Ci sono film che cambiano la storia del cinema per
sempre, titoli che sono uno spartiacque di cui qualcuno ogni tanto ha la
balzana idea di provare a scrivere qualcosa che non sia ancora detto, come il
vostro amichevole Cassidy di quartiere che oggi. Provare a dire qualcosa di
nuovo su un film così, è come cercare di prendere il diavolo per la coda, se
volete venire con me («Andiamo» cit.), vi do il mio benvenuto al nuovo capitolo
della rubrica… Sam day Bloody Sam day!
Per certi versi, Sam Peckinpah è stato il regista che ha
“portato equilibrio nella Forza”, perché è uno dei pochi che ha esordito al
cinema, per poi passare brillantemente alla televisione, tornare al cinema con
tre film belli dalla produzione tormentata, per poi ritrovarsi sulla spiaggia,
con sua moglie Begonia a tentare invano di consolarlo, consapevole che ad
Hollywood è questo il destino dei ribelli: amati sul grande schermo, molto meno
quando sono a capo di grandi produzioni milionarie.
La svolta arriva con l’entrata in scena di uno dei nuovi
produttori della Mecca del cinema, Daniel Melnick, poco più che trent’enne, di
bell’aspetto e vestito sempre alla moda. Melnick pensava che il trattamento
subito da Peckinpah per “Cincinnati Kid” fosse stato una porcheria, uno
schiaffo in faccia al talento. Malgrado le telefonate di produttori come
Charles B. Fitzsimons che tentarono di dissuaderlo dal dare lavoro a
quell’ubriacone, Melnick aveva le idee chiare e ragione da vendere, “Noon
Wine” è il titolo della rinascita per il regista di Fresno.
![]() |
Bloody Sam durante la mezza crisi creativa, nella scena del “La battaglia del portico insanguinato” (ma dopo essere uscito dal gorgo del piccolo schermo, tutto era possibile) |
“Noon Wine” è uno dei lavori più intimisti di Peckinpah che,
non a caso, vede come protagonista nei panni del fattore l’attore Jason Robards, che interpreta un
personaggio le cui sicurezze nella vita vengono sconvolte da un atto violento, di cui la moglie (Olivia de Havilland) lo crede colpevole, il finale della
storia non ve lo rivelo, ma sappiate che la scrittrice della novella da cui
Peckinpah ha tratto il suo lavoro, Katherine Anne Porter, si è complimentata
con il regista, dispiacendosi del fatto che anche gli altri film ispirati dalle
sue opere non fossero stati trattati con tanto tatto, delicatezza ed evidente
comprensione dei personaggi (storia vera).
“Noon Wine” andò in onda per la ABC, all’interno del
programma antologico ABC Stage 67 il 23 novembre del 1966 e riportò il nome di
Sam Peckinpah sotto i riflettori, gli fece guadagnare un ritorno di fiamma
nella sua reputazione e anche un piccolo ufficio, una sorta di scantinato
sommerso da appunti e vecchi libri di storia necessari a documentarsi per il
suo prossimo lavoro, un film sul suo amato Messico e sulla rivoluzione,
intitolato “Viva! Viva Villa!” (1968). Ironico, perché nello stesso periodo la
sua messicana Begonia lo abbandonò insofferente ai suoi repentini cambi d’umore
e i costanti tradimenti, in compenso, il suo complesso ritratto di Pancho Villa,
troppo realistico e crudo non piacque per nulla alla star del film Yul Brynner.
Sul piano personale e quello lavorativo, il mondo sembra troppo piccolo per un
talento tormentato e testardo come quello di Peckinpah.
![]() |
Ci ha messo meno Peckinpah a tornare al cinema che io a completare questa premessa. |
Ma Hollywood sta cambiando, gli anni ’70 sono alle porte e
l’idea di eroe senza macchia e senza paura che piaceva ad attori come Yul
Brynner, ormai fa a pugni con la storia di un Paese impantanato nella guerra
del Vietnam, ecco perché il produttore della Warner Bros. Phil Feldman fece di
tutto per affidare a Peckinpah una storia d’avventura come “The Diamond Story”.
