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Il giustiziere della notte (1974): c’era una volta un vigilante

1973, Charles Bronson e Michael Winner hanno appena terminato di girare “L’assassino di pietra”. Bronson, m’immagino senza mai cambiare faccia anche di un solo millimetro, chiede al regista del loro prossimo progetto, Winner gli parla di una sceneggiatura che ha tra le mani, la storia di un uomo che perde moglie e figlia per colpa di alcuni rapinatori e decide di dargli la caccia per sparargli. Bronson risponde «Mi piace farlo», ma cosa Charlie? Il film, «No, sparare ai rapinatori» (storia vera).

Liberamente ispirato al romanzo omonimo “Death Wish” di Brian Garfield del 1972, il film di Winner è stato uno di quei titoli in grado di entrare a far parte della cultura popolare, Bronson l’uomo qualunque che si fa giustizia da solo seguendo l’adagio Vecchio testamento dell’occhio per occhio è una figura talmente famosa che persino quei due che non hanno mai visto il film conoscono, specialmente grazie ai numerosi seguiti (ben quattro) che hanno fossilizzato il personaggio, rendendolo l’indistruttibile e reazionario vendicatore che tutti conoscono.

Alla sua uscita nel 1974, “Death Wish” è diventato un successo al botteghino che levati, ma levati proprio, ma ha anche sollevato un coro di polemiche su cui i seguiti diretti del film sembrano essersi adagiati, quasi tutta la critica bollò il film come un’apologia fascista che, ribadisco, è molto più azzeccata ai vari seguiti che al primo film.

A rivederlo oggi è chiaro che i vari film “Hanno rapito/ucciso/violentato mia figlia” sono tutti nipotini di “Death Wish” che ha codificato al cinema l’archetipo dell’uomo che si fa giustizia da solo, Classido? Potete scommetterci i baffi!

A ben guardare, un altro caposaldo del genere uscito pochi anni prima come Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! È un film decisamente più destrorso se non altro per il suo ruvido protagonista, eppure il film di Michele Vincitore dev’essere uscito nel momento giusto, o più probabilmente ha saputo pungere sul vivo qualche nervo scoperto di un Paese che in quel momento storico era particolarmente sensibile ad una storia come questa.

Un esempio del clima degli Stati uniti di allora? Nel febbraio del 1974, Gerry Conway ai testi, coadiuvato dai disegni di Ross Andru e John Romita Sr. (il cappello grazie…), sulle pagine di “The Amazing Spider-Man n. 129” fanno esordire un vendicatore con vistoso teschio sul petto, il suo nome è Frank Castle, ma tutti lo ricorderanno come il Punitore. “Il giustiziere della notte” esce nei cinema americani nel luglio dello stesso anno, non credo che possa essere solo un caso.

Michael Winner, Inglese trapiantato negli Stati Uniti riesce con questo film, a regalarci uno spaccato della terra della torta di mele più lucido di tanti filmaker americani, al resto ci pensa Charles Bronson, la cui faccia è il solito inscalfibile Monte Rushmore anche se il personaggio non è ancora l’ammazzasentenze che tutti ricordano.

La reazione di Bronson, quando qualcuno usa la frase: Quell’attore non è espressivo.

Il suo Paul Kersey è un ingegnere edile, liberale tanto che durante la guerra in Corea ha prestato servizio come medico per rispettare il suo giuramento da obbiettore di coscienza, tanto per rincarare la dose, di ritorno da una paradisiaca vacanza a Maui con la moglie Joanna (Hope Lange, referita alla solita Jill Ireland, moglie di Bronson, proprio per la sua aria da fidanzatina d’America, storia vera) il collega di lavoro gli ricorda quando New York sia un postaccio schifoso pieno di gentaglia che dovrebbero lasciare la città per sempre, il nostro Paul risponde dicendo che solo chi ha i mezzi economici per farlo può andarsene, beccandosi in tutta risposta un: «Il tuo cuore sanguina sempre a sinistra, eh?», insomma pure il doppiaggio italiano le pensa tutte per far arrivare al pubblico forte e chiaro la posizione politica del protagonista.

