«Avevo una patata bollente in mano e la buttai prima di bruciarmi. Non volevo tornare in ufficio e mi fermai a giocare a bowling. Volevo pensare ad altro per un po’» con questa citazione a tema direttamente da “La fiamma del peccato” (1944) di Billy Wilder, posso finalmente darvi il benvenuto al nuovo capitolo della rubrica… Coen, storia vera!
Inutile girarci attorno, punto allo strike e non allo spare, ogni rubrica monografica qui sulla Bara ha un titolo più atteso, cliccato e letto degli altri, per i fratelli Coen non può che essere “Il grande Lebowski”, che riesce ad essere allo stesso tempo un film manifesto e un oggettino irripetibile, che vanta parecchi tentativi di imitazione ma nessuno davvero riuscito. Perché ancora una volta “Il regista a due teste” pesca dalla struttura del Noir, il vero nord magnetico narrativo per i Coen, e omaggiandolo lo irride, lo smonta, lo mescola con il mito della frontiera (non a caso la voce narrante è un Cowboy con i baffoni di Sam Elliott) perché se c’è una cosa che i fratellini del Minnesota sanno fare bene, è omaggiare i generi rielaborandoli alla loro maniera, ed anche uno come me, in competizione per il titolo mondiale dei pigri, può capire che a volte si incontra un film che… A volte si incontra un film che… Ah! Ho perso il filo del discorso. Bah, al diavolo è più che sufficiente come presentazione per un Classido.
Il copione di “The Big Lebowski” è stato scritto dai Coen più o meno in concomitanza con Barton Fink, e poi lasciato sedimentare, anche in attesa dei due attori attorno alla quale i registi del Minnesota volevano costruire la loro storia, il cui baricentro è in equilibrio sul rapporto tra “Dude” (da noi reso “Drugo”, ci azzecca poco ma sembra una parodia dei Drughi kubrickiani, quindi… Ok) e Walter Sobchak, due opposti attratti fondamentalmente dal Bowling, che si muovono in un mondo che potrebbe essere la Los Angeles di fine anni ’90, ma ha un tocco retrò in cui proprio il Bowling riporta idealmente all’America degli anni ’50, un posto dove la voce narrante potrebbe finire a parlare con il protagonista o magari direttamente al pubblico, il tutto mentre ordina della Salsapariglia.
Un posto dove un gruppo di Nichilisti (tra cui Flea dei Red Hot Chili Peppers, che ama comparire in titoli di culto) hanno fatto un fisco Techno-Pop con la copertina che ricorda i Kraftwerk, un mondo grottesco come il funerale finale, popolato di personaggi quasi da cartone animato che anche se non hanno un vero ruolo nella storia, sono talmente riusciti da diventare mitici, un esempio? “The Big Lebowski” sarebbe stato un gran film anche senza Jesus Quintana, ma con il personaggio di Turturro risulta ancora migliore o per lo meno, ci ha regalato cinque o sei frasi di culto solo lui, trovando anche il modo di farmi apprezzare quegli schifo di Eagles (qui rifatti da Gipsy King), perché su questo punto sto con il Lebowski spiantato, accomunati dall’odio per quel gruppo, la pigrizia, la vestaglia (ho la mia da scrittura, storia vera) e ovviamente il White Russian.
“Il grande Lebowski” è finto come il cinema stesso e proprio per questo, non poteva che trarre ispirazione in parti uguali dai polizieschi di Raymond Chandler, da classici come “Il grande sonno” (1946) di Howard Hawks e ovviamente, dalla realtà, la vera fonte di grottesco e svolte casuali come solo la vita può generare. Drugo Lebowski esiste, e ha prodotto il primo film dei Coen, Blood Simple, mi riferisco ovviamente a Jeff Dowd, produttore certo, ma anche attivista, membro fondatore del “Fronte di liberazione di Seattle”, uno che amava farsi chiamare “Dude” e più di quello, ha sempre amato solo i suoi White Russian e quelle sigarettine tutte storte arrotolate a mano.
