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Il fantasma del palcoscenico (1974): l’uomo che creò la musica, la ragazza che la cantò e il mostro che la rubò

Spero che la musica sia di vostro gradimento perché oggi sarà ad alto volume, benvenuti al nuovo capitolo della rubrica… Life of Brian!

Quanto Rock ‘n’ Roll c’è nel cinema di Brian De Palma? Per essere un ex ragazzino appassionato di fisica prestato al cinema, verrebbe da dire non moltissimo, forse è la musica a trovare il nostro Brian da Newark, uno che è arrivato anche a dirigere il video di un altro ragazzo piuttosto popolare del New Jersey, in realtà ha votato la sua vita al cinema e con il successo di Le due sorelle si è messo sulla mappa geografica tanto da potersi giocare “la matta”, un ragguardevole jolly come “Il fantasma del palcoscenico”.

Che sia un cinema pieno di “doppi” quello di De Palma era già chiaro nel 1974, dopo aver raddoppiato il numero di Margot Kidder e di punti di vista nelle sue storie, qui il nostro Brian è ad un bivio importante, prima di abbracciare completamente la grammatica cinematografica del suo Maestro Alfred Hitchcock – che comunque aleggia anche qui, evocato nella geniale scena della doccia, grande ossessione e marchio di fabbrica di De Palma – il regista del New Jersey ha ancora in canna un titolo satirico, citazionista, carico di tutta l’energia sovversiva dei suoi primi lavori Godardiani, un calderone di influenze, omaggi e rivisitazioni anche in chiave grottesca che si traduce in una “Rock opera” diventata di culto.

«Il cinema di De Palma è sempre sta…», «Chiudi quella bocca Cassidy!»

Il tema del doppio è centrale per De Palma sotto molti punti di vista, come vedremo nel corso della rubrica, le sue storie tenderanno a tornare, a ripresentarsi sotto forma di Doppelgänger, forse “Phantom of the Paradise” è il primo caso emblematico, perché sembra la versione in bella copia (e a colori) del suo precedente Woton’s Wake, dove, non a caso, proprio William Finley già interpretava un mostro mascherato dal trucco, ispirato ai classici del cinema mosso da istinti e una certa propensione per la Scopofilia (prima della fine della rubrica avrò ripetuto così tante volte questa parola, che non farà più ridere… ma per ora sì!), era naturale che l’attore feticcio di De Palma sarebbe diventato il protagonista di questa sua grottesca, esagerata, anche tendente al Kitsch opera Rock che è arrivata al cinema un anno prima di “The Rocky Horror Picture Show” (1975) aprendo la strada e calamitandosi addosso le critiche che il film di Jim Sharman ha evitato con più facilità.

L’idea per tutto questo cortocircuito di citazioni e omaggi in musica è arrivata a De Palma per caso, in uno di quegli ascensori dove di norma lui incastrava i suoi protagonisti per qualche tirata scena di tensione, in un club di Los Angeles il nostro Brian si è ritrovato ad ascoltare un pezzo dei Beatles utilizzato come musichina d’attesa in ascensore, un’idea originale, artistica, per cui qualcuno ha lavorato sodo per crearla, ridotta a merce, una robetta commerciale buona per riempire i due minuti d’attesa.

«Ehi Giuda, non aver paura…»

Da questo spunto De Palma parte per rielaborare Woton’s Wake in qualcosa di più grande, colorato e sopra le righe, mescolante arte “alta” e “bassa”, letteratura e cinema dall’origine, da Gaston Leroux e il suo “Il fantasma dell’opera” (1910), passando per le versioni cinematografiche firmate da Arthur Lubin e Terence Fisher, frullate insieme al mito di Faust, a Dottor Jekyll e Mister Hyde alla bella e la bestia, passando per il gobbo di Notre Dame, tutto filtrato secondo il gusto estetico (e musicale) della metà degli anni ’70, un’opera che nel suo delirio post modernista, omaggia e sbeffeggia soprattutto l’industria musicale con il chiaro intento satirico di sfottere Hollywood, la macchina che tritura l’arte e la trasforma in merce.

Il tutto con un tono da favola nera Rock ‘n’ Roll che in quanto figlia di mille spunti e riferimento, ha come narratore Rod Serling, che riassume il senso di come approcciarsi al meglio a quello che è in parte musicale e in parte film musicale (con venature da Horror), riassumendo tutto come la storia dell’uomo che creò il Paradiso del titolo originale, della ragazza che lo cantò e del mostro che lo rubò.

