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Il duro del Road House (1989) vs. Road House (2024): nessuno vince mai in una rissa

Mi sembra quasi doveroso utilizzare il formato ormai glorioso dei Versus della Bara Volante, anche perché oggi di buttafuori non ne abbiamo come al solito uno (IO!) ma altri due che mi sembra giusto far scontrare tra di loro, perché seguendo la massima «Nessuno vince mai in una rissa» (cit.) oggi faranno a pugni per noi il classico del 1989 “Il duro del Road House” e la sua nuova incarnazione appena sbarcata su Prime Video, “Road House” quindi senza indugi, reeeeady to ruuuuumble!

Il duro del Road House (1989)

Per quanto mi riguarda il regista Rowdy Herrington è il campione dei film di cassetta, faccio parte della generazione che è cresciuta andando al cinema certo, ma anche quella che molti altri film “della vita” li ha scoperti in televisione. Magari vi ricordate di lui per “Impatto imminente” con Bruce Willis, visto un milione di volte malgrado fosse poca roba, ma senza ombra di dubbio il suo film più celebre resta “Il duro del Road House” famoso per essenzialmente tre cose: Patrick Swayze, i Griffin e il fatto che passasse in tv ogni tre ore, se siete della mia leva lo ricorderete sicuramente.

Oggi abbiamo un buttafuori aggiuntivo speciale sulla Bara: Patrick “L’attore definitivo” Swayze

Togliamoci subito papà Griffin, in un episodio celebre della serie, dopo aver messo le mani su una copia del DVD del film, Peter capiva il messaggio intrinseco di “Road House” e giungeva alla soluzione per cui tutti i problemi del mondo, andavano risolti con un calcio volante urlando «Road House!», spassosa prova del fatto che questo film è patrimonio, se non proprio dell’umanità (anche meno), almeno di chi lo ricorda, perché la più grande sfiga di questo titolo è stata anche la sua più grande fortuna. Sì, ora parliamo di San Patrick.

A casa Cassidy l’unico Santo festeggiato è San Patrizio, 17 Marzo, ma nell’ingresso di casa abbiamo anche il santino, quello di San Patrick Swayze, l’attore definitivo e non scherzo: il buono? Il cattivo? Il film di guerra? Quello romanticone dove balla o fa il fantasma? La parte da super duro? San Patrizio poteva recitare tutto, in pratica il modello su cui sono basati gli attori di Bollywood e Tollywood di oggi, solo con trent’anni di anticipo su tutti.

STORIA VERA!

“Il duro del Road House” è stato il primo titolo grosso dopo il successo globale di “Dirty Dancing” (1987), questo spiega perché nelle scene in cui San Patrizio fa Tai Chi al fiume a torso nudo, le sue fan in canoa, lo ripeto, in canoa (!) si presentavano uscendo fuori dalle fottute pareti pur di vederlo (storia vera). Per il resto un film senza troppi intoppi, anche se dalla trama raffazzonata non si direbbe, che alla sua uscita è piaciuto più al pubblico che alla critica, non un flop a livello di incasso, ma nemmeno un titolo che ha cambiato la direzione della carriera di nessuno dei coinvolti, diventato un culto generazione proprio grazie ai passaggi televisivi, in generale, un’onesta produzione media targata Sua Maestà Joel Silver.

Il piano originale era quello di cercare di “vendere” un film dove Swayze ad un certo punto strappa la trachea ad un uomo a mani nudi, al pubblico che aveva ammirato l’attore per la sua prova ballerina, che poi era proprio da dove arrivava Swayze, uno che aveva studiato danza da bambino, che per via di un infortunio al ginocchio sul set di “Dirty Dancing” ha lasciato campo libero a Kurt Russell (suo sosia, la Wing-woman li confonde sempre, storia vera) per recitare con zio Sly in Tango & Cash.

Tai Chi, aiuta i buttafuori a strappare la carotide a mani nude dal 1989.

Per questo film Swayze ha dovuto imparare rudimenti di arti marziali, ma il suo personaggio James Dalton, ha tutte le sue caratteristiche, meno canonicamente duro rispetto ad un Bruce Willis, decisamente più aggraziato e bellino di un Chuck Norris, Dalton è costruito intorno a Swayze, uno che predica gentilezza, fino al momento in cui non bisogna più esserlo (frase “rubacchiata” ad uno dei buttafuori in seconda nel film, che faceva il mestiere per davvero ed è stato arruolato proprio per questo, storia vera), un personaggio a cui tutti dicono roba tipo «Immaginavo fossi più alto», come a Jena tanto per ridurre ancora i gradi di separazione con Kurt e che a domanda, racconta di aver studiato filosofia. Sarà, ma intanto San Patrizio qui la porta a casa in scioltezza, credibilissimo credo sia tra i principali responsabili per la mia ossessione per lo stile jeans blu su maglietta nera, classico, pulito e sempre alla moda.

