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Il grande freddo (1983): si vestivano e parlavano come noi, per questo abbiamo creduto che fossero come noi

Nella lista di miei coetanei che spengono le loro prime quaranta candeline nel corso di questo 2023, ci sono un sacco di titoli notevoli, alcuni li abbiano trattati, altri ancora arriveranno (dicembre è ancora lontano), ma il film di oggi ha un sapore speciale, con tanti saluti a Tarantino che dalle pagine di quel suo libercolo dalla copertina arancione, lo ha definito noiosissimo. Contento tu Quentin, io credo che vadano sprecati ben altri aggettivi su “Il grande freddo” e il suo autore, Lawrence Kasdan.

Quando penso a quella manciata di nomi di autori che hanno marchiato a fuoco l’immaginario collettivo degli anni ’80, il nome di Lawrence Kasdan non è il primo tra quelli che vengono fuori nelle discussioni, ma è quello che assocerei immediatamente all’idea di genio. Nessuno come lui ha saputo distillare il fulmine dentro la bottiglia, trasformando in oro tutto quello su cui metteva le mani, perché parliamo dell’uomo che nel giro di due anni ha scritto L’impero colpisce ancora e I predatori dell’arca perduta, una doppietta irreale che mette i brividi a pensarci, infatti proprio di brividi (caldi) trattava la sua prima inevitabile regia del 1981.

Il film è talmente bello che per le didascalie oggi potrei solo citare i dialoghi. 

Non pago, perché non scrivere anche la sceneggiatura di Il ritorno dello Jedi? Dopo una tripletta del genere e la sicurezza di pubblico e critica di un film d’esordio bollente con Kathleen Turner e William Hurt – alla prima di tante collaborazioni insieme con Kasdan – la logica suggerirebbe che Hollywood ad uno così, avrebbe dovuto stendere i tappeti rossi, invece la sceneggiatura di “The big chill”, scritta a quattro mani con la sodale Barbara Benedek, nessuno voleva produrla, nessuno riusciva a vederci un film in questa banda di vecchi amici che parlano, dai notevoli titoli di testa fino a quelli di coda, ma prima, alla rimpatriata bisogna invitare l’elefante, facciamolo entrare nella stanza.

Lorenzo il magnifico e la sua band. 

Sarebbe mai esistito “Il grande freddo” senza “Return of the Secaucus 7″, film del 1979 diretto da John Sayles? Molto probabilmente no, le due trame di base si somigliano anche troppo, una presa di posizione chiara da Kasdan e Benedek in tal senso non è mai arrivata, ma è piuttosto chiaro che nel film dell’indipendente Sayles i due abbiano ritrovato molto di quello che volevano già raccontare, difficile non pensare alla parola “plagio”, ma ridurre tutto ad una semplice copia non avrebbe molto senso, anche Leone ha copiat… Ehm, preso in prestito da Kurosawa, ma in questo caso la differenza tra i due film sta proprio nel “manico”, in quei dialoghi da scuola di sceneggiatura che il film di Sayles non aveva. In questi casi vale il principio per cui qualcuno ha l’idea, e qualcun altro la porta al grande pubblico, Kasdan era l’uomo giusto per farlo, specialmente nei primi anni ’80.

Kasdan e Benedek nella sceneggiatura de “Il grande freddo” hanno messo molto delle loro vite, in particolare quel periodo di transizione che va dall’attivismo politico dei vecchi tempi del college all’età adulta, un soggetto estremamente personale, che ha potuto girare tra le scrivanie dei capoccia delle varie case di produzione solo in virtù del notevole curriculum di Kasdan.

A quelli della The Ladd Company, malgrado il successo di “Brivido caldo”, di questa roba con tante chiacchiere non sapevano che farsene, sembrava potesse andare un po’ meglio con la Paramount ma niente, anche lì il gelo. Fu necessario il provvidenziale intervento della produttrice Marcia Nasatir, appena svincolata dai suoi incarichi con la United Artists a dare la spallata giusta. Risultato? Finanziato dalla neonata Carson Production e distribuito da una molto recalcitrante Columbia, ma Nasatir era nel giro da molto e sapeva come convincere Frank Price a capo della major.

La meglio gioventù che il 1983 poteva mettere in campo.

