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Il Corvo (1994): i cinema bruciano, gli attori muoiono, ma un bel film è per sempre

Visto che questa bara sta facendo un volo tra i titoli più rappresentativi degli anni ’90, oggi sarà un volo d’uccello, anzi, di corvo. La parola quindi al nostro emissario Quinto Moro, solo per l’occasione calato nel ruolo di Quinto Mor(t)o, per stare in tema con il film.

Preludio

Avevo 12 anni e me ne stavo a letto con la febbre. Da pre-cinefilo era ovvio che non bastassero le normali cure, ci voleva anche qualche film per passare le ore di febbre. Cosi tra due supposte e due pastiglie arrivarono anche due vhs. Una era Zombie di Romero, tanto per gradire. [Riflettiamo in silenzio sull’essere genitori/adulti responsabili oggi, alle piogge di commenti delle mammine pancine sui social network se diceste di aver fatto vedere film del genere a un dodicenne. Per inciso, se ci fosse un concorso io vi voterei come genitori dell’anno.]

L’altra vhs, non vi scandalizzate, era pirata, e dentro c’era “Il Corvo”. Il film era uscito due anni prima e non ancora apparso in tv. All’epoca si aspettava dai 2 ai 5 anni tra l’uscita al cinema di un film e il suo passaggio in tv. Prima di internet e della pirateria “liberal-democratica” in streaming, era dura essere cinefili se nessuno ti portava al cinema. Ma erano gli anni ’90 e pur con meno canali i palinsesti davano ai film una loro dignità. La mia infanzia è stata un susseguirsi di lunghe attese fra i trailer promozionali e le prime tv televisive. Il che mi ha reso una persona molto paziente e molto grata di poter vedere un film in sala, o di pagare con moneta sonante l’uscita di un film in home video. Cosa che ovviamente ho fatto per Il Corvo, anche se la vhs dopo tante visioni comincia a sfarfallare e ronzare. Ho pure il CD originale della colonna sonora, piccolo crocevia che mi ha fatto scoprire i Cure e una cifra di pezzi hard rock, buoni per la rubrica Rock ‘N’ Blog della Bara.

Schiacciate play e buona lettura
Tanta nostalgia degli anni ’90, quando il mondo era l’arca e noi eravamo Eric Draven
Il Corvo è una storia di vendetta, con elementi fantasy che si sposano con l’estetica dark gotica all’apice degli anni Anni ’90. Era il film giusto al momento giusto. Anno di grazia 1994. Due anni dopo, l’action violento era in pieno declino, coi vecchi divi dai muscoli d’acciaio e palle di piombo che vedevano sgonfiarsi bicipiti e incassi. Ma “Il Corvo” arrivò in perfetto orario, come il ritardatario che prende il treno con un balzo dall’ultimo centimetro della passerella. I sequel poi cercarono inutilmente di spremere qualche dollaro da una “saga” che non aveva ragione di esistere, anche se forse nasceva per essere tale (poi ci torniamo). Perciò lasciate perdere Il Corvo 2 o 3. Per anni si è discusso di remake e forse non c’è speranza: lo faranno comunque. I papabili per il protagonista sono passati da Luke Evans a Tom Hiddleston, e sembravano approdati a Jason Momoa, che l’ha fatto naufragare un’altra volta. I sequel hanno ben dimostrato che nessuno sente la necessità di altre incarnazioni del Corvo, se non quella di Brandon Lee. Ma finché le case bruciano e le persone muoiono, i remake andranno avanti per sempre… Sigh!
Brandon se la ride lassù, pensando a chi dovrà riprendere il suo ruolo
Dellamorte, Dellasfiga

Per il ruolo del protagonista Eric Draven furono presi in considerazione Christian Slater, Bon Jovi, persino Johnny Depp, ma O’Barr fu conquistato dall’aspetto di Brandon Lee, cui fu pure data la libertà di truccarsi da sé. Sembra una cazzata, ma non è un caso se nei sequel la maschera sembrava così posticcia e forzata, anche perché era legata alla vicenda personale di Eric, veniva da un ricordo, un dolore del suo passato, perciò non replicabile.