Bloody Sam, scottato, lo squadra per capire dove sta la fregatura, «Tu sei un
altro che vuole farmi revisionare la tua sceneggiatura solo per poi togliermi
il film come per Viva! Viva Villa!». Feldman in segno di buona volontà offrì
un ufficio a Peckinpah, non un bugigattolo tipo il sottoscala dove stava Fox
Mulder, ma un vero ufficio alla Warner Bros. ed è qui che Bloody Sam cominciò a
lavorare a “The Diamond Story”, anche se per un breve periodo a distrarlo fu
l’ottima sceneggiatura di William Goldman,
per un film che la Warner non riusciva ad assicurarsi i diritti, potreste averne
sentito parlare, avrebbe potuto dirigerlo Peckinpah, ma lo ha fatto George Roy
Hill, s’intitolava “Butch Cassidy” ed è un capolavoro (storia vera).
Secondo voi uno dal caratterino tenero e mansueto come
Peckinpah, avrebbe lasciato correre? Col cavolo! Nella sua testa Bloody Sam
cercava ancora quella storia con cui sperimentare per davvero, la trama giusta
per portare montaggio e violenza ai livelli che fino a quel momento, al cinema
aveva mostrato solo uno dei suoi eroi, Akira Kurosawa. Nell’autunno del 1967, bloccato in albergo da una pioggia
torrenziale e senza la possibilità di selezionare location per “The Diamond
Story”, un annoiato Peckinpah ritrova nel mucchio (selvaggio) di fogli e
appunti di lavoro lasciati da Feldman una bozza di sceneggiatura scritta da Walon
Green e Roy N. Sickner. Leggendola qualcosa nella testa di Bloody Sam scatta,
quella era la miccia che serviva al regista, la rivoluzione era cominciata.
![]() |
Peckinpah corre, per prendere la coincidenza con la storia del cinema (battutaccia da pendolare) |
La storia è banale, un insieme di scene di sparatorie in
puro stile Spaghetti Western su una banda di criminali guidati da Pike Bishop,
liberi di far danni lungo il confine tra Texas e Messico nel 1913, in piena
rivoluzione messicana. I pistoleri rispondono al nome di “Il mucchio selvaggio”
che, poi, era il vero nome della banda di Butch Cassidy, dopo una rapina finita
male Bishop e i suoi, inseguiti dai cacciatori di taglie fuggono in Messico e
qui derubano un carico di fucili destinati all’esercito americano per conto di
un signore della guerra locale, il generale Mapache anche se il più giovane
della banda, il messicano Angelo, vorrebbe consegnare le armi al suo popolo per
dar man forte alle truppe di Pancho Villa, liberando il Paese da avvoltoi come
Mapache. Novantasei pagine che Peckinpah si beve in un lampo (non volevo fare
ironia, questa frase mi è uscita così…), in cui la struttura del film era già
presente, ma gli mancava quella scintilla per rendere un anonimo Western
qualcosa di davvero grande, per nostra fortuna Bloody Sam aveva fiammiferi e
accendini in abbondanza.
![]() |
Pochi titoli di testa sanno gettarti subito dentro il film come quelli di “Il mucchio selvaggio”. |
Peckinpah fa il diavolo a quattro per liberarsi di “The
Diamond Story” e passare alla sua nuova ossessione, “Il mucchio selvaggio” per il regista é quello che sarebbe potuto essere sia
Sierra Charriba che “Viva! Viva Villa!”, ma soprattutto ha ritrovato il suo
amato Messico e dei personaggi che Sam sa come rendere speciali. Feldman gli
crede e per un po’ al progetto crede anche Lee Marvin, che secondo tutti sarebbe
un perfetto Pike Bishop, ma fresco del successo di Quella sporca dozzina,
Marvin non vuole un altro film pieno di sparatorie, infatti opta per un film di
culto, il bizzarro e canterino “La ballata della città senza nome (1969).
