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Il padrino (1972): vi farò un post che non potrete rifiutare

Mel Brooks ha una simpatica abitudine diventata ormai leggendaria, quella di organizzare delle cene a cadenza periodica in cui invita chiunque, registi, autori, scrittori, lui lo chiama il circolo dei buongustai di Chinatown e Mario Puzo era uno dei commensali più coloriti.

Dentro lo stomaco di tutti c’è il nervo vago, il quale ha il compito di dirci quando siamo sazi e quando smettere di mangiare, di tutti, tranne che di Mario Puzo, che narra la leggenda, una volta si sia rotto una gamba cadendo dalle scale scendendo in cucina, dove si era appena preparato il suo spuntino di mezzanotte preferito, il panino Dagwood, come il nome del marito di Blondie nel fumetto omonimo, un mostro a diciassette strati composto di affettati, salse e sottaceti. Ogni serata del circolo dei buongustai di Chinatown si concludeva con un certo numero di avanzi portati a casa, ma non quando Mario Puzo era a tavola, con lui non accadeva mai (storia vera).

Mai mettersi contro Puzo in una gara di scrittura o di mangiate.

Ma oltre al talento di far scomparire cibo all’interno del suo corpo, Puzo era un asso della macchina da scrivere, tanto che il suo romanzo “Il padrino” pubblicato nel 1969 vendette oltre nove milioni di copie attirando subito l’attenzione di Hollywood, la Paramount Pictures sgomitò più di tutti e malgrado il parere contrario del suo agente, Puzo accettò di scrivere la sceneggiatura per l’adattamento cinematografico, principalmente perché lo scrittore oltre al vizio del cibo, aveva anche quello del gioco, quindi un po’ di soldi gli facevano molto comodo, anche perché il panino Dagwood con tutta quella roba dentro, non viene via per poco.

Eppure la Paramount era in equilibrio più precario di Puzo sulle scale a mezzanotte con il suo Dagwood nel piatto, perché nel 1968 il flop di “La fratellanza” con Kirk Douglas aveva gettato un ombra sui film di gangster, inoltre il romanzo di Puzo era già stato accusato di aver in qualche modo fatto simpatizzare per i mafiosi, che poi è quello che qualcuno accusa ancora oggi di fare a Gomorra, più le cose cambiano più restano le stesse (cit.)

«I parenti della sposa, tutti qui per la foto!»

Nel marzo del 1970, un cambio al vertice fece arrivare Albert S. Ruddy a bordo del progetto nel ruolo di produttore esecutivo, scelta illuminata visto che Ruddy arrivava dal successo dei film di James Bond e aveva fiuto per questo tipo di operazioni, il suo piano era replicare il successo di “Gangster Story” (1967) che aveva fatto guadagnare bei soldi alla concorrente Warner Bros. anche se per prima cosa bisognava risolvere un paio di problemucci, generati proprio dal tema scottante al centro della storia: pare che Frank Sinatra fece valere tutto il suo peso di Divo per far sparire dal film il personaggio di Johnny Fontane, il cantante presente nel romanzo, si vocifera ispirato alla sua figura e ai suoi presunti legami con alcuni gentil uomini (si fa per dire) del New Jersey. Ma forse l’ingerenza maggiore arrivò dal capo della famiglia Colombo, il boss Joseph Colombo, che organizzò una campagna di boicottaggio alle riprese del film, convinto che denigrasse gli italoamericani ritraendoli tutti come mafiosi e per farlo, era pronto ad utilizzare metodi mafiosi, logico no? La mediazione di Ruddy per fortuna andò a buon fine, il compromesso fece in modo che la parola “mafia” non venisse mai pronunciata nel film, ed io mi chiedo come mai nessuno abbia mai pensato ad un film sull’incontro tra il produttore e il boss visto che si tratta di materiale da cinema. Ma se vi sembra che fino a qui la pre produzione sia stata tutta in salita, sappiate che abbiamo appena cominciato a scalare il Mortirolo.

Chiarito cosa si poteva dire e cosa no, il presidente della Paramount, Robert Evans, aveva bisogno di un regista e ne voleva per forza uno con dell’Italia nel DNA, Sergio Leone rifiutò perché da anni aveva giù in testa di dirigere il suo ambizioso C’era una volta in America, sapete che vi dico? Ha fatto bene a rifiutare. Fecero lo stesso le seconde scelte Peter Bogdanovich, Elia Kazan e Arthur Penn, Sam Peckinpah invece era quasi interessato, a patto di poter ambientare tutto nel vecchio West (storia vera), non so voi ma io un film così lo avrei guardato volentieri, ma ovviamente nessuno diede davvero retta a Bloody Sam.

