Forza. Su, forza ditelo, lo so che lo state pensando, di tutti i film che avreste pensato di vedere spuntare qui sulla Bara Volante, questo era proprio quello su cui non avreste mai scommesso, anzi magari qualcuno, specialmente i lettori più giovani, potrebbero proprio non averne mai sentito parlare. Ma siccome ho una predilezione per questa follia, dopo averlo rivisto per l’ennesima volta ho pensato: cavolo perché non scriverne!
Oggi come oggi, siamo abituati a pensare alla Disney come al colosso dell’intrattenimento che tutto può, dal licenziare James Gunn per alcuni suoi vecchi tweet e tenere sotto contratto tutti, dalla Marvel alla saga di Star Wars. Questo solo perché oggi ha deciso di tenere sotto controllo lo scacchiere mondiale dell’intrattenimento, prima, invece, a preoccupare la Disney erano fronti d’altro tipo, decisamente più caldi.
Il 7 dicembre del 1941, la basa navale di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii viene attaccata dalle forze giapponesi, gli Stati Uniti che per l’unica volta nella loro storia si erano trattenuti dal fare la guerra con qualcuno, capiscono che tocca tornare alle vecchie abitudini, da una parte, la grande pozzanghera dell’Atlantico dove si combatte già da tempo contro quel tizio che ha fregato i baffi a Charlie Chaplin, da questo lato, il Pacifico, un tempo sicuro ora calmo solo nel nome visto che i Giapponesi si sono fatti sotto. Nel tentativo di rinsaldare i rapporti interni di una nazione spinta oltre gli oceani a combattere, il dipartimento di stato degli Stati Uniti chiama tutti a rapporto, l’obbiettivo sfornare opere che servano a ricordare a tutti la grande fratellanza tra le nazioni dello stesso continente e siccome i Canadesi sono storicamente considerati dei “Femminielli” meglio tenersi buoni quelli laggiù oltre il confine, anche perché pare che ai crucchi piaccia svernare nei Paesi caldi, l’avete letto tutti “I ragazzi venuti dal Brasile”, no? Beh, allora avrete visto il film almeno! Insomma, Disney, fai qualcosa, dai, veloce, volare!
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Ehi! Volare si, ma non nel vero senso della parola! |
Non avendo uno straccio di idea e, siccome gli Americani considerano tutto quello che sta fuori dai confini del Paese della torta di mele come il terzo mondo, la Disney si gioca la carta meta cinematografica: “E se facessimo un film su una troupe della Disney che va alla scoperta dell’America latina?”. Aggiudicato! Così nasce I tre caball… No, “Saludos amigos” (1942), mediometraggio di 42 minuti che penso di non aver mai visto per tutta l’infanzia, ma ho rimediato quando ho scoperto che la mia Wing-Woman ed io abbiamo la medesima passione per questo pazzo pazzo pazzo film della Disney (d’altra parte, chi si somiglia si piglia) quindi, siamo andati a fare i compiti.
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Eravamo due “Amigos” al bar. |
Niente di speciale, “Saludos amigos” è una cosetta al limite del didattico, scritta e pensata più che altro per mostrare agli Americani usi e costumi locali. Il corto diviso in ideali capitoli inizia con Paperino, perfetta incarnazione del turista americano all’estero che nei pressi del Lago Titicaca si scorna con un lama più ostinato di lui. Si continua con il piccolo aereoplanino antropomorfo Pedro (giusto qualche anno prima di Cars) impegnato a consegnare la posta sfidando le bufere Cilene, per poi concludere con il cowboy americano Pippo che nella Pampa argentina ci spiega a suo modo che da quelle parti i cowboy li chiamano gauchos. Anzi, a dirla proprio tutta, in “Saludos amigos” fa il suo esordio anche il pappagallo brasiliano José Carioca alle prese con samba e altra musical locale, giocando sul fatto che “Aquarela do Brasil” (si, QUELLA Aquarela do Brasil) in Portoghese vuol dire “Acquerello del Brasile”, quindi un pennuto disegnato ci sta come il cacio sui maccheroni, o gli spaghetti fate voi.
