Penso che ad Ovest di “Radici”, la miniserie televisiva del 1977, ci siano pochi altri titoli più importanti per peso specifico de “Il colore viola”, romanzo del 1982 premiato con il Pulitzer per la narrativa scritto dall’attivista per i diritti delle donne omosessuali e di colore, Alice Walker.
Da romanzo a film, nel 1985, e successivamente musical a Broadway con libretto di Marsha Norman. Poteva essere finita qui la vita artistica di un personaggio come Celie Harris? Proprio no, quindi recentemente Hollywood ha chiuso il cerchio facendo tornare in sala “Il colore viola” in un nuovo adattamento diretto da un regista specializzato in musica come Blitz Bazawule. L’ho visto sapete? Anche se preferirei non dire nulla se non proprio l’essenziale.
Trasformare in musical “Il colore viola” può sembrare una mossa azzardata ma non lo era affatto, riportarlo al cinema in una versione scintillante e “Praticamente innocua” (quasi-cit.) invece è una mossa maldestra, che spreca un ottimo cast per una confezione inutilmente laccata e a mio avviso vuota. Sarà colpa del fatto che sono più vicino a Spielberg per carnagione, sensibilità e trascorsi? Probabile ma non credo, sono convinto che tra le due versioni cinematografiche di “Il colore viola” intercorra una piccola ma fondamentale differenza: quello nuovo è stato fatto per accontentare tutti, il primo adattamento del 1985 invece è stato realizzato da qualcuno, che seppure palesemente poco a suo agio e forse, nemmeno il migliore dei registi possibili per quella storia, ha dimostrato di averla davvero capita e di saperla raccontare. Di mio continuerò sempre a preferire chi sporca il foglio mettendoci il cuore, a chi fa il compitino.
Ecco perché per fare pace con il cinema mi sono rivisto “Il colore viola” del 1985, che poi è anche un’ottima scusa per portare su questo feretro un film ad una prima occhiata poco in linea con lo stile dei soliti titoli da Bara Volante, ma in realtà diretto da uno degli eroi della Bara. Penso che sarebbe ora, se non di rivalutarlo pienamente, almeno di mettere in chiaro l’importanza fondamentale che “Il colore viola” ha avuto nel cinema di Steven Spielberg.
Il romanzo di Alice Walker è un soggetto non semplice, non solo perché racconta delle condizioni di vita delle donne afroamericane all’inizio del ventesimo secolo, tra violenze domestiche, povertà e razzismo, ma lo fa in forma epistolare, la storia, raccontata attraverso il punto di vista della protagonista Celie, è narrata attraverso lettere indirizzate prima a Dio e poi alla sorella Nettie, che seguono l’arco narrativo della donna, quindi diventano sempre meno sgrammaticate seguendo la presa di coscienza e la crescita di Celie. Insomma una trama legata al testo, difficile da trasformare in cinema, perdipiù ad Hollywood dove la rappresentazione dei personaggi femminili di colore è sempre stata sullo stereotipato andante. Se poi a proporti l’idea di un adattamento, sono quelli della Guber-Peters Company, nella figura dei fondatori Peter Guber e soprattutto quel fulminato di Jon Peters (Licorice Pizza lo avete visto no? Ecco) normale che Alice Walker non fosse proprio convinta, nessuno crede davvero alla storia del cambiare il sistema dall’interno, specialmente se sei una donna, di colore e omosessuale.
Immagino dopo un bel po’ di notti insonni, Walker accettò a patto che il 50% delle persone coinvolte, davanti e dietro alla macchina da presa fossero selezionate tra le varie minoranze, anche se ad un certo punto, la prima bozza di sceneggiatura scritta di pugno da Alice Walker, venne rivisita, ampliata e insomma riscritta da Menno Meyjes, che qui fa un lavoro ottimo, ma cosa vi dicevo prima sul cambiare il sistema dall’interno? Mentre il nome del regista era ancora terreno di mediazione tra la parti, a risolvere il problema ci pensò uno dei produttori del film, oltre che compositore della notevole colonna sonora e in generale, mito. Sto parlando di Quincy Jones che non aveva dubbi: ispettore Spielberg il caso “Il colore viola” è tuo.