La morte Brandon Lee diede un’enorme risonanza mediatica al film. Il figlio del leggendario Bruce che come Lui moriva giovane e “in circostanze misteriose” durante la lavorazione di un film, mentre si faceva strada nel cinema a suon di cazzotti come il padre. Come Eric Draven, Brandon Lee morì poco prima di sposarsi, infatti la dedica finale a è Brandon ed Eliza, sua promessa sposa. Tutte cose che contribuirono a certificare l’aura da “film maledetto”, già perseguitato da una sfilza infinita di incidenti occorsi alla troupe. Lo sconcerto per la morte di Brandon fece abbandonare il film alla Paramount che lo stava producendo e a parte del cast. La produzione tuttavia riprese spinta anche dei familiari di Brandon. Alex Proyas accettò di completare il film per dedicarlo all’attore.

La pellicola doveva finire sul mercato direct-to-video, ma la Miramax fiutò l’affare, finanziando 8 milioni perché le scene mancanti fossero completate usando controfigure e CGI, e spinse per il rilascio nei cinema che ripagò l’investimento con gli interessi. A pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, e non credo che la Miramax avrebbe sganciato i dindini se non avesse sentito che il pubblico avrebbe risposto al richiamo del “film maledetto”. È il morboso attaccamento verso la morte, di tutti noi. Non posso dire d’esserne immune io stesso. Alla fine fu un successo, e c’è da esser grati che soldi e pixel siano stati spesi.

Come guarire dai buchi di sceneggiatura
Non tutti i tagli vengono per nuocere

La post produzione fu un lavoro di taglia e cuci lungo un anno. Il montaggio fece la vera differenza nella ricostruzione della storia, che dovette cambiare direzione e ritmo. Il flashback con la morte di Eric fu prima tagliato e poi rigirato con controfigure e maggior delicatezza nella scelta delle inquadrature, dal momento che Lee c’era morto davvero in quella scena, e il negativo originale era stato distrutto. Altri passaggi importanti, come il ritorno a casa di Eric, le corse sui tetti e varie scene di raccordo furono girate con le controfigure.

Altro materiale “finito” fu invece messo da parte, affinando l’estetica e il montaggio sono. Il mio maggior motivo di rispetto per Alex Proyas sta nell’aver lasciato fuori varie scene “buone” con Lee, tagliando dove serviva, senza voler indugiare sulla presenza dell’attore ma pensando sempre e solo al film.

Fu eliminato il personaggio di Skull Cowboy che doveva essere la guida spirituale nel percorso di vendetta di Eric, impedendogli di interferire con le faccende dei vivi a rischio della dannazione eterna, cosa che avrebbe cambiato senso al finale, forse costringendo Eric a restare tra i vivi per altre avventure da giustiziere. Infatti una buona accoglienza del film avrebbe facilmente portato a qualche sequel con protagonista Eric Draven. La morte di Brandon fece naufragare l’idea di affidare il personaggio ad un diverso attore, virando così su nuovi personaggi legati solo alla figura del corvo. Madornale errore.

Il taglio di Skull Cowboy rendeva più stretto il legame tra Eric e il Corvo, legandoli uno all’altro in un misterioso e affascinante dittico (chi dice diade sarà espulso dalla Bara mentre si trova in volo ad alta quota).

Skull Cowboy aveva solo una fugace apparizione nel fumetto, e nella serie tv del 1998 (sì, esiste. Vidi i primi due episodi credo, riacquistai la vista in seguito…)

Per la cronaca: sotto la maschera del Cowboy c’era Michael Berryman, ma senza metà dei dialoghi con Brandon, fu tagliato interamente. Per come il Cowboy sembrava concepito avrebbe sì rafforzato la ripetitività della storia (aprendo meglio ai sequel), poteva diventare il protagonista occulto in quanto traghettatore di anime tormentate, ma avrebbe esagerato l’aspetto fantasy del film e tolto fascino al legame tra Eric e il Corvo. Che va benissimo così: Eric non sa quasi niente dei suoi poteri, e ci vengono evitati brutti spiegoni.

