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Ichi the killer (2001): l’amore fa male (ma Miike di più)

Quando Ivano ha annunciato che avrebbe portato avanti lo speciale The Pleasure of pain II non ho avuto dubbi, dovevo essere della partita anche io! In fondo l’iniziativa di Obsidian Mirror è venuta fuori parecchio bene e mi sono divertito molto a contribuire. Problema: cosa m’invento per un secondo capitolo? Mi è diventato presto chiaro che era il momento di affrontare Ichi il killer!

Il 2001 è stato un anno magico per Takashi Miike, il prolifico pazzoide giapponese, classe 1960 che ha da poco sfondato il muro dei cento film diretti in carriera e ancora non accenna a rallentare. Se non bastasse la sua incredibile produttività, a far parlare di Miike è la sua fama che lo precede in tutto il mondo fin da quel capolavoro di “Audition” (1999). Nel 2001 il buon Takashi ha leggerissimamente esagerato sfornando sette film (!), cosette come “Visitor Q”, una pellicola che dovreste proprio vedere se pensate che la vostra famiglia sia strana che, comunque, sembra un film da prima serata di Canale 5 se confrontato con “The Happiness of the Katakuris” una roba che mescola splatter, animazione a passo uno ed… Ehm, Karaoke.

Ma senza ombra di dubbio il film che ha definitivamente sdoganato il folle genio di Takashi Miike è stato “Ichi the killer” che, visto il tema trattato, casca a fagiolo per la rubrica “Pleasure of pain” ed ancora oggi, a diciassette anni dalla sua uscita, resta uno dei titoli in grado di prendere a sberle anche gli stomaci più tosti.

«Diamoci una mossa, abbiamo qualche stomaco di cinefilo da prendere a sberle»

Takashi Miike, per quanto mi riguarda, ha un solo difetto, beh due a dire la verità, ma per la sua congenita follia non possiamo farci niente, limitiamoci ai difetti cinematografici. Al pari di Quentin Tarantino (che, non a caso, va pazzo per il cinema di Miike) i suoi estimatori sono in grado di fare più danni della grandine al cinema stesso. Sì, perché in troppi hanno capito che per fare film come Miike, sia sufficiente sbudellare personaggi sul grande schermo per risultare autoriali, quando, invece, quello che dovrebbe essere chiaro è che Miike riesce ad andare all’assenza dei personaggi, a fare poesia con le budella, un’idea personalissima di cinema che riesce bene solo a lui, gli imitatori dovrebbero astenersi.

«Ecco, è passato Miike a fare un altro massacro. Poi tocca sempre a me pulire!»

Inoltre, il frullatore mentale di Takashi frulla e spara fuori materiale rielaborato senza distinzione tra cultura così detta alta, o cultura bassa, non è inusuale vederlo adattare per il grande schermo qualche Manga, come nel caso di “Ichi the killer” (Koroshiya Ichi) scritto da Hideo Yamamoto, da non confondere con il direttore della fotografia di fiducia di Miike che si chiama nello stesso modo, ma è solo un caso di omonimia e non cominciate a dire che tanto gli Orientali sono tutti uguali perché non è vero, ok?

Cosa vi dico sempre dei primi cinque minuti di un film? Che mettono in chiaro tutto l’andamento. Quelli di “Ichi the killer” sono il biglietto da visita di tutta la follia che vedremo nei 120 successivi minuti. Il boss del crimine Anjo viene rapito e brutalmente massacrato, noi spettatori sappiamo fin da subito che l’uomo è più morto della disco music, a non saperlo, ma soprattutto a non volerci credere è il più fedele dei suoi uomini, lo yakuza sfregiato e sadomasochista Kakihara e quando dico sadomasochista parlo anche del modo in cui va conciato in giro che da solo provoca dolore.

