticella, del mostrabile sul piccolo schermo, ma
anche del crudo realismo e il canale era alla ricerca di un erede allo stesso
livello. David Chase ottenne una squadra di scrittori e registi di talento, che
di lì a poco avrebbero fatto la storia del piccolo schermo, mi riferisco a nomi
come Matthew Weiner, futuro artefice di “Mad Men” oppure Terence
Winter papà della serie che porterà in qualche modo avanti il testimone dei
Soprano, ovvero “Boardwalk Empire”, a cui bisogna aggiungere anche l’ex
attore passato alla regia, Tim Van Patten. Qualche istruzione per l’uso? Se sulle note della mitica “Woke up this morning”
degli Alabama 3, quando Tony parcheggia nel vialetto (miglior sigla di sempre?
Siamo da quelle parti) leggete “Directed by Tim Van Patten” mettetevi comodi,
perché state per vedere uno dei migliori episodi della serie, non si scappa,
così come non si scappa dal fatto che chiunque sia passato come pialla sui
poetici titoli originali degli episodi, sia un criminale che meriterebbe di
andare a dormire con i pesci (… put me in the water! Cit.), visto che i titoli
italiani hanno la rara capacità di essere anonimi ma precisissimi nel loro
sputtanare e anticipare il colpo di scena chiave dell’episodio, quindi il
consiglio è sempre lo stesso, se potete godetevela in lingua originale, titoli
degli episodi compresi.

Come l’episodio “Kennedy and Heidi” (6×18) che è una delle tante puntate capolavoro della serie.

“I Soprano” è il telefilm che ha nobilitato i telefilm,
quelli che ora chiamiamo Serie Tv e paragoniamo al cinema, perché proprio al
cinema si è rifatto Chase. James Gandolfini aveva lavorato ovunque senza mai sfondare, per averlo Chase ha
messo le corna per terra, irremovibile, la produzione pensava che quell’omone
non fosse adatto (facendo per altro andare in escandescenza lo stesso
Gandolfini durante il suo provino, storia vera), ma Chase non ascoltò ragioni,
quel suo atteggiamento da “Pagliaccio triste” parafrasando le parole dello
stesso Tony, con quel sorriso capace di passare dal bonario al feroce in meno
di un secondo, abbinato a quel corpo imponente, che a Chase ricordava il suo
attore preferito da bambino, Jackie Gleason, nessuno avrebbe potuto essere Tony
Soprano meglio di Gandolfini, anche se sul set non è stato certo tutto pesche e
crema.

Come comincia la serie che ha rivoluzionato il piccolo schermo? Con delle anatre, nemmeno fosse un documentario.

Già ben disposto nei confronti della buona cucina,
Gandolfini beveva parecchio ed era anche dedito all’utilizzo di altre sostanze,
diciamo ad uso ricreativo mettiamola così, spesso spariva dal set anche per ore,
poi per farsi perdonare portava a tutti costosi regali e in tal senso, è
davvero impossibile distinguere il personaggio dall’attore che lo interpreta, impressionante
il modo in cui in sei stagioni Tony Soprano passi dall’essere un quasi mio
coetaneo (nel momento in cui vi scrivo) non particolarmente in forma, a
sembrare mio nonno, poi uno dice, lo stress non fa male, no no!

“Stress? Non ti temo!”

Con un’idea del tutto cinematografica nella testa, Chase
chiede e ottiene di dirigere di suo pugno il pilota della serie, ma il cinema è
proprio il suo nord magnetico, in quest’opera post-moderna, la serie di David
Chase riscrive i tratti distintivi del gangster Italo-americano forse per
sempre, facendo propria la lezione di Scorsese e Coppola, dal primo pesca beh,
di fatto quasi tutto il cast di “Quei bravi ragazzi” (1990) film citato
costantemente dai personaggi nella storia, così come Il Padrino, di cui “I
Soprano” è quasi una versione 2.0, con l’ascesa e i tormenti di Tony che
vorrebbe essere come Don Vito, in realtà è Michael Corleone di un’epoca più
nevrotica, dove i valori e il mondo dei personaggi sta crollando e lui
rappresenta l’ultimo fragile baluardo, quello che vorrebbe essere come Gary Cooper, l’uomo forte e silenzioso,
ma in realtà è l’ultimo dinosauro, raccontato poco prima dell’arrivo del
meteorite.

Imitazioni di “Toro scatenato” ne abbiamo?