Ma visto che la vita è la miglior sceneggiatrice del mondo, un altro personaggio che ha ispirato i Coen è stato il veterano del Vietnam Peter Exline, che è anche stato colui che ha fatto da ponte di unione tra i due fratelli e il loro primo direttore della fotografia di fiducia, Barry Sonnenfeld, dai tempi della New York University. Exile era molto orgoglioso del tappeto di casa sua, che dava un tono all’ambiente, anche se, quando i due fratellini sono sbarcati dalle nevi eterne del Minnesota nella calura perenne della California, un altro incontro con una personalità dell’ambiente cinematografico li ha colpiti, quello con un degli eroi di questa Bara, infatti la manifesta e perennemente osannata passione per le armi di John Milius è diventata la base sui cui ha preso forza e slancio il personaggio di Walter Sobchak. Per assurdo in troppi hanno dimenticato il contributo fondamentale di Milius alla settima arte, ma tutti, tutti, intendo proprio tutti, anche chi non conosce il suo nome, ha ben presente la sua amorevole parodia: il capello a spazzola, la barba, il gilet multitasche e il diritto a possedere un’arma arrivano dritti da Milius, è stato John Goodman quello che ha saputo riassumerli tutti così bene in un personaggio iconico.
I Coen di base sono un po’ come Coach Pat Riley, portano alla partita dodici giocatori, giocano con cinque di loro e si fidano di tre, per questo anche ne “Il grande Lebowski” ci sono tutti i loro pretoriani, a partire da Steve Buscemi, che non solo grazie ad una battuta, obladì obladà, ha per sempre mescolato Lenin e Lennon nell’immaginario, ma qui ha il compito di essere l’unico morto in un film dei Coen, ma su questo punto ci torneremo più avanti, perché gli stessi fratelli del Minnesota hanno dovuto rimandare a lungo le riprese di quello che con il tempo è diventato un film di culto (letteralmente!), ma che alla sua uscita non solo non guadagnò eccessivamente, ma raccolse recensioni miste. L’esimio Roger Ebert lo rivalutò in positivo dopo una prima recensioni buona ma non eccelsa, mentre Ian Nathan dalle pagine di Empire Magazine, se ne uscì con l’equivalente coeniano della frase di Jon Landau su Bruce Springsteen: «In un mondo perfetto tutti i film sarebbero girati dai fratelli Coen.»
A rendere perfetto il mondo di “The Big Lebowski” ci ha pensato Jeff Bridges, proprio come Goodman largamente atteso dai Coen, che mentre aspettavano che finisse di fare, pensate un po’, il cowboy per Walter Hill (a volte il caso eh?) hanno pensato bene di tenersi caldi girando al freddo una cosina come Fargo. Goffredo Ponti è sempre stato uno dei miei preferiti, con “Drugo” ha pescato dal suo passato, mettendo la panza in bella vita, e strofinandosi gli occhi forte prima di ogni scena, per essere sicuro di averli molto rossi, ma non per via della congiuntivite (storia vera). In carriera il figlio più famoso di Lloyd ha firmato tanti, ma tanti ruoli di culto, se avete un vuoto di memoria, vi lascio qualche parola cliccabile in questa frase, ma con il Lebowski spiantato ha creato un’icona cinematografica assorta a modelli di vita, un Homer Simpson fattone che forse, è anche il personaggio che incarna il modo in cui i Coen affrontano questo grande casino dettato dal caos che si chiama vita.
Il pisciatore di tappeti è un MacGuffin dalla vescica piena che mette in moto una storia di (non) rapimento simile, ma anche più folle di quella di Arizona Junior, un amorevole presa per il culo a tutta la struttura del film Noir, con un protagonista che sembra un Humphrey Bogart stropicciato all’eterna ricerca di latte, vodka e kahlua, il nostro eroe in vestaglia non ha mai davvero chiaro nulla di quello che sta accadendo intorno a lui, è in bàlia del caso e del caos, manipolato da tutti e quando gli va bene, per lo meno da Maude Lebowski (Julianne Moore con un ruolo altrettanto di culto ricordato troppo poco), per una trama che è un eterno sfottò alle aspettative del pubblico.
La Los Angeles filmata dai Coen e fotografata dal solito, incredibile Roger Deakins, sembra un luogo fuori dal tempo, che potrebbe trovarsi tra la fine degli anni ’90 ma con echi della rivoluzione degli “spiantati”, da qui i numerosi e geniali momenti onirici o lisergici che costellano il film. A distanza di anni ancora mi chiedo come abbiano fatto a girare quell’inquadratura “rotante” dall’interno dei fori della palla da bowling, cioè lo so, ma mi sorprende comunque ad ogni nuova visione. Oppure mi esaltano piccole trovate geniali, come il quadro in casa di Maude, quello rosso e nero con le forbici, che si intrufola nell’inconscio di “Dude” e si traduce nell’incubo dei Nichilisti castratori, un enorme caso in cui tutto ha senso senza averlo per davvero, come la vita o il cinema che da essa trae ispirazione.