Forse il colpo di genio è stato quello di assegnare un ruolo a William Hurt, creando comunque della continuità con “Brivido caldo”, ma allo stesso tempo, popolare il nutrito cast non di attori al tempo famosissimi presso il grande pubblico, ma quasi tutti nomi che lo sarebbero diventati di lì a poco, subito dopo questa riunione tra amici. Al pubblico (specialmente italiano) sono sempre piaciute le orge di attori, metti duecento nomi in cartellone e qualche biglietto lo stacchi, “Il grande freddo” in quanto film corale ai tempi non aveva nomi di tale richiamo, ma riletti tutti insieme oggi, mette in chiaro quanto sia stato seminale nel coltivare “la meglio gioventù” disponibile ad Hollywood in quel periodo: Kevin Kline, Glenn Close, Tom Berenger, Jeff Goldblum, il già citato Guglielmo Ferito, JoBeth Williams, Meg Tilly e Mary Kay Place. Brividi, ma non di freddo, perché tecnicamente a questa banda di talenti, andrebbe aggiunto un altro ragazzo promettente… Kevin Costner.

Già perché nella gavetta che avrebbe portato il Kev ad essere il DIVO degli anni ’90, in particolare nel 1992 con “Guardia del corpo” (chi lo ha scritto quello? Toh guarda? Tale Kasdan Lawrence. Non è un omonimo), proprio il biondo coreografo di lupi qui ricopre un ruolo chiave, In absentia, visto che è la morte del suo Alex Marshall il MacGuffin che mette in moto tutta la storia.

«Ma non si era detto volante la bara?»

Non che Costner non abbia girato scene insieme al resto del cast, per altro inventandosi per il suo Alex uno stile trasandato, da novello James Dean che in linea di massima, gli sarebbe tornato utile per il suo primo grande successo, ovvero “Fandango” (1985). Il problema è che lo stesso Kasdan si è reso conto che le parti con Alex in scena, erano quelle meno efficaci del film, quindi al montaggio ha fatto sparire Kevin Costner dal film, ma in linea di massima si sarebbe ricordato di lui, quando nel 1985 ha diretto “Silverado”, anche perché se dirigi un Western, Costner è meglio averlo dalla tua parte.

Il regista e sceneggiatore per ottenere il meglio dai suoi talenti, li ha radunati per settimane tutti insieme, intenti a provare le battute e a calarsi nei ruoli, per ricreare quella chimica e quelle dinamiche che sono necessarie per interpretare un gruppo di amici di vecchia data, i risultati si vedono tutti sul grande schermo, fin dai primi minuti del film.

«Tua sorella non è venuta? No perché anche lei è carina» 

Cosa vi dico sempre dei primi cinque minuti? Sono quelli che determinano tutto l’andamento della pellicola, quelli di “The big chill” sono scuola di cinema, sulle note di “I Heard It Through The Grapevine” nella versione di Marvin Gaye (non in quella dei Creedence, ma ci sarà spazio anche per loro nel film), a colpi di telefonate la notizia si sparge tra le fila del gruppo di vecchi amici, Alex è morto, suicidio, come l’inquadratura sui polsi recisi mette in chiaro durante la preparazione del corpo per il funerale, un gran esempio di “Show, don’t tell”.

Ad uno ad uno tutti i vecchi amici si radunano in chiesa per le celebrazioni, qualcuno ci arriva fattissimo (come Billy Hurt), altri piangono, uno, Kevin Kline fa il discorso e basta già solo questo per capire tutte le dinamiche all’interno del gruppo, il film è iniziato da cinque minuti e già sappiamo tutto quello che ci serve sapere sui personaggi. Quando all’organo, su richiesta viene suonata “You can’t always get what you want” degli Stones, tutti sorridono ed è chiaro che come spettatori, stiamo condividendo un ricordo con i personaggi, qualcosa che in passato hanno costruito insieme, un momento felice di cui noi non conosciamo i dettagli, ma istintivamente ci sembra di conoscere, perché momenti così con gli amici li abbiamo passati tutti e niente più delle musica può farti viaggiare con le mente indietro nel tempo, e qui veniamo ad uno dei punti chiave del film.

Dance until your feet hurt. Sing until your lungs hurt. Act until you’re William Hurt (cit.) 