«Quindi lei sarebbe il mostro?», «No io sarei l’autore», «Ah mi scusi»

La storia è quella di Winslow Leach (gli sguardi pazzi di Bill Finley), cantante più che modesto, ma compositore sopraffino, che vorrebbe suonare la sua grande opera all’inaugurazione del Paradiso, il grande teatro per concerti di proprietà del leggendario Swan (Paul Williams), introdotto come un genio della musica, di cui prima di entrare in scena per davvero, vediamo solo le mani inguantate nemmeno fosse il cattivo di The Spirit. Swan ruba l’opera ispirata a Faust di Leach per assegnarla ad un gruppo di rock da spiaggia che non sono i Beach Boys, anche se ne sono spudoratamente ispirati, così come più avanti nel corso del film, i mascherati Undead non fanno che strizzare l’occhio ai veri Kiss.

La band preferita di De Palma, invece, sono sempre gli “Split Screen”.

Per essere sicuro di liberarsi del modesto compositore, Swan lo fa spedire nella prigione di Sing-Sing (che non so voi, ma in un film musicale mi sembra una scelta di nomi brillante) dove prima gli vengono strappati via tutti i denti e poi muore, apparentemente schiacciato dalla macchina per stampare i dischi in vinile.

Ma se una macchina uccide e sfigura Leach, un’altra macchina (per parlare in una sorta di out of tune, decenni prima dei Trapper e anche con uno stile nel vestire migliore), lo fa rinascere, mosso dalla sua volontà di vendetta Leach torna nei panni del Fantasma, mostro a metà tra un rapace, Power Rangers e un novello Batman con il cuore in fiamme per la sua voglia quasi sacrilega di distruggere il Paradiso detronizzando Swan, quindi idealmente Dio in persona che, a ben guardare, è davvero un Dio della musica.

«Mi chiamo J-Bone Swan, gestisco il Paradiso» (quasi-cit.)

Sì, perché Paul Williams è un cantautore, un compositore premio Oscar e anche un attore, lo avete visto in un altro film “musicale” come Baby Driver, ma anche conciato da scimmia, a completare il trio di personaggi chiave del film, troviamo una giovanissima Jessica Harper, al suo esordio cinematografico aggiungete una tacca alla cintura di De Palma, responsabile di aver lanciato anche l’attrice di Suspiria.

Prima di dedicarsi al ballo, ha provato a sfondare nella musica.

In questo calderone barocco dallo stile eccessivo e pieno di trovate volutamente demenziali, si trovano tutte le ossessioni del cinema di De Palma frullate insieme senza soluzione di continuità e cadenzate solo dai vari pezzi musicali che portano avanti la trama, come quello cantato dal personaggio di Jessica Harper ovvero Phoenix, nome che riassume in sé il senso di rinascita, troppo pura e perfetta per essere amata in un modo diverso da quello platonico dal Fantasma, ma sedotta dal vero mostro del film, ovvero Swan che se la porta a letto, il tutto mentre Leach, già reso pazzo dal suo desiderio di vendetta, li spia dal lucernario perché un guardone ci deve sempre essere nei film di De Palma, il punto di vista nel suo cinema è fondamentale.

Non manca mai uno spione nei film di De Palma.

In “Phantom of the Paradise” sono molteplici: abbiamo l’anima critica e satirica alla macchina stritolatrice di Hollywood, ma anche la rielaborazione in chiave contemporanea dei miti letterari e cinematografici classici, il tutto con lo stile di De Palma, ovvero quello di un regista estremamente citazionista, ma da sempre capace di calare personaggi, temi e ossessioni all’interno del genere, per pescare da esso quello che gli fa più comodo, il musical e la struttura da film musicale è quella migliore per fare della satira pungente? Bene, usiamo quella, per renderla ancora più affilata ci vorrebbe un po’ di Horror? Ben venga.

Fateci caso, perché succederà ancora con una certa ragazzina di nome Carrie White (a breve su queste Bare, non vedo l’ora), De Palma ci fa patteggiare per quelli che la società considera “mostri”, gli stramboidi messi ai margini, lo fa con la grande ossessione derivata da zio Hitch per le docce, per il Fantasma è la geniale scena in cui amorevolmente De Palma scimmiotta Psycho, ma invece di un coltello, giocando con le aspettative del pubblico e la sua capacità di cogliere le citazioni, viene usato uno sturalavandini per tappare la bocca all’odioso e vanesio Beef (Gerrit Graham in gran spolvero).

Ora sapete a chi hanno scippato il guardaroba i Måneskin. 

Lo stesso bisteccone che poco dopo farà la fine della bistecca (ben cotta) proprio su un palcoscenico, idealmente simile a quello dove si consumerà anche la vendetta di Carrie White. Ma fosse solo questo, su un palco deve avvenire anche lo scontro finale, tutto in diretta televisiva, perché se nessuno lo ha visto e nessuno lo ha ripreso, allora non è accaduto per davvero nel gioco di specchi Depalmiani, che proprio utilizzando gli specchi ci racconta dello sdoppiamento (ancora il doppio che ritorna, con De Palma lo farà eternamente) di Swan.