«Ah quindi non ti piace la mia giacca? Va bene, non me la lego certo al dito»

L’omicidio viene attribuito al letale assassino Ichi, misteriosissimo, ma famigerato per i suoi metodi “Sbudellosi” di far fuori la gente. Viene da pensare che un assassino che costringe quasi sempre una squadra con tute e mascherine a dover ripulire dopo il suo passaggio («Anche questa volta ha fatto un macello») sia una specie di bestia, un incrocio tra Hannibal Lecter e una granata a frammentazione soltanto più incazzata, beh più o meno, perché, in realtà, Ichi è un ragazzo che definire problematico sarebbe peccare di ottimismo, mettiamola così, i ragazzi di “Mery per sempre” (1989) a suo confronto sembrano studenti modelli, ecco.

Anni di Judo mi hanno lasciato delle cose e prima di sentirvi iniziare… Sì, facevo Judo come in una canzone di Elio e le storie tese, allora? Dicevo, il Judo mi ha insegnato come far volare a terra qualcuno in modo creativo e a contare fino a dieci in giapponese. Nozione che mi torna utile oggi, perché Ichi, oltre ad essere un nome molto popolare in Giappone vuol dire anche uno, quindi stiamo parlando di Ichi, l’assassino numero uno.

Ricky Bobby Ichi la storia di un uomo che sapeva contare fino a uno.

Peccato che il nostro numero uno entri in scena dopo un paio di minuti di film, con una tuta in gomma (ovviamente con un enorme numero uno giallo sulla schiena) che lo fa sembrare la parodia di un supereroe e la cosa più eroica che fa è… Beh, diciamo masturbarsi mentre spia un disgraziato gonfiare di botte una prostituta, non proprio Batman se vogliamo dirla tutta. Come fa Miike ha mettere in chiaro cosa stava facendo Ichi nascosto dietro la finestra? Vi prego non fatemelo descrivere, ma se tenete duro dopo i primi cinque minuti di film, tranquilli, tanto dopo peggiora (storia vera).

Non è per la trama che “Ichi the killer” verrà ricordato, di suo sarebbe uno Yakuza Movie (genere popolarissimo in Giappone) piuttosto lineare, hanno ucciso il boss, il suo fedelissimo deve vendicarlo e al massimo, staremmo qui ad aspettare lo scontro finale tra Kakihara e Ichi, a voler essere generosi, ci sarebbe la sottotrama di chi ha incastrato Ichi per l’omicidio. Insomma, niente di rivoluzionario, se non fosse che tutto è stato elaborato dal cervello a frullatore di Takashi Miike e il risultato finale è ancora qualcosa di unico nel suo genere.

«No, non esco stasera, sto guardando un film di Takashi Miike. Hai del Travelgum per caso? Sai per la nausea»

Dettaglio fondamentale prima di continuare, a differenza di noi Orientali, i Giapponesi quando adattano per il grande schermo un’opera di fantasia, come potrebbe essere uno dei loro Manga, non si fanno troppi problemi per risultare realistici a tutti i costi, un limite da cui noi Occidentali non riusciamo a svincolarci. Per i Giapponesi, invece, se storia di fantasia dev’essere che lo sia, quindi Ichi con le sue lame retrattili sui talloni può dividere a metà le persone come faceva Goemon con la sua spada in quasi tutti gli episodi di Lupin. Immaginate questa mancanza di limiti, nelle mani di uno come Takashi Miike cosa può generare!

Senza troppi vincoli di realismo quindi, Miike apre il film con una regia acidissima e popola la pellicola di personaggi assurdi partendo da Karen, la prostituta dalla parlata Nippo/Yankee interpretata dalla bellissima Paulyn Sun (nota anche come “Alien Sun” e ci sarebbe da indagare su questo soprannome), oppure il viscido e manipolatore Jijii, interpretato da un altro che quando distribuivano la follia, era tra i primi della fila insieme a Miike, ovvero Shinya Tsukamoto il regista della trilogia Cyberpunk di  “Tetsuo”, insomma una bella banda di matti!

Siamo una banda di bastardi, al soldo dell’uomo del Giappone (Cit.)