Non puoi sempre ottenere quello che vuoi cantano gli Stones, il film di Kasdan riassume alla perfezione quel periodo della vita in cui cominci a realizzare che hai dei limiti, e che molto probabilmente non realizzerai per davvero tutti i tuoi sogni giovanili. Un senso di disillusione misto a pacifica rassegnazione, quella che solo gli anni e l’esperienza possono darti, perché il film è un capolavoro di equilibrismo, che alterna momenti drammatici a scelte di montaggio delicatissime, che dicono tanto con apparentemente pochissimo, come le scatole di scarpe da corsa, che spariscono una dopo l’altra, dopo un breve sondaggio sui numeri di scarpe, giusto per fare un esempio.

Questo insieme alla qualità sopraffina dei dialoghi, fanno di questo film una lezione di buon cinema, tutti i personaggi di “The big chill” hanno sempre la battuta pronta, ma in un modo naturale, totalmente cinematografico nel loro risultare realistico, l’effetto finale? Una serie di frasi da mandare a memoria, una in particolare, quella che riassume tutta la consapevole disillusione del film ho voluto parafrasarla nel titolo, un’altra dovrei appuntarla vicino al monitor e farne il motto di questa Bara: «Non scrivere niente di più lungo che un uomo medio non legga durante una cacata media. Sono stufo che il mio lavoro venga letto nei cessi.»

Scegliete il vostro momento preferito, scegliete il vostro personaggio preferito, vi deluderà, ma per il semplice fatto di risultare dannatamente realistico, più passano gli anni e più sarà facile per tutti noi riconoscerci nei protagonisti di quello che è a tutti gli effetti un Classido! Ciao ciao Quentin.

Tom Berenger interpreta una star del piccolo schermo, una sorta di proto-Magnum P.I. famosissimo ma infelice e molto distante dalla sua immagine di eroe delle TV, oppure il giornalista dall’etica discutibile e dal gesticolare a rallentatore di Jeff Goldblum. Qualcuna cerca di diventare madre senza troppo successo, come Mary Kay Place, mentre chi ha già una famiglia come JoBeth Williams, in realtà non è felice lo stesso. Menzione speciale per Meg Tilly, la giovane aggiunta del gruppo, uno sguardo sulle nuove generazioni, più naif e già scazzate in partenza, personaggio riuscitissimo nel suggerire le altrui crisi di mezza età, perfetto contro altare di coloro che visti da fuori, sembrano una coppia solida e felice, come Harold (Kevin Kline) e sua moglie Sarah (Glenn Close) che invece aspetta di essere sotto la doccia per piangere e in questo gruppo di talenti, se dovessi indicarne una che batte gli altri di un’incollatura – guadagnandosi per quanto anche una nomination agli Oscar – indicherei proprio Glenn Close, in una delle sue tante prove maiuscole.

L’attrazione fatale verso un premio (purtroppo) mancato.

Una menzione speciale se la merita tutta William Hurt, che passa dall’essere l’amante bollente di “Brivido caldo” al grande freddo, anche tra le coperte, del suo personaggio qui, tossico perso, segnato malamente dall’esperienza in Vietnam che lo ha lasciato impotente, l’esatto opposto del suo personaggio nella prima – di tante – collaborazioni con Lawrence Kasdan, in un film che è il padre nobile di tutto quel filone legato a vecchi compagni di scuola che si ritrovano.

Hanno pescato a piene mani da qui “St. Elmo’s Fire” (1985), senza nemmeno cambiare il nome anche “About Alex” (2014) oppure il nostrano “Compagni di scuola” (1988), per un film generazionale ma che anche allo scoccare degli ‘anta, ha ancora tutto per parlare a tutti. Ci sono una manciata di film nella storia del cinema che dovreste portarvi sempre con voi, titoli da rivedere non per forza una volta l’anno, meglio se una volta ogni cinque o ancora meglio dieci anni, in diverse fasi della vita. Perché titoli come Un mercoledì da leoni o appunto “Il grande freddo”, colpiscono nel segno con ancora più potenza di quanto non siano in grado di fare in condizioni normali, se voi sul contachilometri avete aggiunto un po’ di strada percorsa.