![]() |
“Mucchi” a confronto, i cacciatori di taglie di Deke Thornton… |
![]() |
… contro i “soldati” di Pike Bishop. |
Ma Peckinpah ha la bava alla bocca: Fanculo Lee Marvin,
fanculo “Butch Cassidy” e fanculo anche quel fottuto di Arthur Penn, regista
della stessa generazione di Peckinpah che Bloody Sam vedeva come fumo negli
occhi, il suo “Gangster Story” (1967) e la sua sparatoria finale, avevano
alzato l’asticella della violenza mostrata al cinema, l’idea che Peckinpah
aveva avuto anni prima, ma che non aveva ancora potuto realizzare perché era
incastrato prima in TV e poi in un minuscolo sgabuzzino d’ufficio. Ma ora era
il suo momento e Peckinpah aveva le idee chiarissime.
Per Sam Peckinpah la violenza è un riflesso della nostra
società, le norme del vivere civile ci insegnano a demonizzarla, ma ne siamo
attratti, fa parte di noi, è radicata nella razza umana, ma prima bisogna trovare
le facce giuste, prima bisogna radunare il mucchio selvaggio. Per il ruolo di
Pike Bishop si bussa alla porta di Robert Mitchum, di James Stewart e ancora
una volta di Charlton Heaston che piuttosto che tornare in Messico conPeckinpah, avrebbe preferito vivere su un pianeta di sole scimmie. Quindi, la
scelta finale ricade su William Holden.
![]() |
Una delle più grandi stelle di Hollywood che ha conosciuto il declino per problemi di alcool, ci voleva un regista sbevazzone per regalargli il ruolo della vita. |
Per il ruolo di Robert Ryan vengono presi in considerazione Richard Harris, Henry Fonda e persino Brian Keith, ormai fisso nel cast di
“Tre nipoti e un maggiordomo”, alla fine la scelta migliore si rivela
essere Deke Thornton. Mentre Ernest Borgnine non convinceva per nulla
Peckinpah, uno che amava circondarsi (sul lavoro e nella vita) di fedelissimi,
ma Borgnine con quel suo sorrisone in grado di riempire lo schermo conquistò
tutto compreso il ruolo di Dutch Engstrom, diventando nella stessa carriera
l’attore capace di recitare con tutti i miei preferiti, Peckinpah, Corbucci, Carpenter, Craven, fate un nome, facile che Borgnine ci abbia lavorato.
![]() |
L’importanza di chiamarsi Ernest (Borgnine): una risata vi seppellirà. |
A proposito di fedelissimi, Warren Oates pur di prendere
parte al film ha divorziato dalla moglie Teddy, poteva scegliere tra un
filmetto girato a due passi da casa come “Il dito più veloce del West” (1968),
oppure imbarcarsi in un’altra impresa spericolata oltre confine con Peckinpah,
lasciando di nuovo la moglie a casa ad aspettarlo. Quando “Il mucchio
selvaggio” uscì nelle sale, Warren e Teddy avevano già divorziato (storia
vera).
Ma non è stato per effetto delle facce giuste nei giusti
ruoli, che una storia convenzionale ed estremamente classica come “Il mucchio
selvaggio” è diventato un classico del cinema, ci è voluto altro. Sì, perché di
base “The Wild Bunch” è una storia di sacrificio e redenzione come ne abbiamo
viste tante al cinema, perché i protagonisti dovrebbero sacrificarsi in quel
modo, sapendo che anche nella remota possibilità di uscire vivi dal massacro
finale, la ricompensa sarebbe stata minima. Lo stereotipo del fuorilegge dal
cuore d’oro non è una novità, ma è Peckinpah che ha saputo utilizzare il 100% del
suo talento per trasformare questo film in un classico, anzi scusate, in un
Classido!