“I Soprano” è una perfetta rappresentazione dei mafiosi
smaltitori di rifiuti del New Jersey, scrivere qualcosa di nuovo su una serie
tanto amata e tanto studiata è impossibile, ma ci sono due elementi chiave che
ci tengo a sottolineare, il primo è il realismo con cui tutti i personaggi sono
stati tratteggiati, continuo a pensare che The Wire faccia un lavoro migliore del portare avanti (e far crescere) tutti i
personaggi, senza lasciarne indietro nessuno, bisogna anche dire però che i
Soprano, spinti avanti dal loro trascinatore Tony, diventano come membri della
famiglia, proprio perché di questo la serie parla, una famiglia disfunzionale a
modo suo (come lo sono tutte), descritta senza ipocrisie o meglio, con tutte le
ipocrisie che determinano i rapporti di sangue, ditemi quello che volete, ma
credo che come possa fotterti la tua famiglia, non lo farà mai nessun federale,
ogni volta che rivedo i Soprano, proprio come per i Corleone, il modo in cui si
guadagnano da vivere passa (in parte) in secondo piano, davanti alla perfetta e
realistica messa in scena delle dinamiche di famiglia.

Sono profondamente convinto che Livia Soprano (interpretata
alla grande da una delle poche attrici non di origini italiane della serie, la
compianta Nancy Marchand) sia la cattiva più terrificante del piccolo schermo,
nessuna ha mai pareggiato in malvagità con questa donna anche buffa nella sua
goffaggine, nel suo strombazzarsi il naso con il fazzoletto ogni volta che
nomina il marito defunto (‘nu santo!), salvo poi essere così diabolica,
manipolatrice, incapace di un gesto d’affetto che sia uno. Non condivido e non condividerò
mai lo stile di vita di Tony, i suoi “affari”, ma il logorio dello stomaco provocato
dalla madre e dai parenti in generale quello sì, proprio qui sta una delle
ragioni per cui questo telefilm ha saputo cambiare tutto, facendo la storia del
piccolo schermo e della cultura popolare.

Il personaggio più cattivo del piccolo schermo con la CGI più brutta del piccolo schermo.

La dipartita prematura di Nancy Marchand, non solo ci ha
portato ad uno dei primi casi di CGI utilizzata per sostituire un’attrice
defunta (con risultati ammettiamolo, inguardabili), ma ha richiesto un “cambio
basket” in corsa, rappresentato da Janice Soprano (Aida Turturro), l’odiosa
sorella di Tony, campionessa del mondo di scelte imbarazzanti, del tutto
identica alla madre nel carattere e nella capacità di far incazzare Tony, anche
se non allo stesso livello di perfidia di Livia, forse per questo trovo la
seconda stagione dei Soprano un po’ meno a fuoco (poco eh!), Janice è
insopportabile, ma con Livia ancora a bordo, chissà dove sarebbero potute
andare le trame di questa serie. Parliamo di un altro elemento chiave? L’Italia
in questa serie.

La sindrome dell’emigrante riassunta per immagini.

Ho già detto la mia sulle inutili lamentele dell’inutile
politico, i personaggi malgrado gli ziti al forno e l’ossessione per «Mangia
qualcosa!» non sono Italiani, sono Italo-americani, questo diventa chiarissimo
in uno dei miei episodi preferiti della serie, ovvero la puntata 2×04 (“Commendatori”),
con i nostri in viaggio a Napoli, tutti gasati per far affare laggiù, carichi
di aspettative per le loro origini avellinesi, salvo poi ritrovarsi stranieri
in terra straniera, incapaci di parlare la lingua, nemmeno di mangiar il cibo
locale, l’episodio si conclude con uno dei (tanti) momenti di culto di questa
serie, ovvero loro in macchina, in silenzio, a contemplare l’uscita della
tangenziale, i capannoni, le fabbriche insomma il non proprio meraviglioso New
Jersey che vediamo attraversato in auto da Tony nella sigla, che in realtà è la
loro vera casa, afflitti dalla sindrome dell’emigrante, i personaggi si
atteggiano da Italiani, con nel cuore la malinconia per un Paese che in realtà
non conoscono e non è il loro, e per altro il più delle volte si esprimono in
maniera volutamente sgrammaticata, per sottolineare ancora di più la loro
condizione, piccoli tocchi d’arte e di profondità in una serie che tra le altre
cose, parla anche di attività mafiose.

Il mitico Furio, da Napoli con la sua coda di cavallo.