No aspè Quincy, come mio? Ma mi hai visto? I dubbi di Spielberg riguardo al soggetto erano più o meno questi, ma il leggendario musicista si è giocato l’asso nella manica: «Beh non dovevi mica essere un alieno per dirigere E.T., no?» (storia vera). Può sembrare strano, ma anche Alice Walker, inizialmente scettica nei confronti di Spielberg, capì che poteva essere il regista giusto proprio grazie al suo film sull’alieno in fissa con il telefono, a pensarci i punti di contatto ci sono: in entrambi i casi abbiamo protagonisti candidi, che guardano al mondo in un modo molto Spielberghiano, malgrado l’ostilità mista a disgusto che la maggior parte delle persone attorno a loro hanno nei loro confronti. Il fatto che Spielberg, abbia accettato di lavorare per il minimo sindacale imposto dalla Directors Guild (quaranta mila fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti, contro i suoi soliti quindici milioni dello stesso conio) ci dice di un’operazione che per Spielberg è stata palestra.
Parliamo dell’eterno Peter Pan, il ragazzo prodigio che ha cambiato per sempre le regole dell’industria cinematografica americana, il campione del mondo della nostra iconografia condivisa infantile, che nel 1985 proprio con “Il colore viola” è diventato artisticamente grande, da un certo punto di vista emancipandosi dal suo grande “padre” cinematografico, ovvero John Ford, visto che per la prima volta qui le protagoniste sono femminili, ma senza cadere troppo lontano dall’albero (non parla a suo modo di razzismo e sorelle separate anche “Sentieri selvaggi”?), anche perché senza il passo fatto oltre la soglia, rappresentanto da questo film, non avremmo avuto il successivo e bellissimo “L’impero del sole” (1987) ma nemmeno Schindler’s List e poi giù fino ai vari “Amistad” (1997).
L’emancipazione di Spielberg va di pari passo con quella di Celie, d’altra parte forse un ragazzino di origini ebree qualcosa da dire su questa storia di minoranze l’aveva anche, per Spielberg poi, lavorare lontano dai grandi budget a cui è sempre stato associato è stata un’ottima scuola, una sorta di secondo esordio per lui, ma un esordio a tutti gli effetti per buona parte del cast, a partire da una straordinaria Whoopi Goldberg, all’epoca cabarettista di successo, scelta da Walker pensate un po’? Dopo averla vista esibirsi della sua personale imitazione di E.T. (storia vera), i famosi sei gradi di separazione che spesso sono anche meno.
Esordio assoluto e fulminante anche per Oprah Winfrey nei panni di Sofia, già un’icona della comunità afromericana, qui risulta impeccabile per il ruolo, esattamente come Danny Glover, una prova lontana dai personaggi muscolari e bonaccioni per cui abbiamo sempre voluto bene al caro vecchio Brakko (cit.), ma incredibilmente sfaccettata, non un malvagio a tutto tondo, più che altro uno che approfitta della sua condizione di potere e dei vantaggi che in quanto uomo, anzi “Mister”, può avere o prendersi, con la forza se necessario, non incapace di redenzione, anche se solo in ultimo e non prima di aver fatto subire di tutto alla protagonista.
“Il colore viola” è puro Spielberg anche se in molti casi e in alcuni passaggi della storia, sembra proprio il regista ad essere l’alieno E.T. che si nasconde nell’armadio per osservare una vicenda che ribadisco, per eccesso di modestia o semplicemente troppo sale in zucca, lui stesso è il primo ad ammettere di non sentire completamente sua, ma parliamo comunque di un regista che da trent’anni sembra chiedere scusa per un film di cui invece, dovrebbe andare molto, ma molto più fiero, si vuole bene a zio Steven anche per questo.
La prima sequenza de “Il colore viola”, la corsa della sorelle nel campo di fiori, ovviamente viola, sembra l’idea che molti odiatori seriali di Spielberg hanno del suo cinema, accusato di essere troppo “caramelloso”, see lallerò oserei dire (a volte la mia incredibile professionalità di recensore emerge in tutta la sua potenza), in un attimo Spielberg ci tira addosso la condizione miserrima della vita di Celie, una delle tante bambine del cinema ad altezza dei più piccoli del regista di Cincinnati, con la differenza che lei ha dovuto mettere al mondo i figli frutto delle, diciamo attenzioni paterne, per non inorridire davanti ad una storia che comincia con incesto, neonati strappati alle madri e “l’amorevole” papà che non vuole vendere la figlia preferita al “Mister” interpretato da Danny Glover (il cui invecchiamento sullo schermo è gestito a mio avviso molto bene) ma in compenso si sente ben felice di concedergli l’altra, Celie, quella brutta, danneggiata ma già predisposta ai maltrattamenti e ai lavori di casa, anche i più umili. Gulp! E voi dite che Spielberg è caramelloso eh? Lallerò, secondo estratto.