Un motto, se non proprio uno stile di vita.

“Il duro del Road House” ha anche il merito di aver sdoganato il concetto stesso di Road House, una tipologia di locale dove si mangia, si beve e si ascolta musica che nel 1989 forse era noto solo per un pezzo dei Doors, ben prima di diventare una catena di Fast Food, anche se trovo sempre divertentissimo il fatto che il locale dove si svolge gran parte della storia è un Road House certo, ma si chiama “Double Deuce” quindi al massimo avrebbe dovuto intitolarsi “Il duro del Double Deuce” ma poco importa, perché Rowdy Herrington firma un titolo che funziona malgrado un’infinità di trovate assurde.

Come il fatto che nel “mondo” dove si svolge questo film, i buttafuori siano famosi come Rockstar, sembra quasi che la gente vada nei locali solo per avere la possibilità di picchiarsi con i più famosi tra di loro, come pistoleri in questa sorta di Western e se volete la prova che di questo si tratta, il mentore di Dalton, ovvero Wade Garrett, è interpretato dal mitico Sam Elliott, prova dell’enorme umiltà di San Patrizio, che come spalla si sceglie uno che è più volte in grado di rubargli comodamente la scena. Hanno gettato via lo stampo dopo Swayze.

In una rissa da saloon, meglio avere dalla tua un “vecchio cammello” come quel cowboy di Sam Elliot.

In questo mondo di buttafuori Rockstar, Dalton viene arruolato per proteggere il Double Deuce nella cittadina di Jasper nel Missouri, sorvolo sul fatto che Tilghman, il proprietario, si presenti da lui con due biglietti aerei già nominativi, solo per sentirsi rispondere: «Io non prendo l’aereo, troppo pericoloso». Poco male, “Il duro del Road House” procede in un crescendo di bullismo, prima Dalton fa tornare il locale un luogo rispettabile a calci volanti, liberandosi di avventori da barzelletta (la prima rissa per la “palpatina” e i venti dollari, sembra una trovata da gag scoreggiona) dopodiché inizia a fare la guerra con il boss locale, ed è qui che l’anima da produzione Silver del film viene fuori.

Dalton sistema gli sgherri del cattivone, quelli tornano più cattivi di prima, in un crescendo di violenza che sfocia in momenti matti, come la scena del Monster Truck, sarebbe bastato mostrare qualche auto distrutta, ma perché non farlo usando uno di quei bestioni dalle ruote giganti e spendendo mezzo milione di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti solo per quella? (storia vera).

Sono gli anni ’80 bellezza, prendere o lasciare.

A proposito di anni ’80, l’interesse amoroso inevitabile se vuoi convincere il pubblico di “Dirty Dancing” a venire a vedere Patrick-strappa-carotide-Swayze qui è fatto a forma di Doc, classico caso di LDF (La Dottoressa Figa) variante rispetto a LSF (La Scienziata Figa) interpretata dalla a dir poco appariscente Kelly Lynch, che passa da camice bianco a vestitini in un attimo, a cui scappa tanto di orizzontalizzarsi Dalton ma poi si impressiona quando lo vede così violento, insomma l’inevitabile tira e molla per un film diventato mitico come l’attore protagonista che lo interpreta, ma non di certo un titolo fondamentale, non parliamo di un pilastro della cultura popolare o di uno di quei classici degli anni ’80 che tutti conoscono. Badate, famosissimo ma non una miniera di soldi, a rivederlo, sempre con gran piacere come ho fatto l’altro giorno in vista del rifacimento, ho pensato che con la sua natura spezzettata, piena di situazioni, personaggi e dinamiche, sarebbe stato il soggetto perfetto per un telefilm, immaginate, Magnum, McGyver e Dalton la mattina. Il tutto prima dell’A-Team ovviamente.

«Le prescrivo 10cc di stereotipi legati ai personaggi»

Dialoghi a tratti imbarazzanti alternati a scenette spesso estemporanea, quasi da barzellette, alternati ad un livello di violenza immotivato, più sanguinoso della media dei prodotti analoghi e condito da scene tette e scene di sesso a sbuffo, il tutto con un cattivo, cattivissimo eh? Ma interpretato da un attore come Ben Gazzara che ha la faccia di uno che per tutto il tempo sta pensando: «Non mi pagano abbastanza per questa merda.»

