Ci sono cose che non cambieranno mai, come ad esempio lo stato di titolo di culto de “Il Grinta”, anche noto come il “Grinta” a seconda di come cadevano le virgolette del soprannome nelle varie locandine nostrane.
Eppure alla sua uscita nel 1969, per il cinema Western le cose erano già cambiate, nel decennio compreso tra gli anni ’60 e gli anni ’70, alcuni titoli fondamentali avevano portato una gran ventata di cambiamento, dall’ironia di “Butch Cassidy” (1969) passando per la parodia pura di Mel Brooks, fino ad arrivare ai titoli cosiddetti revisionisti, quelli dalla parte dei nativi come i due coetanei “Il piccolo grande uomo” oppure “Soldato Blu”, ma potrei continuare con gli esempi a lungo anche perché lo dico da sempre, la mia idea di pensione sarà godermi un “Buen ritiro” in cui mi dedicherò a scrivere solo di film Western.
Quello che conta nella mia – come al solito – lunga premessa è che la fase crepuscolare del genere era cominciata, quella disillusa che non credeva più agli eroi, al massimo agli anti-eroi, aveva imposto un nuovo standard narrativo, i Western di quel periodo erano la negazione della tradizione, in qualche caso si facevano anche portavoci della controcultura e delle istanze pacifiste nate sulla scia della contestazione al Vietnam. Nel 1969 semplicemente non era più tempo di eroi in giacche con i lustrini, pronti a cavalcare verso il tramonto, se lo facevano, era solo perché verso quel tramonto, andavano idealmente a morire.
Con “True Grit”, da noi appunto “Il Grinta”, quella vecchia lenza di Henry Hathaway, con tutta la sua esperienza (primo film diretto nel 1932, non proprio mercoledì scorso) ha messo su un’operazione interessantissima, di base un Western vecchio stampo, conservatore, anzi, a tratti oltre quella linea sottile tanto da diventare reazionario, eppure in grado di utilizzare, o meglio, di ribaltare tipo mossa di Judo quegli stessi stilemi resi canonici dal Western crepuscolare. Il risultato è sì un film con un anti-eroe male in arnese, ma che dentro ha il cuore pulsante dei tempi d’oro del genere, uno di quei film che forse non sarà il più rappresentativo di molti dei nomi coinvolti, ma nel suo essere atipico ha finito per diventarlo, insomma uno di quei film che qui alla Bara chiamiamo Classidy.
Nato originariamente per essere un titolo costruito attorno a Mia Farrow nei panni di Mattie (infatti l’attrice avrebbe voluto Polański alla regia, storia vera), la produzione cambiò presto il fuoco con il coinvolgimento del Duca John Wayne, affascinato dal copione scritto da Marguerite Roberts, tratto dal romanzo “True Grit” di Charles Portis, uscito per la prima volta in Italia nel 1969 con il titolo “Un vero uomo per Mattie Ross” e poi ribattezzato “Il Grinta” per allinearsi al successo del film, il Duca lo riteneva un soggetto splendido scritto alla grande, nessun ha mai sottolineato abbastanza l’ironia di fondo: Marguerite Roberts era sparita dal giro per un bel po’ a causa della sue amicizie di sinistra, le stesse che di solito il Duca demonizzava, anche nei suoi film.
Alla ricerca della sua Mattie Ross, Wayne vide sfilare tante bravissime attrici come Sondra Locke, Tuesday Weld, Karen Carpenter e Sally Field, fino ad arrivare alla mitica Kim Darby che va detto, ruolo della vita, la sua Mattie Ross ha una testa dura come un chiodo da bara (anche volante) e risoluta il doppio, perfetta per battibeccare con Wayne sullo schermo.
Anche il Duca non era proprio convinto, una volta chiarito il fatto che la Mattie Ross non dovesse risultare una buffa spalla comica, arrivarono i dubbi attorno al suo Reuben J. “Rooster” Cogburn, una cosa è aver fatto pace con il diametro “lievitato” del proprio girovita facendo film con Dean Martin, ben altra faccenda invece impersonare uno che sbronzo cade da cavallo e altre cosette del genere. La soluzione? La benda, la stessa su cui Wayne finì per scherzare quando proprio per questo ruolo, riuscì a portarsi a casa il suo Oscar, quasi alla carriera, ritirandolo il Duca finì nel suo discorso a dire: «Lo avessi saputo me la sarei messa prima quella maledetta benda!» (storia vera).
John Wayne, l’americano a dieci carati, il fervente conservatore difensore dei “veri valori americani” qui viene allo stesso tempo decostruito e celebrato, infatti il protagonista assoluto è proprio lui, Reuben J. “Rooster” Cogburn detto il Grinta, enorme reduce di guerra che ha lasciato un occhio durante la guerra civile combattendo per il Sud, quindi per quello che la Storia ha etichettato come perdenti. Un avventuriero con la passione per la bottiglia e i soldi che si è riciclato sceriffo federale, a ben guardarlo, una critica al sistema perché se a difenderlo sono catorci del passato come lui, qualcosa vorrà pur dire no? Anche perché parliamo di uno che prima spara poi nel caso, fa le domande, refrattario alla burocrazia e sempre pronto a muoversi sul filo sottile che divide la legittima difesa dalla smania di sparare a tutto quello che si muove per risolvere i problemi.