Fa tutto un altro effetto vedere “Il grande freddo” a quindici anni, a venticinque o a quaranta, il film è sempre lo stesso ma trattandosi di una micidiale e riuscitissima prova di equilibrismo da parte di Lawrence Kasdan, saprà parlarvi ed evocarvi ricordi, non solo grazie a quella notevole colonna sonora.

Bad Moon Rising dei Creedence, The band, i Temptations, Percy Sledge, Three Dog Night la cui “Joy to the world” ha la responsabilità di chiudere il film nel modo migliore possibile, fate un nome, ci sono tutti, per una scelta di pezzi che in certi passaggi del film, sopperiscono al ruolo dell’assente voce narrante, in perfetta armonia con quei dialoghi che già sono musica per quanto risultano scritti bene e recitati meglio.

Diglielo Nick! 

Un titolo sessantottino, anzi, post-sessantottino a dirla tutta, che parla di come gli animi per ogni generazione, finiscano inevitabilmente per raffreddarsi, sia dal punto di vista dell’attivismo politico sia entrando nell’età adulta, lasciandosi alle spalle il caldo abbraccio della vera amicizia, quella giovanile, il grande freddo appunto.

Stephen King – che non sembra ma ha cittadinanza quando si parla di questo film – una volta che era particolarmente ispirato ha scritto quella massima per cui nella vita, non avrai mai più amicizie come quelle che avevi a dodici anni. Ecco, quando i protagonisti di “The big chill” organizzano una cena cinese, a me viene sempre in mente la stessa sequenza di “IT” e penso che la famigerata, e fino a questo momento inadattabile fuori dalla pagine, seconda parte di quel capolavoro letterario, dovrebbe essere un film come “Il grande freddo” con in più un clown assassino, problema che va ad aggiungersi ai casini dei quarantenni protagonisti, le cui vite sono già belle incasinate. Infatti è un po’ un crimine che l’unica volta che King e Kasdan si sono incontrati, sia stato solo nel 2003, per il non proprio irresistibile “L’acchiappasogni”, in abbondante fase calante per entrambi.

I film dove i protagonisti ballano attorno al tavolo della cucina mi fanno venire l’orticaria, ma a questo cosa vuoi dirgli? 

Perché “The big chill” è “Stand by Me” (1986) raccontato dal punto di vista di Gordie si, ma quello adulto con il volto di Richard Dreyfuss, anzi a dirla proprio tutta è il fratello maggiore, di due anni più vecchio anagraficamente, ma di almeno una ventina abbondanti per i chilometri citati lassù di “Breakfast Club” (1985). Più passano gli anni e più il decennio degli anni ’80 viene intrappolato nell’ambra e cristallizzato come un periodo caramelloso e pieno di BMX, più questi tre titoli, che fanno parte di un’ideale non-trilogia, con proprio il film di Kasdan in testa in quanto apripista, ci ricordano come si dovrebbe guardare al passato.

Malinconia certo, magari facendo un sorriso come quanto i “ghiaccioli” di Kasdan ascoltano gli Stones, ma senza che il passato sia il sasso al collo che ti trascina a fondo, quel senso di tempore dato dal ricordo dei vecchi tempi è una coperta calda con pro e contro. Rivedere questo classi(d)o in diverse fasi della propria vita è importante anche per questo, non solo per far pace con il grande cinema, poi se Tarantino si annoia con questo gioiellino, beh cazzi suoi.

Jeffone modello di vista, dieci anni dopo avrebbe replicato

Trovo molto significativo il poter annoverare tra i miei coetanei due lavori di Kasdan, il trionfo del fantastico e delle fantasie infantili e allo stesso tempo il massimo della disillusa speranza per il futuro di chi è prossimo agli ‘anta, ben raccontata in “Il grande freddo”. Visto che credo di aver detto tutto quello che il mio personale contachilometri mi permette di dire ad oggi su questo capolavoro, chiudo citando il mio preferito, ovviamente Jeff Goldblum, questa era anche facile da intuire, che la sua massima possa, non dico aiutarvi nella vita, ma almeno aiutarvi a passare serate migliori: «Io credo nella vecchia teoria che tutti fanno tutto con il fine di scopare.», dopo questa grande lezione di vita, musica!

Sepolto in precedenza mercoledì 12 luglio 2023

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