Skull Cowboy avrebbe fatto molta più paura senza maschera
Nascita vita e morte del film-fumetto

Mettiamo da parte la morte di Brandon, della sfigatissima dinamica potrete leggerne altrove. Parliamo del film, che nasce da un fumetto, ma all’epoca nessuno si sognava di chiamarli cinecomic. E oggi nessuno si sogna di ricordarsi che gli Anni ’90 furono IL decennio buono per l’incrocio tra la nona e la settima arte. Sorvoliamo (letteralmente) sui film di Superman. Il Batman di Burton arriva nell’89, poi i fumetti iniziano a presentarsi in sala con regolarità crescente dalle robe più caciarone (Tartarughe Ninja, Spawn) a quelle più leggere (Casper, The Mask) fino a quelle autoriali (Ghost World, Dick Tracy).

Per macabro destino, la storia del Corvo nasceva dalla tragedia reale di James O’Barr, autore del fumetto. Era una personale elaborazione del lutto unita a una storia di vendetta. Il film cercava di raccoglierne l’eredità sporca e cattiva ma anche delicata e struggente, omaggiando l’estetica senza fermarsi alla mera clonazione delle tavole.

Se con Rodriguez (Sin City) e Snyder (300, Watchmen) ci siamo ritrovati coi copia-incolla di vignette e dialoghi, Alex Proyas aveva fatto la cosa più sensata per un regista: adattare per lo schermo. Che non vuol dire replicare ma restituire le atmosfere e l’estetica cartacea portandola nel mondo reale. E Proyas ci si è impegnato a rendere iconico il protagonista e la sua maschera, con inquadrature che valorizzano ogni singola entrata in scena di Eric. Sono una più bella dell’altra, fateci caso.

Un’entrata a effetto ad ogni cambio scena
Straziami ma di sangue saziami

Shelly Webster ed Eric Draven vengono assassinati il giorno prima delle nozze, durante la Notte del Diavolo, triste ricorrenza che precede la notte di Halloween nell’immaginaria città del film. Eric vede Shelly stuprata e uccisa sotto i suoi occhi, giusto prima di volare giù dalla finestra. Un anno dopo un corvo riporta in vita Eric perché faccia giustizia, dal momento che tutti i responsabili sono rimasti a piede libero.

La scena iniziale ci proietta subito in un mondo cupo, da favola nera, con la voce fuori campo che ci racconta del corvo leggendario, custode delle anime tormentate.

Pur mettendo subito in chiaro questi elementi surreali, con la resurrezione di Eric e il suo legame con l’animale leggendario, il mondo in cui si muovono i personaggi è realistico e credibile. Il contesto Anni ’90, in cui di droga si parlava e della droga si aveva paura e ci si moriva (per una ragione o per l’altra), fece la sua parte nell’impressionare il pubblico dell’epoca.

Ma la violenza e il racconto di vendetta non sono fini a se stessi, e i personaggi che appaiono anche per pochi minuti risaltano, macchiettistici ma vari, prigionieri di una storia che ha una sua coerenza costante.

La fotografia dai colori desaturati sin quasi al bianco e nero, con forti contrasti e un uso sapiente di luci ed ombre rispetta il fumetto senza copiarlo in modo sterile. E se il fumetto manteneva un’impostazione drammatica e usava toni poetici per raccontare la violenza, il film risulta anche più fumettoso. Benché Eric sia un’anima lacerata e rabbiosa, si gode la sua vendetta con momenti di allegro sadismo, sin dal primo scontro con Tin Tin. Alterna i residui di umanità al tormento dei ricordi al delirio di onnipotenza della vendetta. Si passa dal godersi uno scannamento e un’esplosione a un momento di rimpianto, da una sparatoria furente a malinconia e tenerezza. Il tutto condito da un pizzico di humour nero (neanche poco) che non guasta mai.