In tutti questo orrore, Spielberg mantiene la gioia di vivere di Celie che per lei, passa attraverso la sorella Nettie, si sono pennellate dolcissime in questo inizio tragico, momenti di “Spielberg face” notevoli anche se il culmine di questo primo atto si gioca due scene registicamente di gran classe, l’aggressione del “Mister” a Nettie, tutta mostrata per sottrazione, con quel cavallo tra le frasche che è una soluzione visiva modernissima ma soprattutto, la drammatica scena di separazione tra le due sorelle, che in un’ideale classifica dei momenti strappacuore della filmografia di Spielberg, forse non è tra i più citati, ma dovrebbe visto che ha una potenza capace di motivare la protagonista per tutto il resto del film, ovvero il suo percorso di crescita.
Per mettere in chiaro che una fase importante della vita di Celie (e del film) è terminata, Spielberg si gioca un ellisse narrativo, come solo lui sa fare, le lettura di “Oliver Twist” prima faticosa e stentorea da parte della giovane protagonista, diventa sempre più fluida quando crescendo, si ripresenta agli spettatori con il volto di Whoopi Goldberg, e malgrado l’orrore della sua condizione, e dei personaggi attorno a lei (il rapporto tra Sofia e Harpo, tenero, tragico e comico in parti uguali) la storia procede con tocchi davvero Spielberghiani. Ad esempio mi piace molto come il tempo che cambia, quasi l’annuncio di un tornado in arrivo, coincida con l’entrata in scena di colei che per tutti alla fine, un tornado lo è veramente, ovvero la cantate Shug Avery, personaggio che è stato proposto a tutte, Chaka Khan, Tina Turner, Sheryl Lee Ralph, Phyllis Hyman e Patti LaBelle, molte hanno rifiutato, altre non hanno passato l’audizione lasciando campo libero ad una straordinaria Margaret Avery in gran spolvero.
Veniamo ai due argomenti quasi tabù de “Il colore viola”, il primo la musica: per certi verso già questa versione del 1985 è un musical, perché il futuro regista del bel rifacimento di West Side Story, fa le prove generali con due sequenze, il canto liberatorio in chiesa ma soprattutto, il corteggiamento in musica di “Miss Celie’s Blues”, un pezzo in cui la musica sostituisce i dialoghi (come si fa nei musical) mettendo in chiaro che non è un problema se i personaggi cantano, prima devi averli dei personaggi però, non delle figurine edulcorate, avvolte in costumi bellissimi, in una storia senza traccia di “sporco” nemmeno nella messa in scena, veeeeero Blitz Bazawule?
Al compitino, pulitino, precisino e pensato per accontentare tutti che è la nuova versione de “Il colore viola”, continuo a preferire l’onestà di Spielberg, uno che nel fondamentale documentario sulla sua vita, finanziato da HBO che dovreste tutti conoscere a memoria, ammette candidamente la sua posizione sull’altro tabù del film: Spielberg sapeva di avere tra le mani una storia d’amore, un rapporto che prevedeva la parola con tre “S” (no, non Sassuolo) perché anche quello è parte del processo di emancipazione e crescita di chiunque, di sicuro anche di Celie, ma semplicemente per eccesso di timidezza dell’eterno regista bambino, ha trasformato tutto quello che avrebbe dovuto essere carica erotica, in un più pudico bacio, che suggerisce in modo chiaro tutto quello che abbiamo bisogno di capire, senza urlarlo, forse in maniera fin troppo trattenuta ma decisamente in linea con lo spirito del cinema di Spielberg che no, non ha mai del tutto capito in pieno la portata e l’importanza del testo di Alice Walker, ma è stato il primo ad ammetterlo e anche così, ne ha regalato il miglior adattamento ancora in circolazione, perché ha fatto quello che un uomo di cinema dovrebbe sempre fare, trasformare la parola scritta in cinema, anche partendo da un soggetto così radicato e legato alle parole su carta.