Di quelle si è parlato tantissimo, penso sia quasi superfluo
ribadire come “I Soprano” sia un perfetto spaccato della vita criminale americana,
quello che mi preme è porre l’accento su un elemento chiave che passa fin
troppo spesso in secondo piano, vista l’abbondanza di chiavi di lettura in
questa serie, ovvero l’uso della psicologia. Da una parte abbiamo un
rappresentante di Cosa Nostra, con la loro filosofia di non parlare mai,
opposto ad una psicologa per di più donna, che non solo risulta una spallata
alla mascolinità tipica dei Gangster, ma è quella che minerà tutte le certezze
del protagonista, mossa dal quel “dire tutto” tipico della dottrina Freudiana, insomma
uno scontro tra opposti che non potrebbero essere più distanti uno dall’altra
di così.

Una delle poche rappresentati positive della categoria degli psicologi nell’immaginario, la dottoressa Melfi.

Gli attacchi di panico e gli svenimenti di Tony, provocati
prima dalle anatre nella sua piscina (per poi dedicare la sua attenzione ad una
cavalla da corsa prima e ad un gatto rosso nel finale) sono l’elemento su cui
lavorare per la dottoressa Melfi («Ah paesana! Mammà era più contente se mi
fidanzavo con te!» Cit.), qui interpretata da una Lorraine Bracco nel ruolo
della vita, anche lei arrivata dritta da “Quei bravi ragazzi”, riveste i panni
di un’analista, all’apparenza algida, in realtà anche lei un vulcano di
emozioni sotto la facciata distaccata, che può sfogare a sua volta solo con il
collega analista (interpretato da una delle tante facce note di questa serie,
il grande Peter Bogdanovich), opposta in tutto a Tony, nell’etica, nel
combattere gli stereotipi sugli Italo-americani, ma abilissima nel trattare con
l’intrattabile capo della famiglia Soprano. Per me tra i difetti della serie
(piccoli eh!) ci sta proprio il modo in cui la Dott.ssa Jennifer Melfi venga
messa progressivamente da parte nel corso delle stagioni, fino alla sua fin
troppo frettolosa uscita di scena prima del finale nella sesta stagione, anche
perché detta fuori dai denti, nessuno ha mai saputo portare in scena il transfert
medico-paziente meglio di questa serie, per altro spiegandolo alla perfezione
al pubblico senza bisogno di lunghi spiegoni (come farebbe oggi qualunque altro
programma o episodio di “In treatment”), ma solo per immagini, come si fa nel
miglior cinema.

Hanno fanno più per la psicologia le gambe di Loraine Bracco che tanti trattati sul tema.

Anche perché l’episodio 3×04 (“Employee of the Month”) è il
capolavoro nel capolavoro, a parte che contiene una delle scene più violente
mai viste sul piccolo schermo, quella che ogni volta mi annoda le budella,
anche se non la più violenta in assoluto, per quella abbiamo dovuto attendere
quel pazzo di Ralph Cifaretto, interpretato da Joe Pantoliano che da solo, è
riuscito a provocare una fuga di abbonati HBO per eccesso di violenza espressa
(storia vera).

Ralph mentre guarda gli abbonati fuggire a gambe levate.

No, l’episodio 3×04 è una prova incredibile di Lorraine
Bracco, che potrebbe allungare la mano e usufruire dei “servigi” (chiamiamoli
così) del suo assistito, ne avrebbe tutte le ragioni, ma come il commissario
Gordon in The Killing Joke, si affida
ai suoi valori e riassume la sua fermezza in quel «No» secco, che conclude la
puntata. Piccolo tocchi d’arte l’ho già detto vero?

Potri stare qui due anni e mezzo a decantare le lodi di una
serie che ha fatto la storia, grazie alla prova dolente, feroce, ironica e
sofferta di James Gandolfini, oppure passando attraverso ognuno dei personaggi
di contorno, dalla “first lady” Carmela Soprano, Edie Falco si è portata a casa
un sacco di premi per il suo ruolo della vita e sono tutti meritati. Perfetta nel
rappresentare una donna tosta e fragile, annoiata dalla sua condizione di “moglie
della Mafia”, fedelissima e testarda senza mai scivolare nello stereotipo.

Ha anche una mira notevole!