Peckinpah capisce che per dare spessore ai personaggi, per
farci patteggiare per loro e dare un senso alle loro azioni, bisogna costruire
loro un passato, uno dei tanti colpi di genio del regista è non far mai
recitare insieme nella stessa inquadratura Robert Ryan e William Holden, ad
esclusione dei flashback, quella tra Deke Thornton e Pike Bishop è un’eterna
rincorsa («Tu lo conosci, che tipo di uomo abbiamo contro?», «Il migliore, non
è mai stato preso»). I due personaggi sono opposti, avversari un tempo amici e
alleati, il tema del tradimento torna dopo Sfida
nell’alta sierra, per raccontarci di due personaggi con tratti in comune
con Westrum e Judd: Pike Bishop è un dinosauro proveniente da un’epoca al
tramonto, il bandito autobiografico e spesso sbronzo che si è lasciato alle
spalle i giorni di gloria («Come pretendi di comandare una banda se non ce la fai
neanche a restare in sella?») che, però, non si vuole rassegnare alla fine
dell’era della frontiera e anche in questo, è identico al suo creatore Sam
Peckinpah.
![]() |
Il regista e il suo alter ego, identici in tutto, anche nei vizi (e nei baffi). |
Deke Thornton è il cavallo di razza ormai domato e
imbrigliato dal sistema, anche lui a capo di una sorta di “mucchio selvaggio”,
dei cacciatori di taglie che si prendono gioco di lui e derubano i cadaveri
lasciati a terra, avranno anche la giustizia dalla loro parte, ma non hanno un
grammo dell’onore e della lealtà degli uomini di Pike Bishop, quel senso di
unione che Thornton ammira e di cui sente la mancanza. “Il mucchio selvaggio” e
la sua storia altrimenti banale, funziona e diventa pura epica, perché passa
tutto attraverso la presa di coscienza di Pike Bishop, uno che continua a negare
l’evidenza, anche il fatto che ormai la frontiera sia al tramonto e che
annegando tutto nell’alcool menta a se stesso, riguardo alla vigliaccheria del
suo comportamento con Thornton. Un antieroe attraverso la cui epifania, passa
la credibilità del gesto di sacrificio suo e dei suoi fedelissimi. Una scena muta, un risveglio dopo una notte brava in un bordello messicano, diventa la mesta, ma lucidissima presa di posizione di un
personaggio, a cui basta una sola parola per convincere i suoi a lanciarsi in
un tentativo suicida di redenzione: «Andiamo», perché tra uomini si fa così,
non servono tante parole.
![]() |
Sul set Peckinpah ha voluto improvvisare “una cosa camminata” per i protagonisti, il risultato è questo, una delle scene più epiche della storia di tutta la settima arte (storia vera). |
Anche se i dialoghi del
film sono tutti coloriti e ben scritti, è grazie a questo film che la
strapotenza visiva di Bloody Sam si scatena, sul set il regista era
letteralmente un uomo in missione, pare che dopo aver visto le cariche
pirotecniche preparate, quelle da nascondere sotto i costumi di scena degli
attori per simulare l’esplosione dei colpi di arma da fuoco, Peckinpah abbia
messo mano al revolver che teneva nella fondina mentre girava e sparò
furiosamente sui costumi gridando: «È questo che voglio!», infatti le
cariche vennero raddoppiate come potenza e caricate con molto più sangue finto
e pezzi di carne per enfatizzare l’effetto finale (storia vera). Perché per Bloody Sam la violenza non è mai fine a se stessa, pura estetica, ma serve per scavare nell’animo umano provocando reazioni, ecco perché qui la morte non è edulcorata, perché come nella realtà spesso la morte è sporca, dolorosa, grondante sangue.
![]() |
Per conferma, chiedete pure ad Angelito, in questo film ha fatto il pieno di violenza. |
Messico un quantitativo tale di armi e fucili da far sospettare la Warner Bros.
che la rivoluzione Peckinpah la stesse organizzando per davvero, specialmente
quando si attaccò al telefono per chiedere insistentemente una mitragliatrice.