Il personaggio di Paul Williams assorge da Divinità della musica a creatura Faustiana, per effetto del patto con il diavolo che lo ha reso quasi immortale, in una versione su pellicola del ritratto di Dorian Gray. De Palma ci mostra questo patto siglato e firmato con il sangue non su carta (come tra Swan e il Fantasma), ma su pellicola, in video da vero uomo di Cinema: Swan per restare giovane deve rivedere lo stesso video ogni giorno, sottolineando la capacità della Settima Arte di mantenere giovane chiunque in eterno, intrappolandolo tra i fotogrammi e allo stesso tempo, ci racconta il suo sdoppiamento per immagini, con Williams riflesso allo specchio, impegnato in un dialogo con il suo doppio malvagio.

Guardiamo in uno schermo, un’immagine alla tv, riflessa in uno specchio e ripresa da una telecamera. O due, non lo so ho perso il conto!

La natura deformante dello specchio, la scelta cinematografica in stile “Show, don’t tell” con cui De Palma ci parla della natura demoniaca e manipolatoria del potere, del denaro e di chi li detiene entrambi, la fine di questa “Rock opera” deve avere un finale tragico come molte delle opere letterarie a cui si ispira, perché tra arte e mercificazione, di norma qualcuno esce sempre sfregiato e sanguinante, lo spettacolo deve continuare, no? In fondo, non può che essere uno spettacolo di morte.

Menzione speciale per William Finley che recitando dentro quel casco da moto, si affida completamente alle uniche parti del suo corpo visibili, gli occhi fuori dalla testa di chi vive per la vendetta e quei denti argentati ben prima che la cultura Hip Hop li trasformasse in un vanto, qui sono spaventosi, rendono il Fantasma un demonio tormentato per cui è impossibile non fare il tifo, seppure con quel grado di repulsione che la sua manifesta follia emana, tra i tanti fantasmi del palcoscenico visti al cinema, quello di De Palma ancora oggi spicca.

Batma… Ah, no, scusate, l’abitudine.

Peccato non lo abbia fatto anche al botteghino, “Phantom of the Paradise” è stato girato in leggerezza senza sottoscrivere nemmeno un’assicurazione (meglio non firmare niente sul set, potresti fare la fine di Leach) problema: alla sua uscita il film è riuscito a beccarsi non una, non due, ma ben tre denunce, un fuoco di fila da tutte la parti, forse proprio perché De Palma per le sue ispirazioni, non si era posto alcun limite, anche se non avrebbe potuto immaginare di venire convocato in giudizio dai detentori dei diritti sul personaggio a fumetti Phantom (da noi più noto come l’uomo mascherato), da quelli della Swan Records e dall’ultimo in ordine di tempo a detenere i diritti di sfruttamento cinematografico del fantasma dell’opera di Gaston Leroux, anzi, gli è andata di lusso a De Palma che la Death Records sia stata fondata solo recentemente, visto che nel film lui aveva abbondantemente anticipato anche questo nome, oltre a guadagnarsi l’ammirazione di altri musicisti mascherati, ovvero i Daft Punk che proprio in “Phantom of the Paradise” hanno indicato uno dei loro film preferiti (storia vera).

One more time, we’re gonna celebrate…

Per assurdo, mentre nei cinema di New York, quindi i più vicini a Broadway patria dei musical, “Il fantasma del palcoscenico” è stato in cartellone pochissimo incassando risate, in Canada il film è piaciuto subito, così come in Francia dov’è stato proiettato su base puntuale per una decina di anni, dicono che nessuno è profeta in patria, mettete anche Brian De Palma nel nutrito club.

Oggi “Il fantasma del palcoscenico” conta su uno zoccolo duro di veri appassionati ed è il classico titolo di culto in una filmografia che non ha niente da invidiare a nessuno, persino io che sono sempre un po’ allergico ai musical, grazie a quella sua componente horror e alla regia di De Palma che moltiplica l’esperienza e i punti di vista grazie al fidato “Split screen” lo trovo ancora uno spasso, la più post moderna e Rock interpretazione di un archetipo come quello del fantasma, niente male per uno che da grande più che la Rockstar, voleva fare lo scienziato.

Il solco è segnato, la trasformazione da Leach a Fantasma segna anche il definitivo passaggio de De Palma sotto il magistero di zio Hitch, da qui in poi Brian da Newark iniziare la sua galoppata, quella che lo consacrerà come unico vero detentore di quella grammatica cinematografica fatta di suspence e tensione, la prossima settimana parleremo proprio di questo, di come De Palma ha fatto sua la lezione hitchcockiana, non mancate!

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