Uno dei matrimoni più famosi della storia del cinema, ma per partecipare non dovrete vestirvi bene per forza.

L’ultimo nome rimasto sull’agendina della Paramount con dei notevoli legami con l’Italia rimasto era Francis Ford Coppola, talentuoso certo ma semisconosciuto, quindi non un nome di grande richiamo e poi ammettiamolo, per i produttori questo Coppola aveva qualche guizzo artistico di troppo, visto che con la sua casa di produzione, la American Zoetrope, era già al lavoro sul film diretto dal suo pupillo George Lucas ovvero “L’uomo che fuggì dal futuro”, eppure per il buon vecchio (allora giovane visto che aveva trentadue anni) Francis, quella della Paramount per lui era la classica “offerta che non si può rifiutare”, infatti il 28 settembre 1970 Coppola venne annunciato come nuovo regista del film, ed è qui che la vera battaglia tra il caparbio Coppola e la produzione è iniziata per davvero.

I Corleone, faticosamente radutati tutti insieme da Coppola.

La Paramount per cercare di contenere i costi era intenzionata a spostare la collocazione temporale della storia dagli anni ’40 e ’50 all’epoca delle riprese e utilizzando la più economica Saint Louis come sfondo, Coppola? Irremovibile. Non solo ha preteso di mantenere entrambe le ambientazioni, geografica e temporale, ma ha incominciato un braccio di ferro con la Major pagante che probabilmente, nessun altro regista della sua età avrebbe mai intentato, non contro una grande casa di produzione dall’altra parte.

La battaglia tra Coppola e la Paramount era senza quartiere: il regista voleva Al Pacino e la casa di produzione no, mettendo sul tavolo argomenti incredibili come: «È troppo basso!» (storia vera), per un po’ il ruolo di Michael Corleone sembrava indirizzato verso la porta di James Caan, anche se Coppola preferiva il riccioluto divo nei panni dell’impulsivo Santino “Sonny” Corleone, come effettivamente è poi andata, perché la Paramount ha preteso un italo-americano come regista ma poi si è scontrata con l’italica testa dura del regista, che aveva la sua visione artistica in mente e da quella non aveva intenzione di smuoversi.

Jonathan! Jonat… Ah no scusate, l’abitudine.

In questa lunga partita a scacchi come ne uscì vincitore il piano a lungo termine di Coppola? Con un ultimatum: considerati e scartati nomi come Ernest Borgnine, George C. Scott e addirittura Orson Welles, per il ruolo di Don Vito Corleone, Coppola alla fine piantò le corna a terrà chiedendo per la parte uno a caso tra Laurence Olivier o Marlon Brando, lasciando trapelare spudoratamente la sua preferenza per il secondo. Dopo il più classico dei «Se non mi date uno di questi due me ne vado», il ruolo di Coppola era seriamente a rischio ma con Olivier fuori dai giochi per i suoi problemi di salute gli Dei del cinema erano con lo zio di Nicolas Cage, perché non solo Brando era interessato alla parte, ma accettò dopo un colloquio con il regista (storia vera).

Brando che ha sempre fiutato il talento come un Bracco addestrato fa con il tartufo, dopo averci parlato ha capito che questo ragazzo nato a Detroit da genitori emigrati da Bernalda (in provincia di Matera) aveva le carte in regola per farlo brillare sullo schermo come ai vecchi tempi, infatti fu proprio Brando ad inventarsi la trovata dei fazzoletti in bocca, per darsi un’aria più invecchiata e una mascella da Bulldog come sognava Coppola per la parte, che originariamente avrebbe voluto l’anziano James Cagney per il ruolo, proprio per chiudere il cerchio con i vecchi film di Gangster, ma con Marlon Brando a bordo, ammettiamolo è stato un bell’accontentarsi.

«Questo Cassidy parla troppo, trasformiamo la sua collezione di fumetti in coriandoli»

Anche perché sotto l’ala protettiva del padrino Brando, Coppola aveva dalla sua il nome più grosso in circolazione, a quel punto la Paramount non poteva lamentarsi nemmeno davanti ad un budget lievitato per via della complicata fase di selezione degli attori, Francis Ford Coppola era il nuovo capo dei capi e il film un gioiello reso tale dalla sua visione e dal suo talento, se mai è esistito un Classido, deve essere per forza questo.