La Warner, come suo solito, su questo ci ha marciato (non si smentiscono mai),
infatti basarono la promozione del film sul fatto che per girarlo, siano
stati utilizzati più proiettili che durante tutta la rivoluzione messicana. Con
239 fucili e più di 90 mila munizioni, forse avevano anche ragione.
La scena dell’attacco al treno nella sceneggiatura originale
era una sommaria descrizione di poche righe, Peckinpah l’ha trasformata in un
momento di cinema grandioso, a ben guardare, il passaggio più “giocoso” del suo
film, quello che dimostra quanto il suo mucchio selvaggio
fosse affiatato, i protagonisti felici della loro vita di criminali, tanto da divertirsi. Borgnine
disarma i soldati con un sorriso e un fucile puntato, mentre William Holden
sembra un bimbo che gioca a fare il capotreno quando comanda la locomotiva. Già
William Holden parliamo di lui!
![]() |
Ciuff Ciuff acciuffami, tu ciuf-ciuf, acciuffi me (cit.) |
Peckinpah non era impressionato dalla sua recitazione durante
i primi giorni di riprese, ma poi Holden capì l’antifona, Pike Bishop era
l’alter ego del regista, ecco perché Holden si presentò con i baffi sottili,
identici a quelli di Peckinpah e cominciò a muoversi e recitare imitando il
regista di Fresno (storia vera). Quando vediamo gli uomini del mucchio
selvaggio gozzovigliare nel villaggio messicano, celebrando la vita facendo il
bagno dentro botti di vino insieme a prostitute locali mezze nude… Beh, credo di
non aver mai visto un regista mettere su pellicola la sua idea di paradiso come
ha fatto Peckinpah qui.
![]() |
Ooh, heaven is a place |
Ma il cinema di Bloody Sam è gioia di vivere e
tragedia, controverso e capace di sbalzi di tono come lui, infatti il suo
furore belluino è dietro l’angolo, quando arriva la violenza nel film è una vera
e propria aggressione.
Pare che l’idea per l’inizio arrivò in corso d’opera da Emilio
Fernández, regista e sceneggiatore messicano che qui interpreta il viscido e
perfido Mapache, un tipo espansivo che piaceva un sacco a Peckinpah, un giorno
cominciò per caso a raccontargli di quando da bambino gettava scorpioni dentro
i nidi delle formiche. Fernández non fece in tempo a terminare il racconto
della sua crudeltà infantile che Peckinpah era già corso a modificare la
sceneggiatura (storia vera).
![]() |
Bisogna dire poi che Mapache non si divertiva solo con gli scorpioni, ecco. |
Il film inizia sulle note di Jerry Fielding (stesso
compositore di “Noon Wine” a lungo rinnegato di Hollywood per le sue idee
politiche) che accompagna l’arrivo di alcuni soldati a cavallo, sembrano eroi
classici di un Western, invece sono i pistoleri del mucchio selvaggio
travestiti. I bambini che giocano gettando uno scorpione in pasto alle formiche
è il benvenuto al film, una crudeltà che determina tutto l’andamento della
pellicola (non a caso arriva nei primi fatidici cinque minuti) ed anticipa il
destino dei personaggi, anche loro finiranno pochi contro tanti in un film
circolare, perché si apre e si conclude con un massacro.
![]() |
Brutte notizie per i nati sotto il segno dello Scorpione oggi… |
Il problema del cinema contemporaneo è (anche) quello di
aver reso i film d’azione degli innocui giocattoloni con i bordi arrotondati,
incapaci di incarnare il dramma e la tragedia che può essere parte integrante
anche di un film d’azione. Peckinpah non era solo interessato a mostrare la
violenza, voleva utilizzarla per sconvolgere, per costringere il pubblico a
scavare nell’animo umano, per farlo in “Il mucchio selvaggio” ha girato 7700
metri di pellicola, solo per la scena finale e un’infinità di inquadrature (il film ne conta 3.650), sì, perché oltre alle munizioni e alla mitragliatrice, Bloody Sam si era fatto
spedire in Messico anche quattro differenti modelli di macchine da presa in
grado di riprendere a quattro velocità diverse. Con questo quantitativo immenso
di materiale grezzo ha letteralmente sommerso la sala di montaggio di Lou
Lombardo, anche lui uno con una lunga gavetta televisiva, braccio armato della
rivoluzione cinematografica guidata da Peckinpah.