Oppure si potrebbe sottolineare l’importanza di Christopher
Moltisanti (Luca Laurenti Michael Imperioli), il delfino designato di
Tony, incastrato nelle sue pose da duro, effetti collaterali del suo ruolo, in
realtà rappresentante di una generazione annoiata, con sogni di gloria facili
anche nel cinema, visto che da solo Chris rappresenta la quota fanatici della
settima arte, quando litiga con Jon Favreau (un’altra faccia nota, insieme a
che so, Steve Buscemi, l’altro Tony destinato ad ereditare la corona sì, ma
solo in “Boardwalk Empire”) oppure quando produce un Mafia-Slasher che ancora
oggi guarderei molto volentieri, come Cleaver.

“Ma vaffanculo Cassidy, tu ti guarderesti qualunque horror!”

Tra i miei preferiti senza ombra di dubbio il tirchio ma
fedelissimo Paulie Gualtieri (Tony Sirico) con i suoi capelli da puzzola, un
vero gangster con passato criminale che è stato dentro diverse volte, che qui interpreta
lo sgherro di un gangster (storia vera).

Il modo di gesticolare di Paulie è leggendario.

Anche se il mio preferito resta, anche
per motivi puramente Springsteeniani il fedele consigliere, Silvio Dante interpretato
da quel mito di Steven “Little Steven” Van Zandt, rockstar prestata alla
recitazione e alle imitazioni di Al Pacino, uno che è andato talmente sotto con
il ruolo, che poi è tornato sul luogo del delitto con la sottovalutatissima Lilyhammer.

E Al Pacino… MUTO!

Ci sarebbero un milione di argomenti da affrontare sulla
serie che ha cambiato tutto, perché ha assecondato la mia naturale propensione
per fare il tifo per i cattivi, Tony Soprano è senza ombra di dubbio un
criminale, ma è impossibile non riconoscersi nei suoi dubbi e tormenti, senza
di lui non avremmo mai avuto i protagonisti di “Mad Men”, Nucky Thompson, Walter White, Frank Underwood, o le varie derive Narcos del piccolo schermo. Per una serie che ha episodi singoli
che rasentano il puro genio (vogliamo parlare della caccia al russo di Chris e
Paulie?) e un finale che ancora si mette in tasca quello di qualunque altra
serie per polemiche, dubbi e teorie al limite del complottistico generate.
Volete la mia? Ovviamente SPOILER
nel prossimo paragrafo
:

Se leggerete senza aver visto il finale, dovrete fare i conti con Tony.

«DING!» oltre a generare tensione con un campanello (prima
di Breaking Bad) e aver reso iconica “Don’t
stop believin” dei Journey (prima di “GLEE”), quel finale è il paradosso del gatto
di Schrödinger applicato alla serialità, Tony è allo stesso tempo vivo ma già
morto, mai un uomo che va in bagno o Meadow che ci mette un mese a parcheggiare
(ovvero il niente) ha creato così tanta tensione, ogni «DING!» Potrebbe essere
quello fatale oppure un bel niente, non importa poi davvero, perché se scegli lo stile di vita di Tony, lo sai che ogni momento è quello buono per sfuggire
ad un attentato (anche una coltellata alle spalle, come nel caso di zio Junior)
oppure di lasciarci i calzini, alla faccia di chi crede che questo genere di
opere non facciano che glorificare le figure dei mafiosi, quei lunghissimi
dieci secondi di schermo nero, in cerca di una prova, un indizio definitivo
sulla condizione dei Soprano, sono quello stato di non vita e non morte, che
chiunque decida per una vita criminale vive ogni secondo, non riesco a pensare
ad un finale migliore di questo. Fine
del paragrafo con gli SPOILER
.

Così vi ho messo un’immagine del finale, senza rovinare la visione a nessuno (al massimo vi farò venire fame)

Anche se per certi versi, forse anche complice il triste
destino di James Gandolfini, che ha pagato caro il suo stile di vita, viene da
pensare che Tony sia ancora in giro, con le torri gemelle (scomparse dalla
sigla nella quarta stagione, poi ditemi che i Soprano non sono stati
perseguitati dalla sfortuna) nello specchietto retrovisore, forse lo è davvero perché il
lascito della serie di David Chase, che ha cambiato la serialità televisiva per
sempre è davvero ancora in circolazione, magari con il sigaro in bocca, New York
alle spalle, mentre imbocca la New Jersey Turnpike, verso quella palude
nebbiosa che è il Jersey con gli Alabama 3 nelle orecchie, io come i Journey
non ho smesso di crederci, perché il lascito di questa grande serie è ancora
sotto gli occhi di tutti, Italo-americani nel mondo ma “Made in America” nel
midollo, ciao guagliò! Fate i bravi (ragazzi).

… Got yourself a gun (cit.)
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