Essere uno spirito. Avere spirito. Fare dello spirito.
La trama non è il primo aspetto che salterebbe agli occhi in un film di vendetta, ma l’intreccio ha una coerenza semplice ed efficace [SPOILER: Eric e Shelly non vengono aggrediti dai balordi in modo casuale, l’aggressione è pilotata dal boss di zona per interessi economici. Sembra banale ma non lo è nella messa in scena. Così la vendetta da elemento principe diventa collaterale. Non è più solo la vendetta per i colpevoli, ma contro il sistema che li ha scatenati, un sistema che inghiotte e divora la gente comune, e infatti l’ultimo scontro per salvare la bambina non ha più a che fare con la vendetta, ma con una giustizia più nobile: Eric deve salvare l’innocenza dalla corruzione rappresentata dal Boss. Poi l’arrivo di Albrecht che fa la cavalleria come in un buddy movie anni ’80 mi ha sempre gasato.]
«Fuoco e fiamme! Fuoco e fiamme!»
Highway to hell: Game of Death 2

Una cosa che mi aveva colpito sin dalla prima visione era quel tocco di personalizzazione dato ai cattivi: Tin Tin il nero lanciatore di coltelli, monodimensionale, malvagità fine a se stessa, e infatti lo troviamo tra i rifiuti, praticamente nelle fogne. Gideon sembra stare un livello più in alto, è il grasso e avido rigattiere, la meschinità dell’uomo comune. Funboy è il biondo puttaniere dal grilletto facile che sguazza nell’apatia, appare come il più drogato di tutti. T-Bird è il capobanda, una sorta di Charles Manson guru degli esplosivi. Il Boss dai lunghi capelli corvini (pure lui un po’ Manson) è l’aristocratico del crimine, al confronto con gli altri vive sull’Olimpo ma è insoddisfatto e quasi un asceta. Poi c’è la sorellastra del boss, coi suoi tratti orientali, pronta a cogliere il soprannaturale che tutti gli altri non vedono (e lei che “vede” più degli altri ha la fissa per gli occhi). Ah, e poi c’è Skank, “le checche per ultime”, il più patetico ma per bilanciare la sua mediocrità Eric dovrà sudare per arrivare a lui.

[SPOILER: Eric rivolge contro i cattivi i loro stessi peccati: il lanciatore di coltelli fa la fine di un puntaspilli, l’avido Gideon vede andare in fumo tutti i suoi beni, il drogato Funboy ucciso con la droga, T-Bird con gli esplosivi, la maniaca degli occhi finisce accecata. Tutto torna!]

I cattivi del film hanno ciascuno un aspetto peculiare e un diverso carattere, con un’arma e uno scenario che li contraddistingue. Fateci caso perché questo non c’era nel fumetto, in cui tutto si risolveva più spesso con un colpo di pistola. La varietà degli scontri è tutta valore aggiunto dal film, e che sia voluto o meno (mi piace pensare che lo sia), se a dare il volto del buon Eric Draven c’era Brandon Lee figlio di Bruce, non posso che pensare al Corvo come ad un “Game of Death” di padre in figlio.

Bruce morì mentre realizzava Game of Death, storia di un combattente che deve risalire una torre sconfiggendo nemici molto diversi tra loro (sto semplificando Bruce, perdonami, lo so che dietro c’era tutta una filosofia).

[SPOILER: Eric scala la sua torre affrontando nemici ben diversi tra loro, scatena tutta la sua forza, poi dovrà battersi anche privo dei poteri del Corvo. Il fatto che sconfigga il Boss non con le sue sole forze, ma con le sofferenze passategli dallo sbirro, è un altro buon punto: Eric ritrova la sua dimensione umana, quella della sofferenza, ed è quella che gli permette di cavarsela].

