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Il caso Spotlight (2016): Tutti gli uomini dell’editore

Trovo che sia
bellissimo (e allo stesso tempo sconfortante) il fatto che sia compito del
cinema ricordare a tutti cosa dovrebbe sempre essere il giornalismo
d’inchiesta. Anche solo per questa ragione, “Il caso Spotlight” merita di
essere visto, se poi ci aggiungiamo anche il fatto che è un ottimo film, non so
davvero perché siete ancora qui a leggere me e non in sala.

Per quei due
che hanno deciso di restare, posso dire che Thomas McCarthy è uno che nella
vita fa l’attore, lo sceneggiatore e il regista, non ho avuto il piacere di
vedere i suoi lavori precedenti dietro la macchina da presa (“Station Agent” e “L’ospite
inatteso”), più che altro me lo ricordo per alcune delle sue parti da attore in
particolare nell’ultima stagione di “La più bella serie Tv della storia del
mondo”, ovvero “The Wire” che, guarda caso, ha più di una caratteristica in
comune con questo “Spotlight”.
Presentato
fuori concorso alla 72esima Mostra del Cinema di Venezia, il film scritto e
diretto da Thomas McCarthy è ispirato alla vera indagine iniziata nel 2001 da
alcuni giornalisti del Boston Globe, che portarono alla ribalta uno scandalo
sessuale che coinvolgeva 70 preti del Massachusetts e culminò con le
dimissioni dell’Arcivescovo di Boston. Le parole che vi mancano per avere il
quadro completo della vicenda sono due, iniziano per P: la prima è Pulitzer,
quello con cui i giornalisti vennero premiati, l’altra, è una parola orribile,
ovvero pedofilia, storia vera, purtroppo…
Il primo
titolo che viene in mente guardando questo film è, ovviamente, “Tutti gli uomini
del Presidente”, per fortuna Thomas McCarthy non si limita ad omaggiare il film
di Alan J. Pakula in alcuni passaggi, ma sforna un’opera che riesce a
recuperare l’efficacia del film d’inchiesta tipici del Cinema americano degli
anni ’70, il risultato è un film diretto, molto lineare nella messa in scena,
con davvero pochi fronzoli, ma con enorme sostanza, capace di provocare
emozioni anche trattando un tema così tremendo e delicato.



I veri Detectiveri, ma veri veri, eh?
In questo
senso “Spotlight” è un’opera potente nello smuovere le coscienze, è impossibile
non guardare il film senza schierarsi, senza prendere una posizione sui
difficili dilemmi che i protagonisti sono costretti ad affrontare, ma Thomas
McCarthy manda a segno un moderno inno al giornalismo d’inchiesta, quello
capace di scovare gli scheletri nascosti nel fondo degli armadi, di mettere in
crisi i potenti e magari, di dare voce a chi non ne ha, oppure ha troppa paura
di parlare.
Il tipo di
giornalismo che nella realtà, purtroppo, si vede sempre meno, sostituito da
inchieste che non spostano di un millimetro le coscienze, per non disturbare il
potente di turno, o ancora peggio, da giornalismo caciarone fatto per
sensazionalismo o per spettacolo. Sono sicuro che avete in mente dieci o undici
esempi di questo tipo, molti dei quali provenienti da uno strambo Paese a forma
di scarpa…
La bravura di Thomas
McCarthy è quella di sottolineare grazie alla sua sceneggiatura, come l’indagine
dei giornalisti del Boston Globe sia stata punteggiata da eventi reali che ne
hanno influenzato la direzione e l’andamento, McCarthy riesce abilmente a
prendere spunti reali e a renderli dei veri e propri colpi di scena nel film,
il tutto senza mai cedere alla spettacolarizzazione a tutti i costi, ma mantenendo
sempre un buon ritmo per tutta la durata del film.



