Il 1985 è stato un anno interessante, anche per il cinema Western, perché i semi di tutti gli ottimi titoli sbocciati negli anni ’90 sono stati seminati qui, essenzialmente dalla scommessa di due uomini: Lawrence Kasdan e Clint Eastwood.
Visto che il Maestro Ford ci insegna che nel West tra la verità e la leggenda, la seconda vince sempre, proprio la leggenda vuole che ad una festa Eastwood abbia scommesso con Kasdan di realizzare un Western, in pieni anni ’80, in grado di fare soldi. La risposta di Kasdan non si è fatta attendere e risponde al nome del fighissimo Silverado, ma Eastwood non è certo rimasto con le mani in mano e con un budget di sette milioni di dollari messi su grazie alla sua Malpaso Productions, il nostro è tornato al genere che lo ha reso celebre con “Pale Rider”.
Dico tornato, perché il fin troppo bistrattato “Bronco Billy” (1980) aveva tutti i precetti del Western ma era ambientato in un’epoca contemporanea, quindi per ritrovare Clint sotto il cappello (la sua seconda espressione) bisogna risalire su fino a “Il texano dagli occhi di ghiaccio” (1976) che per altro ha parecchi punti in comune con “Il cavaliere pallido”, visto che entrambi sono parecchio debitori del soggetto di un classico come “Il cavaliere della valle solitaria” (1953) a cui però a “Pale Rider” va aggiunto un tocco decisamente più apocalittico, che per certi versi Eastwood aveva già trattato in Lo straniero senza nome, ma nella sua versione non doppiata, dove l’elemento sulfureo era più marcato e non piallato dall’adattamento nostrano.
I cercatori d’oro indipendenti di una cittadina montuosa del vecchio West, sono minacciati e maltrattati dal proprietario di miniere Coy LaHood (Richard A. Dysart) che manda i suoi sgherri a seminare il terrore, uccidendo tutti, cagnolini compresi. Ben protetto dalla sua schiera di vicesceriffi con spolverino (tra cui spicca il viso spigoloso del mitico Billy Drago) LaHood è intoccabile, fino al giorno in cui, quasi evocato dalla lettura di un passo della Bibbia dedicato ai quattro cavalieri dell’apocalisse, non compare il nostro Clint Eastwood.
«Non si scherza con i fiammiferi» e «Niente di meglio di un buon legno stagionato» sono le frasi con cui evita che un poveretto venga bruciato vivo, mentre prende a legante i suoi persecutori, posso aggiungere una nota di colore? Credo che tra tutti gli stili sfoggiati da Eastwood nei suoi film, il costume di scena che indossa in “Il cavaliere pallido” sia uno dei suoi più stilosi di sempre, cappello nero con la tesa piatta, quello spolverino color ruggine (o sangue secco, fate voi) che sembra un cappotto, il vero colpo è scoprire che sotto questi abiti da duro del West, il nostro ha anche il collarino ecclesiastico che apre scenari tutti nuovi.
La versione doppiata del film, fa quasi sembrare che Predicatore, sia il nome di questo ennesimo straniero senza nome della filmografia di Eastwood, mentre in originale tutti si rivolgono a lui chiamandolo “Preacher” (nome che mi evoca sempre bei ricordi) che è un po’ un titolo e un po’ un nomignolo, anche perché il nostro predica a modo suo.
Un po’ come fa con un ancora smilzo Chris Penn, quando si presenta alla casa dei minatori che ospitano il protagonista, accompagnato dall’enorme Richard Kiel, il mitico Squalo della saga di James Bond, che riceve le gentilezze del nostro predicatore, dritto dove fa più male.
Messo in chiaro l’archetipo narrativo iniziale, Eastwood dirige come al solito come il suo rigore formale, sempre minimale ma efficacissimo, un film che per far riprendere il Western dal sanguinoso flop al botteghino de I cancelli del cielo, si rifà idealmente ai classici. Dentro questo titolo è facile trovare Anthony Mann, Howard Hawks, John Ford e ovviamente David W. Griffith omaggiato in maniera smaccata con il montaggio alternato della prima sequenza.
Va detto che proprio per questo, ad una prima occhiata il film non sembra un’opera poi così originale, ma quello che ho sempre amato di “Pale Rider” sono i dualismi, sembra sempre che Eastwood voglia mantenere un certo distacco tra la possibilità di immedesimarsi degli spettatori e il suo personaggio, quello che capiamo del predicatore sono i punti di vista, spesso opposti e contrastanti che gli altri protagonisti della storia, hanno su di lui, ovviamo l’odio di LaHood in contrasto con l’ammirazione dei minatori, ma ci si spinge anche in territori che normalmente, per un uomo di fede, dovrebbero restare illibati in tutti i sensi, le due donne del film, Sarah (Carrie Snodgress) e la figlia quindicenne Megan (Sydney Penny) hanno proprio sguardi carichi di libido per il pistolero, che come i veri eroi classici, si esibisce nel più eroico dei gesti, quello di rifiutare il sesso, per lo meno con la minorenne Megan, stracotta di lui, infatti l’invocazione del pistolero, che cavalca verso il tramonto a lavoro finito nel finale, è tutta sulle sue spalle.
Questa scelta del punto di vista degli altri personaggi sul protagonista mi ha sempre affascinato, fin dalla prime visioni di questo film, di solito in replica televisiva su Rete 4 o da quelle parti, diventa chiarissimo quando il predicatore affronta frontalmente lo sceriffo Stockburn (John Russell) e i suoi vice-sceriffi sempre in parata, li vediamo morire uno dopo l’altro, in un lungo duello uno contro tanti che, come tradizione del genere vuole, si consuma tra le strade della cittadina, ma il bello è che spesso, Eastwood non lo vediamo nemmeno, percepiamo la sua presenza perché vediamo i suoi avversari stramazzati a terra, ma solo raramente il punto da cui il predicatore spara loro, tutto questo non fa che rafforzare la convinzione di trovarsi di fronte quasi ad uno spettro, tanto che molti personaggi spesso si pongono la stessa domanda ricorrente: «Ma chi sei tu veramente?», ovviamente la storia, attraverso il numero di colpi che il protagonista sceglie di sparare addosso agli avversari, ci darà qualche indizio in tal senso, ma è proprio questo dualismo del personaggio a renderlo interessante.
“Il cavaliere pallido” è un Western in stile vecchio testamento, che in pancia si porta tutti gli stilemi del cinema classico, ma che ha saputo ripresentarli al pubblico degli anni ’80 molto bene, e con una notevole risposta di pubblico, perché a vincere la scommessa sono stati sia Kasdan che Eastwood, se Silverado ha portato a casa bei soldoni, non è stato da meno nemmeno “Pale Rider”, con quarantacinque milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti, al netto della spesa già citata di soli sette milioni (storia vera).
Insomma, scrivo sempre molto volentieri del cinema di Eastwood e ci tenevo a ricordare i primi quarant’anni di questo classico, d’altra parte lo dico sempre, la mia pensione ideale sarà ritirarmi dalle scene, cavalcare verso l’orizzonte come fa anche Eastwood qui e dedicarmi a tempo pieno a scrivere solo di Western, ma fino ad allora, ho ancora parecchi chilometri da percorrere a bordo di Bara.
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