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Il colpo della metropolitana (1974): Un ostaggio al minuto

Iniziamo con una domanda, come si intitola il film dove i rapinatori
usano i nomi dei colori Mr. Blue, Mr. Green… SBAGLIATO! Tarantino ha scippato l’idea
a “Il colpo della metropolitana”.

“Perché rispondete sempre Tarantino! Perché!? I film esistevano anche prima di Tarantino!”

Il regista Joseph Sargent non è proprio uno di quei nomi che
si ricorda, alcuni titoli solidi in carriera prima di passare a lavorare per la
televisione, di sicuro “Il colpo della metropolitana” (Un ostaggio al minuto) è
il suo film più famoso perché unisce una trama ad orologeria basata sul romanzo
omonimo del 1973 di John Godey (pseudonimo di Morton Freedgood), ad una regia in gran forma e due attori
che da soli fanno reparto. Insomma il classico caso di un film di genere
talmente giusto in ogni sua parte, da diventare un film di culto che ogni tanto
mi riguardo sempre con grande piacere.

Sarà che sono cresciuto con Walter Hill, oppure che mi sposto con i mezzi pubblici, ma penso
che tutti i grandi film dovrebbero avere una scena in metropolitana, “The
Taking of Pelham One Two Three” è tutto ambientato in metro, per altro una
delle più grandi e articolate del pianeta, quella di New York.

I grandi film, prendono la metropolitana.

Ora però, chi mai prenderebbe in ostaggio i pendolari di un
vagone della metro? Andiamo per salire sulla metropolitana devi scendere le
scale, andare sotto terra, ed inoltre è un mezzo che si muove lungo la strada
segnata dei binari, le condizioni peggiori possibili in caso di fuga. Un’idea
balorda tanto quanto tentare di dirottare su Cuba un tram, come faceva il
protagonista di un vecchio fumetti di Bonvi. Se decidi di prendere degli
ostaggi in metropolitana devi avere un piano brillante, e per raccontarlo ci
vuole una sceneggiatura solidissima, in cui tutti i dettagli filano, persino il
raffreddore di uno dei personaggi.

Una citazione a Bonvi (anche a caso) è sempre una buona abitudine.

Joseph Sargent dirige con mano fermissima una trama che fila
più puntuale dei vagoni della metro, Peter Stone adatta il romanzo originale in
una sceneggiatura in cui tutto funziona alla grande, e anche le parti più
verbose e necessarie, sono gestite con il giusto brio. Ad esempio la trovata
del macchinista in prova, che descrive passo passo ogni sua azione, è un modo
semplice di spiegare anche a noi spettatori il funzionamento e le procedure di
un vagone delle metro.

Allo stesso modo il protagonista, il tenente della polizia
metropolitana Zachary Garber (un Walter Matthau dalla giacca impossibile e
sornione più che mai) a sua volta deve spiegare ad alcuni ospiti giapponesi in
visita, tutto il complicato sistema di gestione della metropolitana di New
York, aggiornando anche noi spettatori, che abbiamo modo di scoprire che il
treno al centro della trama, è il Pelham 123, che si chiama così perché parte dalla stazione di Pelham
all’una e ventitrè. salvo ritardi, perché come dice Garber « Non si può gestire una
metropolitana senza qualche parolaccia». Dillo ai pendolari che aspettano il
treno in perenne ritardo, loro di parolacce sono esperti.

“Jack Lemmon almeno viaggiava in prima classe sull’Airport ’77. Io invece guarda quanti pulsanti!”

La normale routine della metro di New York viene sconvolta da
un gruppo di rapinatori molto organizzati, vestiti con cappello, soprabito,
occhialoni e baffi finti per sembrare tutti somiglianti tra di loro (a ben
guardarli sembrano un po’ i Gumby, interpretati dai Monty Python), e che usano nomi fittizi Brown, Grey, Green (un
atterrito ed azzeccatissimo Martin Balsam) e il loro capo Mr. Blue interpretato
da un Robert Shaw magnetico e dall’aria pericolosa. Per altro in stato di
grazia, basta dire che appena sceso dal Pelham 123, sarebbe salito sull’Orca,
per andare a fare la storia del cinema.

