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Il filo nascosto (2018): Cinema confezionato a mano

Trovo che ancora più difficile di analizare un film, sia
consigliare quello giusto a qualcuno, tu puoi anche tirare fuori dal mazzo un
titolo bellissimo, ma se quello non tocca le corde giuste della persona, sarà
un appello lanciato nel vuoto. Ecco, quando si tratta di Paul Thomas Anderson,
il suo cinema è ancora più difficile da consigliare.



Il suo ultimo lavoro “Il filo nascosto” fa esattamente parte
di questa categoria di film complicatissimi da consigliare, si rischia di fare
la fine di Jennifer Lawrence, oppure
ancora meglio di Uwe Boll che si è
lanciato proprio sulle accuse di plagio. Ti voglio tanto bene Uwe, il tuo modo
di difendere il tuo cinema contro tutto e tutti un giorno verrà capito!

La guerra solitaria di un uomo chiamato Uwe.

Voglio dirlo proprio fuori dai denti: non ci trovo niente di
“Sexy” in un film ambientato nel mondo della moda della Londra degli anni ’50. Mi
conoscete, sapete che di solito guardo roba decisamente più macabra e
movimentata, ma il buon Pitì Anderson ha il talento di mettere su film
ipnotici, in grado di tirarti dentro alla storia, quindi mi è richiesto uno
sforzo superiore nel consigliare questo “Phantom Thread” e sono certo che
avete tutti una capacità di attenzione superiore a quella di JLaw.

Il titolo di lavorazione del film è stato per tutta la
durata delle riprese “Woodcock”, come il cognome del protagonista interpretato
da Daniel Day-Lewis, anzi a dirla tutta, il nome è proprio frutto di una
battuta di Daniele Giorno-Luigi che ha fatto ridere così tanto Pitì da adottare
il nome come ufficiale (storia vera), non è difficile capire di che genere
fosse la battuta se vi mettete a tradurre “Wood” e “Cock”.
Ma la vera ispirazione per il film, è arrivata a Pitì
Anderson in un modo piuttosto originale: bloccato a letto da una malattia, il
regista è stato ispirato dallo sguardo amorevole di sua moglie accorsa al suo,
letto di morte? Sapete come siamo noi uomini quando siamo malati, sembra sempre
che sia necessario fare testamento. Ma il film parla proprio di questo, anzi, a
ben guardare, il cinema di Anderson tratta delle dinamiche dei rapporti tra
personaggi, che spesso sono dettati da uno stato di sudditanza, in cui uno dei
due comanda e l’altro subisce l’altrui fascino, carisma, potere, fate voi.

Eccolo quà, PTA meglio noto come Pitì.

“Il filo nascosto” sembra il figlio di una notte d’amore tra
il rigoroso “The Master” (2012) a cui va aggiunto il protagonista de “Il
petroliere” (2007, anche se mi piace più il suo titolo originale, “There Will
Be Blood”), ma in qualche modo sembra una decisa variazione sul tema di “Ubriaco
d’amore” (Punch-Drunk Love, 2002) una delle storie d’amore cinematografiche più
originali mai viste al cinema.

Nel film del 2002, il personaggio di Adam Sandler (nella
prova della vita), riusciva a superare dubbi, paure e suo personali tic grazie
proprio all’amore, qui, invece, Reynolds Woodcock, sembra congelato ed
intrappolato all’interno della sua rigorosa routine, aiuta che ad interpretarlo
ci sia Daniel Day-Lewis monolotico come in “There Will Be Blood”, ma con meno
baffi.

“I still drink your milkshake!” (Quasi-cit.)

Già, Reynolds Woodcock avrà pure un cognome che fa ridere, ma
se devi viverci insieme, non c’è proprio niente da ridere! Parliamo di uno
stilista che fa delle sue abitudini una roccaforte, uno capace di pretendere
l’immobilismo totale da parte di quelli seduti al tavolo della colazione con
lui («Ti dimeni troppo. Troppo movimento per colazione»), un despota egomaniaco
che sfrutta le donne alla ricerca della prossima Musa per i suoi vestiti.
L’unico modo per conviverci è quello di diventare in qualche modo come lui,
come accade a sua sorella Cyril Woodcock, ridotta all’immobilismo per non
turbare le fisime dell’Imperatore. Menzione speciale per la bravissima Lesley
Manville, con un personaggio del genere basta un attimo per scivolare nel
macchiettistico, lei evita le buche alla grande offrendo un’ottima prova.