«Pensa all’assegno Ben, continua a pensare all’assegno»

Le critiche alla sua uscita lo bollarono come un film scemo, non ci andò tenero nemmeno un guru come Roger Ebert che però, andò dritto al punto ed è anche questo il bello di rileggersi le recensioni cinematografiche dell’epoca, anche solo per avere in chiaro quanto un parere anche professionale possa essere una foglia nel vento. Il critico lo definì un film stupido, ma così ritmato da risultare divertente, certo bruttino, ma con carattere aggiungo io. La prova che per diventare di culto per un film, non è necessario che sia canonicamente bello, tante volte gli basta avere una faccia da cinema come San Patrizio e quella colonna sonora.

Colonna sonora di un certo livello, non so come sia il cibo in questo Road House ma la musica merita.

Ma parliamoci chiaro, un asso nella manica di “Il duro del Road House” erano le tette, ma anche la notevole colonna sonora, lo straordinario chitarrista non vedente Jeff Healey (a cui Ben Harper ha scippato la tecnica di suonare la chitarra tenendola in grembo) che qui interpreta Cody è un ottimo esempio, ma nel film si sente tutto il meglio, Otis Redding, Jim Morrison, Bob Seger, a volte originali, spesso cover, tante volte roba incredibile come il primissimo gruppo che sale sul palco per suonare, i Cruzados, il cui cantante è Tito, proprio quello di Tito & Tarantula che ricorderete di sicuro per i film di Robert Rodriguez, per non parlare di John Doe degli X, nella parte del barista impegnato a fare la cresta. Insomma tanta bella roba da ascoltare e anche da guardare (oh, fotografia di Dean Cundey, non proprio la pizza con i fichi!) che ci porta all’inevitabile rifacimento, che guarda caso porta la firma e la produzione Prime Video, quindi i gradi di separazione con i vecchi telefilm si riducono e ci portano a…

Road House (2024)

Che poi così inevitabile non era, visto che come detto, non siamo davanti ad un classico degli anni ’80 che ai tempi spaccò i botteghini, “Road House” non è un investimento sicuro e forse anche per questo negli anni tanti hanno provato, forse più per amore del film che per certezza di incassi, a rifare. Ci è riuscito l’eterno disallineato Doug Liman, a cui l’azione piace ma anche l’utilizzare attori evidentemente non provenienti dal mondo dell’Action, forse ha davvero visto tante volte il film con San Patrizio come noi, capendo che per un ruolo così ci vuole uno convinto, che crede nei suoi mezzi. Con Jake Gyllenhaal segnate presente.

Ed ora che ci penso, Patrick recitava anche in Donnie Darko, piccolo il mondo eh?

La vera lotta di “Road House”, la sua migliore rissa, si è combattuta fuori dal film, Liman le ha provate tutte per cercare di far arrivare la sua fatica nelle sale, ma pare che abbia dovuto abbozzare, un budget più alto ok, ma l’uscita dritta in streaming per un soggetto che avrebbe funzionato alla grande come serie tv (pensate a “Reacher” altro prodotto Prime Video che si guarda con gran piacere), invece per qualche ragione è diventato un film con Jake Gyllenhaal, ormai eroe dei Versus della Bara.

Cosa vi dico sempre dei primi cinque minuti un film? Guardatevi quelli di “Road House” e poi ditemi che non funziona proprio così: Frankie (Jessica Williams) e alla ricerca di un buttafuori per il suo Road House che si chiama Road House per via dello strambo senso dell’umorismo del nonno da cui lo ha ereditato (infatti le ha anche lasciato una barca chiamata beh, barca. Non fate domande), lo cerca nel giro dei “Pit Fight” dove vede spuntare Dalton, che questa volta si chiama Elwood. Figlio di James? No, solo una scusa per far pronunciare ad un poliziotto corrotto un paragone con un bel pezzo di Johnny Cash, fine.

Pagato per stare in gran forma… Letteralmente!

Elwood Dalton arriva, si toglie la maglietta, sfoggia gli addominali e la fama che lo precede mette in fuga il campione in carica del “Pit Fight”, quindi per riassumere: abbiamo un protagonista che non mena, ma mostra il fisico, in maniera a suo modo coerente con il film del 1989, in compenso Doug Liman che apre il film con un pugno in faccia, dirige le scazzottate con un tocco finto, così finto, da farle sembrare in CGI. Non so se volessi imitare lo stile usato da Guy Ritchie per le risse a cui faceva partecipare Brad Pitt ai vecchi tempi, ma il risultato è che anche un pugno in faccia, sembra il frutto dello schermo verde. Problema: quando poi nel corso del film i momenti in CGI arriveranno e saranno tanti, risulteranno tutti così posticci da dare fastidio. Rivoglio il Monster Truck, perché sono sicuro che tutto questo lavoro di post produzione sia costato ben più di mezzo milione di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti, ed è un peccato, o forse un doveroso compromesso per dirigere un film carico di testosterone nel 2024, un po’ di CGI per distrarre il pubblico medio.