In generale, “Saludos amigos” piace, si becca un premio come miglior documentario (evidentemente non sapevano come etichettare la stramba operazione) e con alle spalle i prestiti federali la Disney capisce che è ora di osare. Se chiedete a me, la casa di produzione di zio Walt ha speso tutto in droga, ma è una fonte che non sono riuscito a provare, quindi diciamo solo che si sono messi al lavoro, il risultato finale, questa volta, è “I tre caballeros” che viene presentato il 21 dicembre del 1944 a città del Messico, con la “Seconda” prossima alla fine in favore degli Alleati (beccati questo imitatore di Chaplin!) e nel cuore tanta droga creatività.
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«Drog… Ehm creatività? A me piace tanto la creatività, arrivo!» |
Fino a quel momento la Disney si era limitata a portare sul grande schermo fiabe come “Biancaneve e i sette nani” (1937), “Pinocchio” (1940), “Dumbo” (1941), il massimo della predisposizione all’uso di sostanze psicotrop… Ehm, alla fantasia sfrenata era, appunto, “Fantasia” (1940), parecchio avanti per i suoi tempi, ma classico nello spirito, fin dalla scelta delle musiche, Bach, Cajkovskij, Beethoven, tutto nelle mani del topastro simbolo della casa di produzione il morigerato Topolino.
“I tre caballeros”, invece, gioca proprio in un altro campionato, anzi, secondo me è pure un altro sport, una sbornia, anche musicale dalla quale la Disney non si ripiglia per parecchi titoli a venire (“Musica maestro” 1946, “Bongo e i tre avventurieri” 1947, “Lo scrigno delle 7 perle” 1948 e “Le avventure di Ichabod e Mr. Toad” 1949), tutti diretti a turno dai tre caballeros che hanno diretto “I tre caballeros”: Norman Ferguson, Clyde Geronimi, Jack Kinney. Insomma, alla Disney la festa non dev’essere stata malissimo perché ci hanno messo cinque anni a smaltire l’effetto, altro che le scope di saggina del topo vestito da mago!
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Come ho imparato il concetto di meta cinematografico… |
In realtà, “I tre caballeros” ha anticipato l’unione sul grande schermo di attori in carne ed ossa, cartoni animati e canzoni senza tirar via la mano che sarebbe stata la quasi normalità negli anni ’60 e ’70 con titoli come “Mary Poppins” e “Pomi d’ottone e manici di scopa” e, povera stella, lui ci prova anche a partire piano, con una certe linearità di fondo, ma poi gli sale semplicemente l’effetto e ciao, non prende più prigionieri.
Il giorno del suo compleanno (ovviamente di venerdì 13), Paperino riceve dai suoi amici dell’America latina un regalo, un proiettore cinematografico con cui inizia a seguire le vicende di alcuni suoi strambi “Cugini” come si direbbe qui da noi “Diggiù!”, s’inizia con il pinguino freddoloso Pablo che, insofferente del freddo del Polo Sud, cerca di emigrare verso Paesi più caldi con una barca improvvisata ricavata da un blocco di ghiaccio. Cose che fanno male al cervello se come me avete visto questo film tante volte da bambino? Poseidone che con il tridente solleva la linea dell’equatore per far passare la barchetta di Pablo, vi assicuro che dopo non potrete mai più guardare un mappamondo con gli stessi occhi.
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…In compenso per via di questa scena, ho disimparato la geografia. |
Se questo non fosse già abbastanza per un cervello durante gli anni dello sviluppo, ci pensa il corto successivo, la storia di un piccolo Gaucho, un Gaucito, che sulle montagne argentine scopre un burro, un burrito, che non è una cosa che si mangia, è un asinello che, però, vola dotato di ali, perché i pennuti in tutte le sue versioni dominano incontrastati la prima parte del film. Dopodiché, il salto carpiato triplo messo su dalla Disney diventa una continua contaminazione tra realtà e finzione, tra immagini cinematografiche che fanno irruzione nella narrazione del film, a rompere gli indugi e a candidarsi araldo della follia del film, non può essere che lui, definito “Uno degli uccelli più eccentrici”, io lo definirei proprio un gran rompicoglioni, sto ovviamente, parlando dell’Aracuan.
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«Il caos regna» (Cit.) |
L’Aracuan attraversa lo schermo (letteralmente!) e vi assicuro che non potete mancarlo, anche perché la sua canzoncina (Alapapapapap apadia aracuan! Alapa pa pa pa!) vi si pianterà nel cervello per ore, anzi, a distanza di anni ancora oggi ogni tanto me la canticchio, questo giusto per dirvi dei miei problemi. A tutti quelli che considerano il Joker di Nolan come il massimo portatore di anarchia nel cinema: è solo perché non avete mai visto l’Aracuan disegnare binari con il gesso scatenando l’inferno sullo schermo, altro che navi e battelli!