![]() |
Le automobili, il progresso che avanza, nel cinema di Peckinpah non portano mai con loro nulla di buono. |
La tecnica di Bloody Sam consisteva nel tirare fuori il suo film da quella montagna di pellicola, come uno scultore che parte da un blocco di marmo grezzo, Peckinpah con questo film elevò i suoi “flash cut” a pura arte, aggressiva e grondante sangue arte della violenza sul grande schermo.
Il pubblico nel 1969 si trovò davanti ad un film che
iniziava con una sparatoria cruenta, una di quelle che rendeva davvero l’idea
di come poteva essere trovarsi in un vero scontro a fuoco. Per ogni “cattivo” colpito
ci sono bambini innocenti testimoni di un massacro, donne strascinate via da
cavalli impazziti dal terrore e vittime civili finite in mezzo al primo grande
“balletto di sangue” diretto da Peckinpah, che finalmente aveva trovato il modo
di affinare la tecnica che sarebbe diventata il suo marchio di fabbrica. Alla
sua uscita nelle sale registi come Martin Scorsese e Paul Schrader, riconobbero
che Bloody Sam era riuscito a superare i rallenti e il livello di realistica
violenza del suo maestro, Akira Kurosawa.
![]() |
No, Peckinpah di sicuro non ci pensava ai bambini (mi dispiace signora Lovejoy) |
Lo scontro finale non è certo da meno, quella che è stata
ribattezzata “La battaglia del portico insanguinato”, frutto di un mezzo blocco creativo per il regista (storia vera) è il culmine di un film in
cui Sam Peckinpah aggredisce lo spettatore con una violenza da cui è
impossibile distogliere lo sguardo, ma che allo stesso tempo rappresenta il
massimo delle capacità artistiche e autoriali di Peckinpah. Una mattanza in cui i personaggi per cui ormai patteggiamo, gli antieroi
tragici di un’era al tramonto, vengono macellati sotto i nostri occhi, attraverso
le loro sofferenze fisiche passa il loro sacrificio. Epica, sangue, lealtà,
violenza, Sam Peckinpah al suo meglio, il suo trionfo come regista e come
autore.
![]() |
Se sei vivo spara e se stai morendo, spara con la mitragliatrice. |
“Il mucchio selvaggio” è diventato un modo di dire, è stato
citato da un Maestro come Leone e
credo ci sia almeno un porno con lo stesso titolo (non ho verificato, me lo ha
detto mio cuGGino!), un capolavoro che ha cambiato per sempre la storia del
cinema e che, ovviamente, non fu capito subito dal pubblico che quell’anno al
cinema premiò titoli più classici come “Il Grinta”, oppure più facili da
inquadrare nella nascente controcultura americana come “Butch Cassidy” e“Easy
Rider”. Come sempre, la rivoluzione non bussa e quando arriva, lascia straniti,
ci vogliono un certo numero di anni per capire di essere stati al centro di una
rivoluzione, una vera. Oggi “Il mucchio selvaggio” non è solo ricordato come
uno dei migliori film di Sam Peckinpah, ma come un vero classico del cinema
americano, il cowboy da Fresno, l’uomo con la testa piena di alcool e genio era
riuscito a portare al cinema la sua malinconia per la scomparsa della
frontiera, ma anche una buona fetta della ferocia accumulata nella sua vita. Il cinema non sarebbe mai più stato lo stesso.
Ma un punto di arrivo così alto non è la fine per questa
rubrica, ci rivediamo qui la prossima settimana, ci aspetta una ballata
malinconica, non mancate!