Jake Gyllenhaal bontà sua sta in gran forma, sono vent’anni che si allena e non è ancora così datato da risentire del naturale degrado del corpo umano (progettato per i trentacinque anni, poi termina la garanzia), quindi ha l’occasione di apparire tutto strapieno di addominali ancora una volta dopo il pessimo Southpaw, di cui questo film sembra quasi un seguito ideale nel “Gyllenhaalverso”, visto che Dalton ha flashback di quando combatteva nel ring della MMA, e non ci vuole Sherlock Holmes per capire perché il protagonista è sempre così calmo e portato alla gentilezza, se siete gente distruttiva quando si arrabbia tipo beh… me, conoscete la sensazione, quindi da questo punto di vista, ho sentito parecchio le motivazione del nuovo Dalton 2.0.

«Ricorda la massima: sii gentile, finché non arriva il momento di non essere gentile»

La ragazzina del negozio di libri che ripetete al protagonista che il suo arrivo nelle Florida Keys le ricorda un Western è il modo didascalico per dire a chiare leggere qualcosa che traspariva dal film del 1989, invece in questa buffa era di scarsa attenzione in cui viviamo, va ribadito altrimenti poi il pubblico non coglie, però che vuoi dirgli ad un titolo che cita apertamente “Il cavaliere della valle solitaria” (1953), nulla, ci godiamo questo film che nella dimensione televisiva (mi dispiace per il suo regista) funziona e fa il suo dovere. Va anche detto che nella parte della dottoressa che prima rattoppa Dalton e poi se ne innamora, troviamo la più credibile Daniela Melchior, anche se nell’economia della storia il suo personaggio ha ben poco peso specifico.

Oggi che gli eroi, se maschietti bianchi, devono essere tormentati, fragili o rassicuranti, resuscitare un trionfo di testosterone come “Il duro del Road House” è una mossa fuori dal tempo, Liman riesce almeno a firmare un film che sta in piedi sulle sue gambe, che si porta dietro quella natura spezzettata di una storia forse più adatta ad una serie tv che ad un film, che era giù nel DNA della storia fin dal 1989, eppure tra una battuta scema e una rissa che sa di posticcio, il film si segue, ti salva la serata, ma quando deve fare sul serio, stringi stringi, si salva solo per la presenza scenica del fratellino di Maggie – esattamente come succedeva con San Patrizio – che ne esce sempre pulito, anche se dovrebbe rivedere il suo criterio di selezione dei copioni, o forse è solo l’industria ad essere sempre a corto di buone idee.

«Ok, ora basta con l’essere gentili»

La lunga sequenza spaccatutto in mare aperto, sarebbe anche bellissima, montata più che decentemente fa si che l’azione anche concitata, sia sempre chiara al pubblico, però beccami gallina se tutta quella CGI scarsotta non ti tira proprio fuori dalla storia, risultato? Sembra di guardare il lungo pilota di una serie che già mostra tutti i suoi militi di budget e dove persino le scazzottate, sanno di finto, almeno fino al duello finale con sudore e sangue quanto basta, qui Liman riesce a restare più crudo e terra terra possibile, quindi il finale un po’ si avvicina a quell’idea di cinema giusto, anche se la colonna sonora, era di gran lunga migliore nel 1989, anche il quantitativo di donne nude ma vabbè, sono i tempi moderni, va così.

Doug Liman il disallineato di Hollywood, con il suo cinema sempre fuori tempo massimo, bene così!

Una menzione speciale la marita lo sgherro del cattivo, l’agente del caos che entra in scena a culo nudo (quindi un normale mercoledì sera per chi lo interpreta) ovvero Nox, fatto a forma del campione Irlandese Conor McGregor, pazzoinculo per usare un giovanilismo che va sei o sette metri sopra le righe, viene da chiedersi per farlo recitare così tanto e picchiare così poco, ha davvero senso rischiare di far saltare per aria set e film coinvolgendolo, al netto del risultato? Anche perché andiamo, con tutta la mia stima per Donnie Darko e la sicurezza del suo stato di forma, non è assolutamente credibile che possa resistere ad un solo pugno di quel pazzo di McGregor. Certo la sua risposta per le rime a Meryl Streep è bellissima, quindi fategliela praticare la sua arte! “Road House” per assurdo ci riesce in parte ma per numero di momenti azzeccati e difetti messi sul piatto della bilancia, non dico che pareggia in follia con lo sgangherato cult con San Patrizio, però avercene di titoli così in circolazione, specialmente sulle piattaforme, per altro su Prime, trovate anche l’originale del 1989, quindi buona (doppia) dose di pugni, intanto, passate anche a trovare il Zinefilo!

Meryl Streep ma in versione Bara Volante.
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