La svolta fatale arriva quando una banda di giovinastri, capitanati da un Jeff Goldblum così giovane che forse non aveva nemmeno l’età per ordinare una birra in alcuni dei cinquanta Stati (ma a quanti film fighi ha preso parte il grande Jeff??), s’infila in casa Kersey, picchiando brutalmente la moglie e violentando con ancora più violenza la figlia che traumatizzata precipita in uno stato di afasia.

Qui aveva circa, dodici anni credo, ma è sempre il grande Jeff!

La scena delle violenza in sé è diretta in modo spiccio e diretto da Winner che non ci risparmia quasi nessun dettaglio, per far arrivare il suo messaggio forte e chiaro: i criminali sono Indiani metropolitani, non hanno un’etnia specifica, sono neri, bianchi, latini, l’unico tratto comune è quello di essere giovani e vistosamente malvagi, più che un dito puntato contro una certa porzione della popolazione, sembrano il sottoprodotto della città, che per Winner sembra il vero male, sarà pure grande questa mela, ma è anche parecchio marcia.

Winner rappresenta le città come un posto che spersonalizza l’uomo, i palazzi le rendono luoghi opprimenti dove vivere è impossibile e ogni cosa non può che andare storta, la giustizia è inefficace e chi segue le regole non è altro che una preda naturale per i tanti predatori.

Non a caso, la svolta per Paul Kersey è decisa, ma non repentina, il suo datore di lavoro per distrarlo dalla grave perdita subita lo manda a lavorare a Tucson in Arizona, grandi spazi in aperto contrasto con i vicoli di New York e uno stile di vita molto diverso, qui inizia a simpatizzare con un cliente della compagnia, che con il suo cappellaccio, le corna di mucca sul cofano della macchina e la mania per le armi somiglia tanto ad uno di quegli Americani che probabilmente non hanno votato per Hillary alle ultime elezioni, ecco, forse hanno preferito l’altro candidato.

«Parlami ancora di questo secondo emendamento, comincia ad interessarmi»

Il momento chiave è quando Paul assiste ad una ricostruzione storica in un villaggio di cowboy messo su per i turisti, la scenetta recitata da alcuni attori è l’occasione per l’architetto liberare di riflettere sul suo Paese, infatti con il genero si ritrova a riflettere sui tempi in cui “L’America era ancora l’America” di quando i pionieri si difendevano da soli senza aspettare la polizia, infatti non appare convinto nemmeno allo scambio di battute fondamentale per capire il personaggio: «Come li chiami gli uomini che minacciati sanno solo andate a nascondersi» , «Civilizzati». Gli risponde il cognato, ma Paul non sembra proprio convintissimo ecco.

Non avendo avuto una storia lunghissima, gli Americani spesso considerano il selvaggio West il loro autentico passato, Winner è bravissimo a rendere “Il giustiziere della notte” non solo un western urbano, ma una riflessione sugli Stati Uniti, un Paese con un piede nel suo passato fatto di massacri, uccisioni, sparatorie e gente che andava in giro con il ferro nella fondina e un altro piede in un presente in cui quella cultura delle armi è ancora lì, ma le città hanno sostituito le cittadine di frontiera, più che una decisa posizione interventista sembra quasi una malinconia per tempi andati, di una nazione che è nata con una rivoluzione e continuata con un massacro.

Il revolver a sei colpi, più Americano della torta di mele.

Per questo trovo incredibile la prova di Charles Bronson che davvero incarna il titolo del film, perché “Il giustiziere della notte” è un’anticipazione di quello che l’ingegnere baffuto finirà per fare, ovvero andare in giro di notte ad uccidere criminali e, a dirla tutta, inaugura anche la (brutta) abitudine di uno strambo Paese a forma di scarpa di ficcare nei titoli “Della Notte” così, perché fa figo.

Il caso più celebre è sicuramente il capolavoro di Walter Hill “The Warriors” (1979) che da noi diventa “I guerrieri della notte”, ma che ci vogliamo fare è così, ad esempio, nessuno andrebbe al cinema a vedere un adattamento della mie tediose giornate di lavoro, ma se il film s’intitolasse “Il disegnatore della notte” sono sicuro che almeno un paio di sale le riempirebbe, garantito al limone! Ma su questo argomento, lascio la parola a Doppiaggi Italioti!

