Sono felice che la mia Bara mi abbia portato fino a qui oggi, perché ho l’occasione di trattare un film bellissimo, troppo poco ricordato e che tanto per cambiare è stato diretto dai fratelli Coen, benvenuti al nuovo capitolo della rubrica… Coen, Storia vera!
Perché il regista a due teste, più o meno attorno all’anno 2008, ha iniziato a parlare di un remake, per di più di un classico americano come Il Grinta? Abbiamo affrontato anche il film di Henry Hathaway che è valso al Duca Johnn Wayne un premio Oscar, un’operazione fuori tempo massimo, ardita, perché in un momento in cui il Western stava cavalcando verso la sua fase crepuscolare e revisionista, il regista è riuscito ad utilizzare lo stesso spirito anti-eroico, per fare celebrazione di un genere, anzi, del Rock ‘n’ Roll di tutti i generi cinematografici. Quindi ribadisco, quale cittadinanza potevano avere i fratelli Coen con tutti questo?
Guardiamo i precedenti, il loro primo rifacimento era anche molto riuscito ma mai tanto ricordato, infatti all’uscita di “True Grit”, qualche povero di spirito riuscì anche a definirlo un’operazione inutile, un rifacimento fin troppo simile all’originale, dimostrando di non averci capito niente. Andiamo alla radice della questione, i Coen hanno sempre ronzato attorno al cinema Western, nel loro essere Maestri del rigirare e modificare a loro piacimenti i generi cinematografici che conoscono molto bene, più volte si sono rifugiati sotto un cappello a tesa larga, c’erano Cowboy a rappresentare l’America più ruspante accanto a Drugo e alla coppia Clooney e Zeta-Jones, e senza girarci attorno, dopo aver aperto la diga con Non è un paese per vecchi, i Coen sono tornati al genere sempre più spesso, ma è con questa nuova versione di “True Grit” che si sono tolti lo sfizio di dirigerne uno con tutti i crismi e che sfizio aggiungerei!
Proprio perché in mezzo a tutti questi cavalli, cappelli e Colt Dragoon lunghe un metro, potrebbe diventare più difficile trovare i temi ricorrenti del cinema dei Coen, quando invece sono tutti lì, oltre al Western abbiamo il denaro, quello che per i fratelli del Minnesota fa muovere tutti gli ingranaggi del mondo: il vigliacco Tom Chaney uccide il padre di Mattie Ross per denaro, è proprio lui che, una volta braccato, riflette a voce alta con la ragazzina dicendole «Devo ripensare alla mia situazione e come migliorarla», che poi è quello che molti personaggi coeniani cercano di fare nei loro film, usare metodi poco etici per fare un salto di qualità, prima di venire colpiti dell’agente sul campo dei due fratelli, il Caso (e suo fratello il Caos), qui impersonato da un apocalittico sceriffo federale che spara con fatica alle focacce di mais e si regge malamente sulla sella, perché spesso ubriaco.
Ma è l’inizio del film a chiarire quanto – tanto – del cinema dei Coen ci sia anche in quello che i poveri di spirito hanno frettolosamente etichettato come un’operazione fotocopia, tanto per cambiare anche “Il Grinta” inizia con un monologo, quello di Mattie Ross del tutto esemplificativo: «Pensava di farla franca, ma si paga tutto a questo mondo, nulla è gratis, tranne la grazia di Dio.»
Sono proprio i soldi quelli che i Coen utilizzano di sponda, per farci capire che quella con la “Vera grinta” del titolo, non è tanto il comunque tostissimo Reuben J. “Rooster” Cogburn, ma proprio Mattie Ross, una che vuole vedere Chaney impiccato, ma non per qualche senatore texano come vorrebbe La Boeuf (prova impeccabilmente leziosa di Matt Damon), ma per l’omicidio di suo padre, infatti le sentiamo dire: «Se pago per qualcosa voglio che sia fatta a modo mio» ma anche vincere dispute e trattative sui cavalli, che sembrano dialoghi troppo lunghi sul nulla, che però i Coen concludono alla grande, quando vediamo Mattie in strada, con la sella in spalla, sappiamo istintivamente che la sua grinta le ha fatto vincere un’altra disputa verbale, e finalmente sono arrivato al punto.
Come si chiamano quei remake che, annunciati, si giocano la carta: «non sarà un rifacimento del film che già conoscente, ma un nuovo adattamento del romanzo da cui anche quel titolo che amate tanto era tratto». Onestamente non so come si chiamano, dovrebbero chiamarsi “Il Grinta” perché i Coen sono tra i primi che io ricordi ad aver giocato a carte scoperte, altri poi si sono giocati la stessa scusa, ma con risultati un tantinello diversi. Ecco perché “True Grit” è un esempio virtuoso di rifacimento, perché davvero ispirato al romanzo di Charles Portis, il fatto che per buona parte ricalchi anche il film con il Duca, conferma ulteriormente la bontà del film del 1969, che però era Wayne-centrico, i Coen invece si concentrano su Mattie Ross e ammettiamolo, con la scelta dell’esordiente Hailee Steinfeld, hanno fatto un capolavoro di selezione, lanciandole la carriera e ottenendo in tutta risposta una prova magnifica da parte sua.