“Chi ha messo quel tavolino dell’Ikea nel mio ufficio? Non si intona con il resto dell’arredo”.
Ad esempio, la
nomina del caporedattore Marty Baron (interpretato dall’ottimo Liev Schreiber),
il primo Ebreo a ricoprire la carica, in una città prevalentemente bianca e
super Cattolica come Boston. Questo fa di lui il candidato ideale per iniziare
una “Crociata” giornalistica contro la Chiesa Cattolica, che soltanto un altro
fatto (tristemente) reale riuscirà quasi a far passare tra le notizie minori,
ovvero: gli attentati terroristici dell’11 Settembre. Due eventi totalmente
reali, che prima fanno iniziare la storia (ovvero indagine giornalistica) e poi
rischiano di affossarla… Posso dire: storia vera? Storia vera.
I 128 minuti
della durata, risultano coinvolgenti, mai noiosi e molto appassionanti,
anche se il film pare procedere senza quasi mai un vero acuto, almeno non uno
esplicito. Il realismo nella messa in scena dei personaggi, negli sviluppi e,
soprattutto, nelle pene inflitte, mi ha ricordato proprio “The Wire”, la serie
che ha saputo rendere appassionante il realismo, senza MAI fare facili
concessioni ai finali Hollywoodiani. Sono abbastanza sicuro che Thomas McCarthy,
abbia avuto chiaro in testa il lavoro di David Simon quando ha scritto e
diretto questo film, tanto che questo “Spotlight” potrebbe completare un’ideale
trilogia sull’America (e quindi il mondo occidentale) di oggi, insieme a “The
Wire” e Show me a hero.



“Pronto Cassidy? Potresti smetterla di mettere foto di noi in riunione, fai cattiva pubblicità al film”.
L’emotività
non manca, perché al pari dei personaggi interpretati da Michael Keaton e John
Slattery, viene da ragionare sulla responsabilità, ho trovato incredibilmente
profondo il fatto che Walter ‘Robby’ Robinson (Keaton, il cui personaggio si
chiama quasi come il caporedattore dei fumetti dell’Uomo Ragno) faccia
ragionare il suo ex compagno di scuola dicendogli che potevano esserci loro al
posto di quei bambini. Vuoi per il tema, vuoi per la location Bostoniana,
difficile non pensare ad un dialogo molto simile tra Sean Penn e Gavino
Pancetta in “Mystic River”, non propriamente un filmetto da niente, diciamo non
la pizza con i fichi, ecco.
Da attore, McCarthy ha forse saputo dare qualcosa in più al suo cast, infatti il risultato
è magnifico e tutti gli attori coinvolti danno il meglio, indipendentemente
che il loro ruolo sia grande o minore (non ci sono piccole parti, solo piccoli
attori… Non so perché mi ronza in testa questa frase, sento le voci nel
cervello come Deadpool).



Michael Keaton si esibisce nelle celebre “Magnum”.

Rachele D’Adami
torna in gran forma dopo essere stata strapazzata nella seconda stagione di Detectiveri, ma anche il già citato Liev
Schreiber o Stanley Tucci mandano a segno ottime prove (anche se per Tucci non
è una novità, ma quasi una costante…), gli unici che hanno delle note più alte
sono due dei miei preferiti: Mark Ruffalo, che ha uno dei personaggi più
sfaccettati e interessanti, almeno in una scena si prende il proscenio senza
scadere nell’eccesso di recitazione (bravissimo!), l’altro è il grande Michael
Keaton, in un ruolo controverso e molto più complesso di quello che si potrebbe
pensare, è un attimo sbagliare con un personaggio del genere, lui risulta
credibile, carismatico e realistico come se non stesse nemmeno recitando, che
poi forse, è la cosa migliore che si possa dire della prova di recitazione di
un attore.



“Non farmi arrabbiare. Non ti piacerà vedermi arrabbiato”.
Ora seguitemi
nella mia follia, dopo aver recitato qui con Mark Ruffalo e di là con Edoardo Anti-Virus, vuoi
vedere che nel prossimo film, Michael Keaton lavorerà insieme e Lou Ferrigno?
Se succede davvero ricordatevi che sono stato il primo a profetizzarlo, eh? …
Tanto non accadrà mai, tranquilli!
Insomma, “Il
Caso Spotlight” è ben scritto, ben diretto e molto ben recitato, omaggia il
miglior Cinema degli anni ’70 restando comunque molto contemporaneo, inoltre
risulta coinvolgente ed incredibilmente etico, ricordando a tutti come il
giornalismo dovrebbe sempre essere e un po’ anche come noi dovremmo essere
cittadini responsabili. Il difetto è che spesso nella realtà non è sempre così,
ma di certo non è una colpa che possiamo dare al film, quella proprio no. Ho
finito, anche voi due che siete rimasti pazientemente (gracias!) a leggermi ora
potete andare al cinema… Via via, circolare, non c’è più niente da vedere!
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