I quattro tizi coloriti, prendono in ostaggio i diciassette
viaggiatori presenti su uno dei vagoni del Pelham 123, e via radio chiedono un
milione di fogli verdi con sopra le facce di altrettanti ex presidenti defunti
entro un’ora, dopodiché faranno fuori un ostaggio al minuto, per ogni minuto di
ritardo. Una brutta gatta da pelare che Walter Matthau si trova a dover gestire
cercando di trattare con Robert Shaw, in una gara di talento (di recitazione) a
distanza.

“Un milione per me e per me solamente e io di questo treno vi porto la testa, la coda… e tutto quello che c’è in mezzo” (Quasi-cit.)

“The Taking of Pelham One Two Three” procede compatto
filando sui binari, ed è uno di quei film in cui personaggi che fanno (quindi
che sanno come funzionano le cose) malgrado abbiano tutte le ragioni del mondo
come nel caso di Walter Matthau, devono fare a capocciate, non solo con la grana
che si ritrovano per le mani, ma anche con la burocrazia interna, ben
rappresentata dall’inetto (e malaticcio) sindaco di New York interpretato da Lee
Wallace, un personaggio odioso quanto volete ma mai stereotipato.

Identico al corrispettivo nel romanzo di John Godey, dove risulta altrettanto satirico (e virulento).

Perché il bello di “Il colpo della metropolitana” è la sua
capacità di farti affezionare ai personaggi, senza farti fissare sui meccanismi
di una trama che va avanti da sola diventando quasi invisibile, che è ben diverso
dall’essere inesistente badate bene. Ogni svolta del film diventa un’appassionante
corsa contro il tempo, come la lunga sgommata in auto per consegnare in tempo i
soldi, che appassiona anche grazie ai suoi imprevisti, e al modo in cui Walter
Matthau deve metterci la faccia – anche se di fatto per i rapinatori è solo una
voce alla radio – prendendosi anche dei rischi.

Lo so che sembrano i Chips, ma sono loro la scorta per il denaro.

Il film procede per scene efficaci, una lunga partita a
scacchi che prevede cecchini dal grilletto facile e semafori verdi senza fine,
in cui nessuno dei personaggi si ritrova mai a fare qualcosa di totalmente
assurdo in nome della spettacolarità a tutti i costi. Una volontà di realismo
che invece di sminuire una trama da thriller poliziesco, non fa che elevarla, dimostrazione
che le idee semplici il più delle volte sono le più efficaci.

Anche l’ultimo atto del film, che potrebbe inevitabilmente
mollare le briglie del ritmo, invece fa una scelta pragmatica, quella di cavalcare
le indagini eseguite a caldo, subito dopo un evento criminale, quelle che il
più delle volte portano per davvero alla risoluzione del crimine. Non voglio
rivelarvi nulla nel caso non aveste mai visto questo film, ma sappiate che il
suo finale all’insegna della semplicità, si conclude con uno dei più memorabili
fotogrammi della storia del cinema, dimostrazione che ad attori mitici come Walter
Matthau, bastava davvero uno sguardo dei suoi per riempire lo schermo, vedere
per credere.

Con la stessa faccia con cui io vado al lavoro il lunedì mattina, Walter faceva la storia del cinema.

Sarà anche un film del 1974, ambientato nella New York di
allora, uno scenario che può risultare datato agli occhi di una porzione di
pubblico, ma il film fila ancora che è una meraviglia e secondo me l’ambientazione
anni ’70 è una marcia in più. A partire dall’azzeccatissima colonna
sonora di Davis Shire perfettamente in linea con il decennio e con un ritmo che
ti porta subito nel bel mezzo dell’azione, la leggenda vuole che sia stata la
sua allora moglie Talia Shire (l’Adriana di Rocky)
a suggerire al compositore di rendere parte della sua colonna sonora, un’ode
alla città di New York, scelta azzeccatissima per una storia ambientata nei
meccanismi interni della Grande Mela.

“Chiamami ancora palla di lardo, dai ti sfido”

Il film ha avuto ben due rifacimenti, il primo un film
televisivo del 1998, con Edward James Olmos nei panni del detective
protagonista e Vincent D’Onofrio in quelli di Mr. Blue, l’altra versione invece
è quella diretta dallo Scott giusto,
ma per quello avremo tempo modo e maniera per parlarle, ed ora se volte
scusarmi, devo andare a prendere la metro.

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