Eppure, il più colorito di tutti resta Kakihara (Tadanobu Asano) capello alla Billy Idol, guance sfregiate ben prima del Joker di Heath (detto BIP) Ledger e una serie di giacche e giacchette, molte delle quali color viola che davvero sembrano state scippate dall’armadio della storica nemesi dell’Uomo Pipistrello. Sulla questione guance, poi, Takashi Miike regala al personaggio un’entrata in scena memorabile, lo vediamo di spalle intento a fumare una sigaretta con il fumo che, invece, di uscire come dovrebbe fare da sopra, viene sparato fuori dai lati della faccia, entrambi tenuti insieme da un paio di graffette, alla faccia di chi dice che il Punk è morto.

«Fumare fa male. Ma io posso farvene di più»

Kakihara è pronto a tutto pur di ritrovare il suo Boss, anche a pestare i piedi fregandosene della gerarchia interna della Yakuza, lo scopre molto presto Suzuki (Susumu Terajima) vittima dell’interrogatorio fatto in puro stile Kakihara. Il poveretto finisce appeso per la pelle della schiena a dei ganci appesi al soffitto, un po’ come se fosse uno dei quarti di bue di Rocky, purtroppo per lui ancora vivo. Bisogna dire che persone appese al soffitto e un uso, diciamo libertino, degli spuntoni acuminati è un po’ un marchio di fabbrica del cinema di Takashi Miike (se avete visto “Audition” non potete certo dimenticarlo), ma tutto questo serve a raccontarci Kakihara un sadomasochista che ama l’olio da frittura e se la ride felice, mentre tortura Suzuki, nemmeno l’intervento dello Yakuza più alto in grado lo preoccupa, anzi, se la ridacchia felice come se il dolore di Suzuki sia spassoso come l’ultima puntata dei Simpson.

«Dehihiho, mitico! Guarda come si agita, nemmeno lo stesso punzecchiando con uno spillone, ah no! Lo sto facendo!»

Il rapporto con il dolore di Kakihara lo caratterizza, per farsi perdonare la mancanza di rispetto nei confronti di Suzuki, fa gioiosamente ammenda, sacrificando qualcosa che gli dà piacere, per sua fortuna Kakihara si definisce un tipo goloso, quindi ti affetta la punta della lingua (il tutto in favore di macchina da presa) per poi donarla come se nulla fosse a Suzuki. Non oso pensare cos’avrebbe fatto se fosse stato lussurioso, invece che goloso, quindi dobbiamo ancora considerarci fortunati, perché di sicuro sulla violenza Miike non tira mai via la mano, ma nemmeno Kakihara!

«Lo sai che carne ci vuole per il bollito alla piemontese?»

In tutto questo, non mancano dosi abbondanti di umorismo (nerissimo!), un attimo dopo essersi asportato un pezzo di lingua Kakihara risponde al cellulare come se nulla fosse, di ancora più spassoso, se riuscite a stare al gioco, la dichiarazione d’amore di Karen a Kakihara, che pur di diventare la sua donna, inizia a dargli supporto nello strappare le guance ad un poveretto in cambio di informazioni.

Tipo quando vostra zia vi dava i pizzicotti sulle guanciotte da bambini.

Ed è qui che “Ichi the killer” inizia a trovare un senso, Kakihara compie una ricerca disperata del suo Boss, non perché sia innamorato di lui nel senso omosessuale (o in qualunque modo sessuale) del termine, quanto perché da sadomasochista puro, aveva trovato nel Boss l’unico in grado di picchiarlo e malmenarlo nel modo in cui ha bisogno. Questo diventa chiaro quando Karen cerca di prenderlo a frustate con tutta la sua forza, ma lasciando Kakihara molto annoiato, le sue parole alla ragazza sono il manifesto programmatico del personaggio: «Se vuoi fare male a qualcuno, non devi provare empatia per lui, devi provare la gioia del dolore che gli fai provare. Questa è la forma più alta di compassione». Purtroppo, Karen non è abbastanza per un professionista del dolore come Kakihara che inizia seriamente a pensare che Ichi, il temibile assassino, potrebbe essere l’unico in grado di massacrarlo come davvero desidera.