Incredibilmente l’unica donna che riesce a farsi largo tra
lo spigoloso carattere di Reynolds è Alma Elson (Vicky Krieps, una vera
rivelazione) una che per modi e classe sociale pare non avere niente a che
spartire con Reynolds e forse per questo è proprio quella giusta, anche se la
ragazza dovrà sorbirsi la sua sana dose di capricci da parte di
Woodcock, almeno finchè un vestito ispirato, disegnato e cucito sulle forme
della ragazza sarà la svolta tra i due.

Ed io che pensavo di essere intrattabile la mattina prima del caffè, ho ancora da imparare!

Pitì Anderson si rifà in maniera smaccata al cinema classico
americano, ma sempre rielaborando la lezione dei maestri del cinema per
sfornare qualcosa di nuovo e personale, insomma come si dovrebbe sempre fare al
cinema. Vizio di forma aveva la
malinconia per la fine dell’era dei figli dei Fiori, ma senza negarsi una verve
comica che strizzava l’occhio a Robert Altman, mentre qui il modello potrebbe
sembrare un po’ l’Hitchock di “Rebecca – La prima moglie” (1940), ma in maniera
ancora più lamapante Stanley Kubrick.

Diventa chiaro l’omaggio nella scena in cui Reynolds e Alma
corrono in macchina nella notte, l’inquadratura è la stessa identica di quanto
Alex e i suoi Drughi guidavano a perdifiato la loro Durango 95 (“La Durango 95
filava molto karascho, con piacevoli vibrazioni trasmesse al basso intestino”
cit.), ma più in generale Pitì Anderson pare aver assimilato il ritmo lento, la
natura apparentemente glaciale dei rapporti tra personaggi e la loro evoluzione
lenta, ma costante presente in film come “Barry Lyndon” (1975), si nota anche dal lavoro
alla fotografia, infatti per Il filo nascosto Pitì non ha assunto nessun direttore
della fotografia, ha fatto tutto da solo (storia vera), forse perché scrivere,
dirigere e co-produrre non gli bastava.

Immaginatevi questa scena, ma con Daniele Giorno-Luigi alla guida.

Come dicevo, la storia non ha proprio il brio di quei film
che ti fanno correre da tutti gli amici a gridare «Oh! Ho visto l’ultimo di
Pitì BOMBA! Devi troppo vederlo!» no quello proprio no, però il cinema del buon
Pitì è quello che più la guardi è più ti trovi avvolto, se il suo personaggio parla sognante di quanto ogni cuciturina dei suoi abiti vada
curata e possa nascondere al suo interno qualcosa, allo stesso modo fa
Anderson, che fa dell’artigianato cinematografico, nel senso di cinema di
ottima fattura, confezionato a mano su misura per essere elengate e fuori dal
tempo. Un’idea di cinema che se ne frega delle mode del momento e punta al
classico, mettetelo in conto se deciderete di vederlo e godetevi il viaggio.

Perché alla fine, come mi accade sempre con i film di
Pitì, appena mi scappa l’occhio all’orologio arriva il momento che ti prende
per il bavero e ti tira dentro alla storia, qui è la scena degli asparagi,
penso che nessuno al cinema abbia mai montato un caso su un piatto di asparagi
ed è qui che sta la differenza di questo film rispetto agli altri che vi
potrà capitare di vedere. La litigata tra Alma e Reynolds che segue è davvero
qualcosa per futili motivi che, però, nasconde al suo interno questioni di
coppia rimaste in sospeso da tempo. Per come è stata scritta e recitata,
risulta molto naturale e totalmente realistica, vien voglia di alzarsi e
lasciare marito e moglie a battibeccare tra di loro.

“Mi stai prendendo le misure per il vestito?” , “No per la bara”.