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Sono un cane Aracuan che insegue le macchine. Non saprei che farmene se le prendessi! (Cit.) |
Dopo l’irruzione dell’Aracuan, le porte della percezione sono definitivamente aperte, il primo a passare da questa parte è José Carioca, con lui Paperino smette di essere spettatore della vicenda e da qui diventa “Paura e delirio a Bahia” («Paperino, Ma tu sei mai stato a Bahia?»).
Paperino e Josè Carioca si mettono a ballare per le strade di Salvador de Bahia sulle piste di Aurora Miranda (sorella della più famosa Carmen), ora da bambino la canzoncina della signorina mi sembrava solo una cosa terribilmente orecchiabile che faceva più o meno “Us chicchi ya ya… UE ue ue!” (la mia pronuncia è degna di quella di Paperino), in realtà, solo rivedendolo ora ho capito, eppure Josè Carioca lo dice proprio: “Os quindines de yaya” vuol dire che lei vende i dolci. Avete capito i dolci? È tutto un METAFORONE! Infatti, in un attimo la signorina è circondata da galletti che lottano per la sua attenzione, non so se è effetto di tutta questa psichedelica spinta, ma capire il significato della canzone mi ha fatto sentire come quegli ubriachi che pensano di aver capito i segreti della vita dopo aver svuotato un paio di bottiglie di quelle ad alta gradazione, però!
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Ma che gli fai tu alle donne Paperino. |
La sfida tra galletti diventa letterale, infatti due dei marinai che si sfidano a colpi di ballo vengono rappresentati come galli da combattimento e da qui in poi al film oltre che l’effetto delle sostanze, sale pure l’ormone! Sì, perché Paperino diventa una specie di erotomane che importuna le ragazze sulla spiaggia di Acapulco, ma non prima aver passato tutte le fasi di quella che Paolo Rossi definiva come i sette livelli dell’ubriachezza molesta, compreso il livello tre (cantos regionales) quando Paperino assiste alla ricerca di un posto per la notte da parte di Maria, Giuseppe e il piccolo Gesù e il loro melodrammatico «No hay posada».
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Quando Paperino è diventato il personaggio preferito di Weinstein #Metoo |
Ma l’ultimo livello, il settimo, con il suo “Y apoteosis final” è rappresentato dall’entrata in scena del terzo Caballeros, il messicano Panchito, uno spilungone esagitato con sombrero e pistole che scatena il delirio e qui davvero non mi tiene più nessuno, a casa Cassidy anche le cane iniziano a cantare una roba tipo «Los tres caballeros, parole a caso in finto spagnolo che non so pronunciare, nosotros!!».
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Potrei guardare questi tre matti per ore! |
Ma il delirio finale di questa follia intitolata “I tre caballeros” per me riesce a mettere in un angolo anche la scena più “Boracha”, ma firmata dalla Disney, ovvero quella degli elefanti rosa di “Dumbo”, perché qui un Paperino in pieno delirio si ritrova nel pieno della sbornia a ballare con una cavallerizza messicana armata di frustino, tra Cactus che si muovono a ritmo di “Jesusita en Chihuahua”, uno dei brani simbolo della rivoluzione messicana.
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Non provate a darle della pianta grassa, potrebbe offendersi! |
Quando si arriva alla fine, l’unica costante che ho fin dalla mia prima visione da bambino, fino alla prossima che probabilmente arriverà molto presto perché con questo film a casa Cassidy ci siamo andati sotto malamente, è sempre la stessa: questa pellicola è la prova che alla Disney un tempo girava un sacco di roba e pure parecchio buona a giudicare dai risultati! Ribadisco: non ho mai potuto comprovare questa teoria, ma gli effetti parlano da soli, anzi a volte cantano pure!
Insomma, questo folle film, nato con intenti di buon vicinato e che oggi ancora galoppa bello saldo sulla sella, ormai ben oltre i settant’anni di onorata sbornia è ancora una delle massime espressioni di gioiosa follia mai viste al cinema, se lo conoscete, ne portate ancora i segni, se non lo avete mai visto, sappiate che crea una certa dose di dipendenza, poi non ditemi che non vi avevo avvisato, non voglio vedervi andare in giro bofonchiando: «Smetto quando voglio!»