“Death Wish” è un titolo molto, ma molto più azzeccato, perché indica tutte quelle persone che compiono atti spericolati e potenzialmente mortali, per assecondare proprio un interiore “Desiderio di morte” che, poi, è quello che guida per davvero Paul Kersey.

Come un Samurai, completamente votato alla morte.

Uno che prima si fa cambiare venti dollari in due rotoli di monete, da tenere arrotolati in un calzino da usare come letale arma di difesa e, poi, al primo schiaffo tirato in faccia ad un rapinatore della domenica, torna a casa sconvolto e con mani tremanti si fa un goccio per tentare di distendere i nervi.

Charlie Bronson è meraviglioso da questo punto di vista, non cambia di un solo millimetro l’espressione del volto, eppure il tormento interiore del personaggio traspare dalla sua recitazione, dal suo modo di muoversi, dalla rabbia che il personaggio tiene a freno sottopelle e che riesce a sfogare soltanto girovagando di notte nei luoghi più malfamati della città alla ricerca di qualcuno da punire. Un uomo vuoto mosso solo dalla volontà di giustizia, esattamente come Frank Castle e che riesce ad essere una clamorosa risposta a tutti quelli che valutano un attore solo sulla base del numero di espressioni che riesce a sfoggiare, Bronson ne aveva una, quella giusta!

Proprio vero che certe facce appartengono di diritto al cinema.

Quello che trovo geniale in “Il giustiziere della notte” è la totale assenza dello scontro finale che ci si aspetterebbe da un film così, Charles Bronson non uccide Jeff Goldblum e il resto della banda di gatti senza collare che hanno materialmente ucciso sua moglie e violentato sua figlia, ma ogni notte idealmente esce a cercarli in ogni criminale che trova in giro, non perché questo poterà nuovamente in vita sua moglie o vendicherà davvero il trauma subito dalla figlia, ma solo perché tornare in una casa vuota da solo, può essere ben peggio che morire nell’impresa, un film e un personaggio ben più sfaccettati di quanto la loro fama presso il grande pubblico ancora oggi ricordi.

La violenza è quella che solo negli anni ’70 si poteva mostrare al cinema, una volta chiariti i ruoli, Paul Kersey può permettersi di sparare alle spalle anche ad un rapinatore nero disarmato in fuga, una robetta che nel cinema di oggi sarebbe impensabile e trovo ancora più azzeccato il modo in cui tutto si risolva, “Il Giustiziere” per il solo fatto di esistere è un deterrente per il crimine, spinge persino le vecchiette a reagire agli scippi, proprio per questo nessun procuratore vuole macchiarsi dell’infamia di essere l’uomo che lo ha arrestato, meglio godersi il 50% dei crimini in meno e guardare dall’altra parte.

«Sapete solo suonare o sapete anche sparare?» (Quasi-Cit.)

Il finale, infatti, è la conclusione del duello, in cui Winner ribadisce ancora una volta il fatto che non solo questo film è un Western, ma che gli Stati Uniti d’America possono anche dichiararsi la patria della democrazia, ma il West se lo portano proprio dentro. Infatti, il poliziotto sulle piste di Kersey non può arrestarlo, può solo intimargli di lasciare per sempre la città, Kersey lo sa e risponde proprio come il pistolero solitario di un Western, prendendo per i fondelli il suo avversario: «Sceriffo? Prima del calar del sole?».

Capisco che sia anche facile accusare di Fascismo un film come questo, ma è nel mitico finale che il messaggio di Winner diventa chiaro, la violenza genera solo altra violenza e persino un liberale obbiettore di coscienza può iniziare a prenderci gusto una volta entrato in questo vortice. Kersey arriva a Chicago, una città nuova, ma sempre corrotta, in stazione alcuni teppisti prendono di mira una ragazza, il sorriso di Bronson e il pollice e indice con cui pare loro dire «Ci vediamo più tardi», è di un cinismo totale, se solo non fosse una scena finale così incredibilmente potente, visto? Una mono espressione per 90 minuti e poi un sorriso ed un occhiolino al momento giusto, a volte sono più che sufficienti per fare la storia del Cinema!

«Tirami il dito»

Sepolto in precedenza venerdì 26 gennaio 2018

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