François Truffaut: «Eccoci nel 1953, con Dial M for Murder (Il delitto perfetto)…»
Alfred Hitchcock: «… Sul quale possiamo passare rapidamente perché non abbiamo granché da dire.»
François Truffaut: «Mi perdoni ma non sono della sua opinione, anche se si tratta di un film di circostanza»
Pur non avendo la caratura dei due signori citati qua sopra, nel loro celeberrimo dialogo, ovvero il testo sacro “Il cinema secondo Hitchcock”, devo dire che sto con il mio francese preferito tutta la vita. Per anni “Il delitto perfetto” è stato considerato un’opera minore, concetto che continuo a pensare abbia poco senso proprio come definizione. Riscoperto tardivamente, “Dial M for Murder” per anni è stato uno dei tanti titoli nella filmografia del Maestro proprio perché lo stesso Hitch lo considerava robetta, “Run for cover” come lui stesso etichettava molti nei suoi film nel già citato saggio.
Ovvero quei titoli sicuri nella quale rifugiarsi perché, bella l’arte eh? Ma se i film non fanno soldi sarai presto un bravissimo artista disoccupato. Al lavoro su “Bramble bush”, la storia di un ladro che ruba il passaporto di un uomo senza sapere che questo è un omicida (tutto pur di non fare la chilometrica fila all’anagrafe), il progetto non ingranava perché secondo gli alti standard di Hitchcock l’intreccio non funzionava, quando il Maestro scoprì che la Warner aveva acquistato i diritti dello spettacolo teatrale “Dial M for Murder” ci si buttò a capofitto, girando il film in trentasei giorni e beh, tre dimensioni (storia vera).
Già perché come tutto, anche il cinema vive di corsi e ricorsi storici, roba del tipo Giambattista Vico lèvati, ma lèvati proprio, tra il 1953, anno in cui il film è stato girato e il 1954 in cui è uscito in sala, il cinema 3D era nuovamente un moda fresca come il giornale di ieri, tanto che in molti Paesi europei uscì senza la terza dimensione perché nessuno aveva voglia di spendere e distribuire in sala occhialetti. Hitch aveva fiutato l’aria e limitò le scene in 3D al minimo sindacale, grazie ad una buca costruita sul set in modo da poter tenere la macchina da presa sotto la linea dell’equatore ottenendo l’inquadratura desiderata sul lampadario, il vaso di fiori e soprattutto le forbici al centro della scena madre del film.
La sceneggiatura di Frederick Knott segue piuttosto fedelmente lo spettacolo teatrale, Alfred Hitchcock riesce nell’impresa di trasformare un film di 105 minuti interamente parlato in cinema allo stato puro. Sempre pescando dalle parole del Maestro intervistato da Truffaut, l’idea di molti registi cinematografici di rendere cinema un’opera teatrale consiste nell’infilare una scena all’aperto in testa al film, poi la porta si chiude e il resto diventa una replica di quanto già proposto sul palcoscenico, ovvero tutto in interni.
Sarà stato erroneamente considerato un’opera minore per troppo tempo, ma porta comunque la firma di uno dei più grandi cineasti mai esistiti, infatti sono i piccoli dettagli a diventare fondamentali, come il passaggio di mano in mano delle chiavi, su cui Hitch non stacca, creando suspence nel pubblico che ha più informazioni di quelle che hanno i personaggi nel film. L’importanza dello sguardo e dei dettagli, tutti fattori che a teatro non ci sono perché lì vale il colpo d’occhio totale e il pubblico è libero di focalizzarsi su quello che vuole, in “Il delitto perfetto” nella versione di Hitch tornano fondamentali, ecco perché quando l’ispettore Hubbard (John Williams) osserva dalla finestra quello che sta facendo Tony Wendice (Ray Milland), il regista non può fare a meno di mostrarci la sagoma dell’uomo fuori dal portone di casa, lo sguardo, l’atto di vedere insomma, il cinema, che si prende il suo spazio sul fiume di dialoghi.
Un altro esempio? Invece di spostare il cast dalla mono location dell’appartamento Wendice alla ricostruzione dell’interno di un tribunale, Alfred Hitchcock evoca il processo solo utilizzando un primo piano sempre molto gradito sulla bellissima Grace Kelly su uno sfondo opaco, immersa in un fiume di luci colorate che traducono in immagini il terremoto emotivo che la donna sta provando, cinema signore e signore, né più né meno.
La trama ve la devo ancora raccontare? Nella Londra degli anni ’50, Tony Wendice (Ray Milland), un ex campione di tennis che ora commercia in articoli sportivi, scopre che la ricca moglie Margot (Sua Maestà non ancora incoronata ma già regale Grace Kelly) lo tradisce con Mark Halliday (Robert Cummings), uno scrittore statunitense di romanzi gialli. Wendice decide pertanto di sbarazzarsi della consorte inscenando “un delitto perfetto”, tra molte virgolette, in modo da ereditare a tempo debito la sua fortuna, lo scalciare della donna nel momento chiave fa saltare il banco e il piano ma poi io dico, è normale che Margot si sia trovata un amante, ama leggere libri gialli e ascoltare sceneggiati dello stesso stampo alla radio, tu la porti in giro per il mondo a seguire quella palla al cazzo che sono le partite di Tennis, durata media seicento ore l’una, è normale cavolo! Ok, questo consideratelo un mio parere soggettivo non richiesto.
Per certi versi “Il delitto perfetto” si avvicina parecchio al sogno, mai realizzato di Hitch, di girare un intero film in una cabina del telefono, gli spazi stretti non limitano l’azione o la tensione, la scena madre con il quasi strangolamento di Margot potrebbe generare ancora oggi l’invidia di tanti altri film bisognosi di quella tensione, ogni volta per me vedere o rivedere un film di Alfred Hitchcock vuol dire tornare a scuola nel modo migliore possibile, un gran ripasso delle basi giuste del cinema, in altre parole un Classido!
Altri cenni storici doverosi, primo di tre film diretta da Hitch per Grace Kelly, se fosse stato per il Maestro inglese lei sarebbe stata la bionda hitchcockiana definitiva fino alla fine della filmografia del regista, il principato di Monaco aveva piani differenti costringendo Hitch a fare a meno della sua “Ghiaccio bollente”, mettiamola così, le sostitute sono state di livello ma Hitchcock non si è mai fatto una ragione di tale separazione artistica, difficile dargli torto. A proposito di segni di continuità invece, il solito cameo di Hitch qui è un po’ più difficile da scovare del solito, compare come compagno di College in una delle foto nel salotto.
Esiste un rifacimento di questo film, diretto da Andrew Davis nel 1998 con Michael Douglas, Gwyneth Paltrow e Viggo Mortensen, cast impeccabile ma vabbè, non gli allaccia nemmeno le scarpe, a settant’anni dalla sua uscita posso dire che per troppo tempo è stato considerato anche dal suo regista solo un comodo “Run for cover”, anche rivedendolo si merita di essere tra i più amati e ricordati del regista, anche perché quando un titolo diventa un modo di dire, vuol dire che ha saputo radicarsi nella cultura popolare. Se il calendario non mi è nemico, avrei un altro compleanno a tema Alfred Hitchcock da qui a dicembre, vediamo se riesco a battere il tempo… Suspence!
Creato con orrore 💀 da contentI Marketing