Per ogni Jesus Quintana che non fa nulla se non essere mitico, ci sono false piste ispirate ancora da eventi reali, come il compito di scuola ritrovato tra i sedili dell’auto recuperata, ma anche momenti in cui l’indagine, si prende amorevolmente gioco delle aspettative del pubblico: se Cary Grant in “l’Intrigo Internazionale” (1959) usava una matita per annerire i segni lasciati su un foglietto e svelava un passaggio chiave della storia, il nostro Drugo qui fa lo stesso nella villa di Jackie Treehorn (Ben Gazzara) per scoprire un cazzo. Nel vero senso della parola.
“Il grande Lebowski” ci ricorda costantemente che facciamo tutti surf sulle onde del caos, affannarsi non servirà a nulla, se non a creare casini ancora più monumentali come il lancio del facsimile («… Conquistiamo la collina!»), quindi alla fine forse, l’unico modo per uscire vivi da questo grande casino e fare come Drugo, perché il lavoro di fino messo su dai Coen per smontare sistematicamente tutte le aspettative del pubblico è brillante. In questa storia di rapimento (forse…) anche i mignoli dei piedi non sono quello che sembrano, e mentre le frasi e i momenti di culto si sprecano, il morto, che non manca mai nei film di Coen, arriva per il più futile dei motivi in circostanze che di cinematografico hanno ben poco, così ho chiuso anche quell’ideale icona lasciata aperta lassù.
Per quello che mi riguarda “The Big Lebowski” è il perfetto esempio di titolo da fare quando si parla della capacità dei grandi, di quelli davvero bravi, di rendere semplice qualcosa che non lo è affatto, in questo caso scrivere un film irripetibile diventato un autentico culto. Guardi questo film è ti viene da pensare: «Cosa ci vorrà mai a fare un film così? Lo giro domani con i miei amici che condividono molte delle passioni di Drugo» si, provaci, poi ne riparliamo, perché questo film dopo quarantacinque minuti, sembra iniziato da dieci e dopo i centodiciassette della sua durata, è già filato via come sgargarozzarsi l’ennesimo White Russian.
Questo film non ha una scelta musicale che sia fuori posto, ogni pezzo sembra scritto apposta per questa storia anche quando non lo è, che siano quelli di Kenny Rogers o quelli più fricchettoni di Bob Dylan (inno ufficiale dello svolazzare dentro la propria mente sballata, ma non solo), sono tutti momenti legati così bene e a filo doppio ad immagini o sequenze tanto iconiche, da essere diventati la versione più nota, quasi il video ufficiale di tutti questi pezzi, nella cultura popolare non è più possibile separare i Gipsy King da Jesus o i Creedence dai mozziconi lanciati fuori dalla macchina. Con il finestrino chiuso.
Il rischio, celebrando un film come “The Big Lebowski”, è quello di finire a trascriverlo tutto, parola per parola, la sensazione è quella di starlo un po’ tutti vivendo il grande caos che i Coen hanno saputo descrivere qui, un tripudio che è fin troppo facile etichettare come post moderno, il regista a due teste ha messo in chiaro come non possa esserci una storia senza una parte di verità dentro e come la verità possa essere solo resa più cinematografica, magari fotografata da Roger Deakins, perché fa quello che vuole lei, e magari se fumiamo abbastanza possiamo finire a fare la conoscenza del nostro spirito guida, se siamo fortunati un Cowboy carismatico, anche se dal 1998 in poi, molto pubblico preferirebbe essere semplicemente Drugo, Drugantibus, o Drughino se siete tra quelli che mettono il diminutivo ad ogni costo, tanto seguendo una massima che non è stata coniata dai Coen ma ne riassume molto bene l’umorismo (nero), da questa vita non usciremo vivi, tanto vale rilassarsi, e magari guardare bei film come questo.
Prossima settimana continueremo con questa buona abitudine, per un altro titolo notevole pescato dalla filmografia dei Coen, spero che scriverne non si riveli un’odissea come per il post di oggi, ma con Dude va così, la prima volta che la Wing-woman ha visto “Il grande Lebowski” abbiamo dovuto ricominciarlo per sette volte di fila… Storia vera, tanto per stare in tema.
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