«Mia nonna mi picchiava più forte, mettici un po’ d’amore in quelle botte»

Allora, parliamo di questo Ichi. Il personaggio interpretato da Nao Omori è una macchietta quasi Fantozziana, un sfigato della peggio specie pressato e maltrattato da tutti, capace di andare in loop come un disco rotto quando sbagliando qualcosa fa partire la cantilena delle scuse. L’unica cosa che smuove il ragazzo sono i bulli, appena vede qualcuno trattare male un innocente, si trasforma in una bomba atomica capace di sbudellare tutto e tutti, salvo poi sprofondare nuovamente nei suoi sensi di colpa.

Alla base di questa mente devastata c’è un trauma, avvenuto come accade sempre ai Giapponesi a scuola, perché nella loro cultura votata al lavoro, gli abitanti del Paese del Sol Levante fanno tutte le loro esperienze (buone o cattive che siano) a scuola, per poi iniziare a lavorare dedicandosi solo a quello. Nel caso di Ichi, il trauma è aver assistito allo stupro di Tachibana un’amica di Ichi intervenuta per difenderlo dai bulli e finita lei stessa vittima nel modo più terribile, in una scena che Miike ci mostra solo come flashback e che a sua volta è un omaggio alla stessa (tremenda) scena di quel capolavoro di “Sonatine” di Takeshi Kitano, perché nel frullatore cerebrale di Miike ci finisce dentro tutto, anche il cinema.

Ichi da allora è un sociopatico che si eccita solo davanti alla violenza perpetuata contro i deboli, ma impossibilitato a raggiungere una vera soddisfazione, perché in un attimo PUFF! Ha già massacrato tutti dentro la stanza. Lo scenario, quindi, è chiaro Ichi e Kakihara sono poli opposti magneticamente attratti, ma allo stesso tempo sono personaggi che non troveranno mai l’amore di cui avrebbero bisogno.

Anime gemelle o nemici mortali? Sicuramente entrambi ben vestiti.

Sì, perché alla fine “Ichi the Killer” è questo: una storia di amori non corrisposti, di metà della mela che sembrano combaciare anche se non proprio in maniera perfetta, solo che per raccontare questa trama, Takashi Miike pare non salvaguardare nemmeno una parte del corpo dei suoi personaggi, in 125 minuti assistiamo a lingue e capezzoli affettati, pugni ingoiati (in una mossa marziale di difesa capace di spiazzare ogni avversario), gole e arti recisi, insomma una bagno di sangue in cui il dolore fisico dei personaggi va di pari passo con il piacere che provano del massacrare o essere massacrati.

L’apice non può che essere lo scontro finale tra Ichi e Kakihara che avviene sul tetto e vede lo Yakuza ossigenato in fibrillazione come uno scolaretto, perché è chiaro che non ti può capitare di incontrare la tua potenziale anima gemella due volte nella vita, ma con due personaggi così scombinati è altrettanto chiaro che non può essere tutto pesche e crema. Il vero dolore per loro sarà quello di continuare a non trovare reciproca soddisfazione uno dall’altro, una delusione così grande che si traduce in un suicidio tragico, normalmente si direbbe shakespeariano, se non fosse già tutto così Miikiano, quindi occhio alla ferita in mezzo alla fronte di Kakihara che è rivelatrice su come si sono svolti davvero i fatti.

«Takashi ma cosa ti fumi per fare film così?» , «Rosmarino»

Con tutti questi morti ammazzati male e tra coppie di sicari assassini, di cui uno vestito da cane (eh!?)  “Ichi the killer” è una storia di amore e dolore, soprattutto dolore, capace di mettere alla prova il vostro fegato in fatto di film, però per “Pleasure of pain” non poteva esserci titolo migliore, amatevi come ama soffrire e far soffrire Kakihara, sono sicuro che questo in vita vostra non ve lo ha augurato mai nessuno!

Ivano mi ha fatto l’onore di concludere il suo bellissimo speciale “The pleasure of pain II” proprio con questo mio (ignominioso) commento sul film di Miike, che trovate sulle pagine di Cronache del tempo del sogno, quindi vi invito a passare a trovare Ivano! Ma soprattutto leggete tutti gli altri capitoli dello speciale! Altrimenti vi prendo a frustate (tanto per stare in tema).

Sepolto in precedenza mercoledì 5 dicembre 2018

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