Se l’idea di un Game of Death 2.0 vi sembra campata per aria pensate che: Eric incontra Tin Tin in un vicolo buio; il rifugio di Funboy al primo piano del night; Skank è in cima al palazzo del Boss e il duello finale è sul soffitto della chiesa. È una scala per la vendetta. È il “Game of Death” di Brandon Lee.

Un’altra brutta faccia per la rubrica “B-b-bad to the bone

La struttura del film aiuta a mantenere l’empatia e l’umanità del personaggio. Ogni episodio del percorso di vendetta aggiunge un flashback o un incontro affinché Eric non appaia solo come un assassino vendicatore.

Il resto del cast fa la sua bella figura per gli ottimi caratteristi. C’è David Patrick Kelly che dimostra di non aver imparato la lezione: non si provoca mai un guerriero della notte. Michael Wincott è un Boss carismatico, un santone che con una battuta ridicolizza legioni di cattivi del cinema: “vedete signori, l’avidità è una cosa da dilettanti… il disordine, il caos, l’anarchia, là è la vera grandezza!”

Se sentite un certo prurito al naso e comincia a suonarvi roba già sentita forse vi siete esaltati per il Joker anarchico di Nolan, che non è tutta farina del suo sacco. Apro parentesi: uno dei maggiori talenti di Nolan è lo studio e replica di tante piccole cose che hanno funzionato nel cinema Anni ’90, a volte piccoli dettagli e idee, scene, atmosfere e personaggi che poi ha messo nei suoi film.

Brandon Lee si mangia ogni scena, aiutato anche da un campionario di frasi maschie che ti gasano da morire mentre lo vedi avanzare cazzutissimo verso la sua vendetta («Vittime, non lo siamo tutti?»). Ma oltre alla grinta nelle scene d’azione, incarna bene tutti gli aspetti di Eric, giocando con la sua condizione di spettro e di pagliaccio vendicatore, ci si diverte come un matto e passa con facilità dallo scherzo al ghigno rabbioso, allo sguardo perso e malinconico.

Ho sempre trovato struggente e metacinematografica la scena dei ragazzini con le maschere di Halloween che illuminano il volto di Eric. È l’unica scena in cui vediamo Eric ridere spensierato, quei ragazzini sono lì perché lui ha fermato la Notte del Diavolo restituendo un po’ di normalità alla città (sarà una forzatura ma ci sta). Io però l’ho sempre visto come una specie di requiem per Brandon Lee, con la scena che si chiude a fermo immagine come la foto in bianco e nero su una lapide.

«Se te ne devi andare, và con un sorriso» (Cit.)
Suonala ancora Eric

La colonna sonora contribuisce alle atmosfere e al ritmo del film. Tante sequenze iniziano o arrivano all’apice con un brano, passando per diverse gradazioni di rock più o meno duro e sporco.

Alex Proyas veniva dalla gavetta dei videoclip, e quell’impronta si vede tutta nelle ripetute scene a sfondo musicale, nel montaggio video e sonoro, reso ancor più sensato dal fatto che il protagonista sia un musicista. La resurrezione di Eric culmina con “Burn” dei Cure, che furono d’ispirazione allo stesso O’Barr per Eric Draven (capellone alla Robert Smith, ma decisamente più in forma).

Le musiche erano così tanta roba da dedicargli un intero Rock ‘n’ Blog da leggere e ascoltare a parte. Ma è doveroso parlare della scena più maestosa: la sparatoria nel covo dei criminali sorretta dalla cazzutissima “After the flesh”, in stile di John Woo con pistole a due mani, montaggio forsennato, un po’ di arti marziali e quintali di piombo (John Wick vent’anni prima). [Non a caso Chad Stahelski era stuntman e attrezzista sul set di questo film. Nota Cassidiana]

Le scene più calme danno profondità ai personaggi, anche quelli secondari, dalla vita di tutti i giorni della piccola Sarah alle indagini di Albrecht. Tutti con le loro vite un po’ così, in una città maledetta in cui la ricomparsa di Eric getta un barlume di speranza.