Il fatto che beh, la storia sia la stessa, vince il premio G.A.C. (Grazie Al Cazzo) per l’anno 2010, ma è proprio nello stile scelto dai Coen che le differenze balzano agli occhi, l’approccio al genere Western e ai personaggi è rigoroso e anche rispettoso, certo “Rooster” Cogburn ci viene presentato al cesso e in tribunale, dove alla sbarra sono i suoi metodi, non certo la sua efficacia, ma Jeff Bridges in un’altra prova incredibile, non fa mai la parodia di John Wayne, non sembra mai di vedere Drugo con il cappello di Sam Elliot, al massimo se c’è un altro film con Goffredo Ponti a cui questo “Il Grinta” ha qualcosa con cui spartire è l’ottimo e anche lui, troppo sottovalutato Wild Bill di Walter Hill, anche quello parlava di miti, del West(ern), del tempo che passa e della fine della frontiera.
Proprio perché la storia è nota, e lo è parecchio, visto che io faccio parte di coloro che sono cresciuti guardando e riguardando il film con John Wayne, tutto funziona anche meglio, questa versione più cupa della frontiera oltre ad essere un gran modo per sfornare un grande film di cartellone, su un genere che nel 2010, non era proprio il più amato o ricercato dal pubblico, ma anche per dargli nuova linfa. In “True Grit” abbiamo la storia crepuscolare e la violenza che Sam Peckinpah aveva portato nel genere (i Coen quando possono ammazzare male qualcuno sullo schermo, non sono secondi a nessuno), ma anche una malinconica riflessione sul tempo che passa, quasi in odore di Sergio Leone, resa possibile proprio dall’avere ribaltato il punto di vista. Il finale per Henry Hathaway doveva essere un crescendo eroico perché costruito attorno a John Wayne, i Coen possono permettersi altro avendo tirato su il loro film, ma attorno a Mattie Ross.
In tutto questo però non manca tutto il giusto spazio al Grinta, ubriaco, violento, oggi si direbbe politicamente scorretto (nel vecchio West? Uno normale) il tipo più cattivo in circolazione, quello che vuoi dalla tua parte quando sei sulle piste di brutali criminali. Sono fioccate interpretazioni sulla posizione della benda sul viso di Goffredo Ponti, opposta a quella di John Wayne, avete presente il significato della ragnatela tatuata sul gomito sinistro o destro? Hanno fatto lo stesso qui con la benda, anche se Bridges l’ha infilata così per comodità senza mai cambiarla di occhio e se risulta opposto a Wayne, è solo per confermare che non voleva sbeffeggiarlo o omaggiarlo, ma solo calarsi a suo modo splendidamente nella parte.
Menzione speciale per la sezione cattivi, Josh Brolin torna a fare un Western con i Coen ancora una volta nei panni dell’oggetto della caccia, anche se, problema mio, lo ammetto candidamente, non riesco a non pensare al regista a due teste, che se la sghignazza all’idea di scegliere un attore che di cognome si chiama Pepper, nello specifico Barry, per la parte di “Lucky” Ned Pepper. Mi rifiuto di credere che non ci abbiano pensato!
Se per tre quarti “Il Grinta” è lo stesso film che conosciamo, ancora più rugginoso e pronto a trascinare nella polvere il mito del West, la conclusione è dove i fratelli Coen cambiano passo e piazzano la zampata. Ancora una volta abbiamo la possibilità di assistere al mito del Grinta in azione, quando Jeff Bridges parte a cavallo, uno contro quattro con le briglie tra i denti per me è impossibile non esaltarmi come quando lo vedevo fare al Duca, ma è proprio la conclusione del film quella che rende questa versione di “True Grit” un gioiellino.
La caduta nel pozzo pieno di serpenti velenosi e la corsa disperata a cavallo di Tuttomatto per Henry Hathaway era sofferta, ma comunque pensata per celebrare John Wayne e il mito del West, qui è una sofferenza, il cavallo di Mattie faceva una brutta fine anche nella versione del 1969, ma non c’era tempo per soffermarsi, qui invece i Coen malgrado la corsa disperata non si risparmiano niente, perché quella cavalcata nel cuore della notte è l’apice del romanzo di formazione di Mattie Ross, quello che serve a dare forza alla chiosa finale, con la protagonista adulta, impersonata da Elizabeth Marvel, che riflette su come il tempo e il mito della frontiera sia scivolato via. Se nel 1969, Mattie in segno di rispetto riservava un posto nella tomba di famiglia per il Grinta, che comunque non ne avrebbe mai usufruito (visto che è tornato in azione in un seguito del 1975), qui quella tomba svolge la sua funzione e in puro stile Coen, abbiamo un altro, riuscitissimo modo per celebrare il Western attraverso la sua fine. Dove si firma per avere solo rifacimenti tanti riusciti?
Al botteghino “True Grit” si conferma uno dei maggiori incassi della carriera del regista a due teste, dimostrazione che certe storie sono immortali e certi generi, anche se dati sempre per morti, lo sono anche di più, anche i Coen sarebbero tornati al Western, ma prima, questa rubrica ha qualche altro chilometro da percorrere, ci vediamo qui, tra sette giorni, non mancate!
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