Contribuiscono moltissimo a farsi coinvolgere dalla trama
anche le musiche di quel genietto di Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead
che definire solo così sarebbe riduttivo, visto che suona circa 874
strumenti. La sua colonna sonora si sposa alla perfezione con le immagini messe
su da Pitì Anderson, anche perché, artisticamente parlando, i due ormai sono
una coppia di fatto, questa è la loro quarta collaborazione insieme.

Il titolo italiano è una buona traduzione dell’originale “Phantom
Thread” che non so perché mi fa temere che da un momento all’altro possa
entrare in scena Jar Jar Binks,
magari per essere preso a mazzate in testa con un birillo da Daniele
Giorno-Luigi, non avviene per fortuna. O purtroppo, lascio decidere a voi.
Il titolo funziona perché sottilmente fa pensare alla
domanda: cosa serve ad una coppia per stare insieme? Qual è il filo nascosto
(appunto) che lega due persone che sulla lunga distanza riescono a stare
insieme? Qui Pitì Anderson infila il suo discorso sui ruoli e le dinamiche tra
personaggi, Alma che dei due sembra quella sottoposta alle manie di Reynolds,
improvvisamente per una svolta si ritrova al comando ed in questo senso Vicky
Krieps è davvero bravissima.

“Noi. Facciamo. Tendenza” (Cit.)

Non lo so proprio dove sia andato a pescarla Pitì questa
qui, ma è un’attrice davvero molto brava che tiene alla grande lo schermo
contro un mostro sacro in gran spolvero come Daniel Day-Lewis, assurdo che non
sia nemmeno stata candidata agli Oscar, pazzesco!

Quindi parliamo dell’altra ragione, dopo Anderson, che mi ha
convinto a vedere 130 minuti di una storia ambientata nel mondo della moda londinese degli anni ’50: Daniel Day-Lewis si è ufficialmente ritirato dalla
recitazione a luglio dello scorso anno, quindi questo è destinato ad essere
ricordato come il suo canto del cigno. Poteva andarci decisamente peggio
bisogna ammetterlo.
Daniele Giorno-Luigi saluta e se ne va, al grido di «Sapete
che c’è? Vado a fare il calzolaio a Lucca, ciaione!» non un colpa di testa da
divo, ma il finale della storia di uno che con il resto del pianeta e in
particolare dei suoi colleghi di Hollywood, ha ben poco in comune. Anche per
questo film si è fatto i suoi bravi mesi di ricerche, spulciando filmati d’epoca
delle sfilate di moda degli anni ’50, studiando i materiali e parlando con
quanti più addetti ai lavori possibili, un lavoro di immedesimazione nella
parte degno della ferrea routine di Reynolds che ha coinvolto anche Vicky
Krieps. Ancora oggi, se chiedete a lei, la sentirete parlare di Daniel Day-Lewis
chiamandolo proprio Reynolds, su specifica richiesta dell’attore (storia vera),
una roba che non sentivo accadere dai tempi di Mary Badham e Gregory Peck in
“Il buio oltre la siepe” (1962).
La prova di Daniele Giorno-Luigi è magnifica, un lavoro di
cesello sul suo personaggio che va oltre la malinconia dei saluti finali, ma è
l’ennessima grande prova di un attore che in carriera ha sbagliato pochissime
scelte, ma, in compenso, ha sfornato un sacco di personaggi memorabili che non
sarebbero stato altrettanto mitici senza il suo naso ossuto e la sua faccia
spigolosa. Mi mancherà questo ragazzaccio.

“Invece il tuo blaterare non mi mancherà per niente Cassidy”.

Ora, non lo so se sono riuscito a consigliarvi come si deve
questo film, anche se non dovesse sembrarvi una roba nelle vostre corde, vi
capisco, ma un’occhiata la merita, il cinema di Pitì Anderson ha la peculirità
di essere unico. Sicuramente la mia personale classifica dei suoi film che
preferisco non verrà rivista alla luce dell’uscita di questa pellicola, ma
beccami gallina se mi lascio scappare ogni suo nuovo lavoro!

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