«Madre è l’altro nome di Dio sulle labbra e sui cuori di tutti i nostri figli» (troppo bella per non citarla)

Ma insomma. È un capolavoro? Eh, queste brutte etichette. Di difetti ne ha, ovviamente, ma da parte mia c’è assoluta indulgenza. Gli effetti digitali a un occhio attento appariranno posticci ma non stonano troppo data l’estetica generale e il modo con cui sono stati gestiti. Ci vuole coraggio nello spendere tanti soldi per così pochi secondi di girato in cui presentare il volto di Lee e tagliare di fretta, prima che l’effetto stonato salti all’occhio dello spettatore.

Il montaggio ha dei tagli fatti con l’accetta che sono frutto della necessità, ed è il montaggio che ha salvato il film, così come vari passaggi abbozzati nella sceneggiatura. Quei segmenti di raccordo tra un assassinio e un dialogo (le schitarrate di Eric sul tetto, le sue corse sui tetti) servono a mandare avanti una storia che non poteva e non voleva fare a meno del suo protagonista. Potrà anche stonare l’eccesso di melassa nella scena della “redenzione” di Darla (che serve più a convincere la figlia della resurrezione di Eric, che non alla stessa Darla), o la facilità con cui viene accettato l’elemento sovrannaturale dai cattivi, ma rientra nel tono da favola nera.

Sì, i difetti li ha, e chi non ci è cresciuto e lo vede oggi per la prima volta forse li noterà di più. Ma considerato il rischio di naufragio del progetto, la coerenza narrativa e il ritmo ottenuti sono tanta, tantissima roba.

Qui c’è qualcuno che non ha visto questo film. Buttatelo dalla finestra.

Lo scontro finale col cattivo (che si chiamerebbe Top Dollar, ma nel film non viene mai fatto il suo nome), in cui Eric viene piegato e torna a sanguinare come un uomo, aumenta l’affezione dello spettatore all’eroe, non più disumano, ma fallibile, che deve fare appello alla sola volontà senza poter più contare sul dono sovrannaturale. Tanto basta a rendere il finale così emotivo e pure spettacolare, sotto la pioggia battente, su di un tetto scivoloso con fulmini che piovono sullo sfondo.

Il duello finale va a chiudere il percorso di ammazzamenti e armi che non è mai banale: si esplora ogni possibile oggetto mortale, contundente o esplosivo per massacrare i cattivi. Nessuno muore due volte allo stesso modo. Dopo accoltellamenti, esplosioni e sparatorie, il duello con le spade è l’apice.

Ai più critici il film potrà anche sembrare un forzato collage di scene con qualche pezzo rock e uno stile visivo accattivante. Vero che al confronto delle “grandi produzioni” d’azione odierne è cinema di serie B. Ma questo cinema di serie B anni ’90 era (è) la serie A di genere, ricco della volontà di raccontare una storia semplice nel modo più figo possibile.

Alex Proyas non è diventato un gran regista, ma ha dato coerenza e fascino a una favola nera girata come un videoclip di 90 minuti, nonostante per tutta la produzione sia piovuto sul bagnato. Immagino abbia tenuto duro ripetendosi di giorno in giorno che non può piovere per sempre.

P.S. Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film! Ci tenevo ad aggiungere solo un breve contenuto: Per la sua capacità di influenzare l’umore, gli amori e le affermazioni in caso di giornate piovose di almeno un paio di generazioni, più tutte le considerazione sulla sua unicità ben descritte da Quinto Moro, rendiamo onore ad Eric Draven, facendolo entrare nel club dei Classidy.

Ultima prima di andare, vi invito tutti a scoprire qualcuno dei lavori di Quinto Moro, che potete trovate QUI. Visto che oggi siamo usciti entrambi di casa vestiti come Eric Draven, non perdetevi il post del Cinefilo pigro! Invece per un approfondimento sul fumetto originale di James O’Barr, passate a trovare Il Zinefilo.

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