A volerla guardare in senso più ampio, il Grinta è la versione Western di quei militari dal grilletto facile considerati eroi dalla destra e assassini dai pacifisti anti-Vietnam, quelli considerati dei mollaccioni proprio perché non aderenti agli stereotipi da Western classico.
Tutto questo però, vestito e calzato dentro ad un personaggio vecchio, sopra le righe, grasso, maschilista, dal senso dell’umorismo discutibile, con la storia sui vecchi tempi (di quando cavalcava con le briglie tra i denti sparando da ogni mano) sempre pronta, insomma, una macchietta che però allo stesso tempo è il “Vero uomo per Mattie Ross” del romanzo originale.
Se la nuova società non è più nemmeno in grado di proteggere i buoni e punire i cattivi, ci vuole qualcuno che arriva dal West(ern) degli anni ’40 e ’50 per portare giustizia, quando le buone maniera non bastano più, ci vuole la grinta, anzi ci vuole il Grinta, che è proprio l’uomo a cui Mattie si rivolgerà in cerca di giustizia per la morte di suo padre, ucciso vigliaccamente dallo spregevole Tom Chaney (Jeff Corey) che è il tipico cattivo senza morale, opposto ad altri due scagnozzi, di lusso perché impersonati da due (allora) quasi giovanotti come Robert Duvall e Dennis Hopper, che saranno anche cattivi, ma almeno hanno una loro forma di onore. Inoltre se gli scagnozzi sono un duro come Duvall e un campione di cattivoni come Hopper, potete immaginare che razza di bastardo sia Chaney con la sua macchia sul viso.
In mezzo, La Boeuf (Glen Campbell) indubbiamente uno dei giusti, anche se con i suoi modi, i suoi vestiti e quel cognome “Franzoso” aiuta a far spiccare i modi schietti e vecchia scuola di Rooster, e fino qui, l’analisi, ponderata, supportata dalla ricerca, quella che mette nero su Bara tutte le posizioni, anche le più reazionarie, ma da qui in poi, signore, signori, non ascolto più nessuno perché “Il Grinta” per me, è un pezzo di cuore.
Avete presente Jesse Custer che elegge il Duca a suo guida spirituale sulle pagine di Preacher? Bene nella vita di un maschietto, o per lo meno di alcuni, parecchi forse, non lo so, della mia leva, esiste un prima e un dopo aver visto “Il Grinta” la prima volta. Pur essendo quasi un’operazione di critica alla critica nei confronti del Western crepuscolare, l’anima del film di Henry Hathaway è quella del Western puro, quello classico di una volta.
Il cavallo al centro di svariare scene, vero nome Dollor, era uno dei preferiti di Wayne tanto da finire a cavalcarlo (a fatica, causa malattia) anche nel suo ultimo film “Il pistolero” (1976), prendo ad esempio l’equino per sottolineare come tutto ne “Il Grinta” riesca a diventare a suo modo eroico, anche quando in realtà molto va a pezzi, infatti un’esperienza cinematografica imprescindibile consiste nel guardarsi questo film e poi magari, a stretto giro, il suo rifacimento, ma di quello parleremo a breve anche qui sulla Bara.
La verità è che sembra di ricaderci ogni volta per la prima volta in quella fossa con i serpenti, sembra di rifarla ogni volta quella corsa a perdifiato mettendo a repentaglio anche il cavallo. La verità a volte è molto semplice: ci sono cose che non cambieranno mai, tipo io bambino, con il culo parcheggiato sulle piastrelle di casa a guardarmi in televisione “Il Grinta” esaltandomi per quella che è la classica scena uno contro tanti, resa mitica perché nel film, il Duca, non il suo personaggio, sembra proprio che la racconti, lui, in persona, come se stesse parlando delle sue glorie cinematografiche passate e poi, quando il momento arriva e lo vedi mettersi le briglie del cavallo tra i denti capisci che sta per accadere veramente, qualcosa di mitico di cui ti sembra di aver sentito parlare da sempre (SPOILER: è così, perché è da sempre che vediamo e rivediamo questo film) sta accadendo ancora sotto i nostri occhi, esaltante come tutte le volte, a tutte le età, sempre.
Infatti il finale è l’esaltazione, non è ancora tempo per quella tomba già idealmente prenotata, questo film che critica la critica più che un’ideale cavalcata eroica verso il tramonto, si gioca proprio un trionfale galoppo con salto, anche se in sella c’è un pistolero panzone come il nostro (anti)eroe. Davanti a tutto questo, esaltarsi è un dovere, perché in quel finale John Wayne tra cavallo e cappello, sembra alto tre metri, altezze a cui solo il grande cinema può portarti.
Il film ha generato un seguito ufficiale (che potrei decidermi a trattare), uno ufficioso per il piccolo schermo, uscito nel 1978 con Warren Oates ad ereditare il ruolo dal titolo “Un uomo di carattere” e come detto, un bellissimo remake che sa sottolineare anche il valore di questo classi(d)o, ne parleremo presto, ma in ogni caso, ho finalmente reso onore ad un pezzo del mio cuore da cinefilo.
Creato con orrore 💀 da contentI Marketing