In “Il colore viola” tutto è detto, ma poco risulta urlato, il razzismo dei bianchi è traslato su molti personaggi di colore che si approfittano della loro condizione di superiorità mentre in certi momenti, fa comunque capolino. Trovo sempre spaventosa la signora bianca, terrore al volante in stile Crudelia DeMon, che ad una prima occhiata sembra quasi un personaggio comico, in realtà è la faccia ipocrita del razzismo, quella che dice «Vi ho sempre trattati bene», ma appena vede un gruppo di neri che le si avvicina per aiutarla, pensa immediatamente ad un tentativo di violenza e poi strappa Sofia dalle braccia dei figli il giorno di Natale. Ribadisco, QUESTO è il vostro regista caramelloso eh?
Proprio il personaggio di Oprah Winfrey è al centro di uno dei momenti di regia più riusciti del film, non mi riferisco tanto alla storia nella storia del personaggio, il suo doloroso arresto e l’ancora più drammatico rilascio, quando la fine del suo arco narrativo, la lunga tirata a tavola, quel monologo è stato completamente improvvisato da Oprah Winfrey su sollecito del suo regista, perché dirigere non vuol dire solo muovere la macchina da presa, ma anche dirigere attrici e attori come ha fatto Spielberg qui dicendo: «Tira fuori tutto quello che pensi vorrebbe dire il tuo personaggio, vedendo sua figlia in braccio ad un’altra donna» (storia vera).
Più che una storia di donne nere maltrattate, cosa che comunque “Il colore viola” è, anche a tutti gli effetti, Spielberg capisce che questa è una storia di emancipazione e crescita personale, di riuscire ancora ad amare la vita malgrado le mazzate che essa ti rifila, una storia che parla di dignità, e ne troviamo molta in quella scelte di inquadrature, nella distanza tra Celie e il “Mister” nel finale, lei davanti alla porta del suo negozio, lui sfatto e nel mezzo di in tentativo di rimediare ad un po’ del male fatto, dall’altra parte della strada, legati ma separati dal vetro della porta che ci dice tutto delle distanza tra personaggi, senza bisogno di dialoghi, perché a questo punto della storia, Celie ha preso gli insulti che il suo “Mister” le ha sempre riservato e li ha rigirati contro di lui, sarà pur vero che è una donna, nera e brutta, ma è viva e finché sei vivo, puoi sempre trovare il modo di conquistarti la tua dignità.
Va detto che il finale di “Il colore viola” è un grosso caso di “tarallucciatore”, ovvero come qui alla Bara Volante definiamo quelle storie che terminano a tarallucci e vino, solo che la questione è sempre la stessa, il cinema spesso racconta tante belle balle, ma non tutti sono convincenti a raccontartele, a volte si vede il trucco e il cinismo ha il sopravvento. Spielberg anche di fronte ad un emblematico caso di “tarallucciatore”, se la gioca con gran classe perché lui nella forza di quei momenti un po’ zuccherosi ci crede, non è un caso che la spiegazione del titolo, arrivi proprio solo nel finale, purtroppo quelli dell’Accademy erano di un altro avviso.
Estromesso dalla categoria “Miglior regia”, forse per quella distanza con la materia che Spielberg non ha mai nascosto, “Il colore viola” ha portato a casa undici nomination e nessuna statuetta, ancora oggi un marchio d’infamia, un modo di entrare a far parte della storia dalla parte sbagliata, frutto forse anche del fatto che molti non abbiano mai amato troppo il tocco più infantile portato nell’industria dal più giovane talento della banda di ribelli della New Hollywood. Uno strappo, quello tra l’Accademy e Spielberg risolto nel 1993 con il già citato Schindler’s List che come detto, non sarebbe mai esistito senza il percorso di crescita rappresentato da “Il colore viola”.
Ora la beffa suprema, sarebbe vedere la nuova, modesta, lei sì davvero edulcorata versione di questa storia vincere più premi di quella di Spielberg, ma qui alla Bara non ci interessano le cerimonie di premiazione ma i film, quindi sono ben felice di aver trovato un’occasione per parlare ancora una volta di un capitolo importante nella filmografia di uno degli eroi di questa Bara, per parafrasare una delle frasi simbolo del film: io Dio non lo faccio incazzare, io lo apprezzo il colore viola.
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