Quello che dico sempre a quelli che storcono il naso davanti ad una storia che parla (anche) di Mafia è che per prima cosa “Il Padrino” è un film sulla famiglia, certo il “Bussiness” (pronunciato con parlata italo-americana) di famiglia è un racket criminale, su questo non ci piove, ma la storia è in perfetto equilibrio tra la volontà di ricostruzione storica accurata e di approfondimento dei personaggi portata in scena da Coppola, ma anche dalla sua passione per i drammi classici. Dentro a “Il Padrino” si trova Shakespeare e le tragedie Greche in parti uguali, applicate ad una storia di padri e figli in cui tutti si possono identificare, indipendentemente dai trascorsi criminali dei personaggi, anche perché ammettiamolo, se fossi chiamato dagli abitanti del mio pianeta e dover spiegare ad un alieno in visita cos’è il Cinema, quello vero con la “C” maiuscola, probabilmente è questo film che gli farei vedere, o per lo meno il suo clamoroso inizio, una versione estesa della famosa regola dei cinque minuti iniziali, quelli che determinano tutto l’andamento del film.

Quasi come in uno spettacolo teatrale, una sagoma emerge dall’ombra e inizia il suo monologo: «Io credo nell’America. L’America fece la mia fortuna. E io crescivo mia figghia comu n’americana, e ci detti libertà, ma ci insegnave puro a non disonorare la famiglia». Una premessa che in una certa fase della mia vita, avrei potuto recitarvi buona parte di questo inizio (ma anche del resto del film) quasi a memoria, pause tra le battute comprese, ma qui c’è già tutto il tema del film, il crollo delle istituzioni, il sogno Americano piegato alle esigenze personali e il peso della famiglia sulle spalle dei personaggi, in una delle più grandi sequenze iniziali della storia della settima arte.

Prima scena del film e siamo già nella leggenda.

Un padrino non può respingere le suppliche il giorno in cui si sposa sua figlia, quindi lavoro e famiglia per Don Vito Corleone si mescolano anche durante lo “sposalizio”, che è un lungo ed intricato valzer di personaggi che entrano in scena tutti insieme ed è solo grazie alla maestria nel montaggio (curato da William Reynolds e Peter Zinner) e la regia di Coppola che come spettatori non ci sentiamo sopraffatti, spaesati più di Diane Keaton, ma proprio come il suo personaggio, in qualche modo accolti in famiglia, nella fattispecie da un Virgilio in divisa da militare rappresentato da Michael (Al Pacino), il figlio prediletto, quasi il figliol prodigo tornato a casa, pronto ad illustrarci usi e costumi dei Corleone, proprio mentre avvengono sotto i nostri occhi. Quindi è normale vedere uno come Luca Brasi («Si, quello è un uomo che fa paura») provare e riprovare il discorso prima di paralizzarsi davanti a Don Vito, anche perché l’attore Lenny Montana aveva una discreta ansia da prestazione nel dover recitare a due metri da Brando che per metterlo sua agio non inquadrato, si presentò con appuntato sul petto un cartellino con su scritta una parolaccia, da qui il momento di spaesamento (vero) nello sguardo di Montana, quando le prove del suo augurio vanno a farsi benedire (storia vera).

Immaginatevi il controcampo con le parolacce sui “pizzini” scritte da Brando.

Ci siamo stati tutti ad un matrimonio no? Lo sappiamo come ci si sente, figuriamoci uno dove conosci per la prima volta la famiglia della tua dolce metà, in un attimo Coppola ci porta nella vita dei Corleone presentandosi l’impulsivo Sonny (James Caan) impegnato in una sveltina contro la porta del bagno, ma anche il “consigliori” di famiglia, l’adottato ma fondamentale Tom Hagen (Robert Duvall) il tutto mentre le dinamiche di famiglia vengono messe in chiaro: Don Vito si rifiuta di fare la foto di famiglia finché non arriva Michael, mentre il prediletto guarda i suoi con distacco, un ragazzo felice, innamorato, sorridente (come non lo sarà mai più per il resto della trilogia, prossimi capitoli in arrivo su questa Bara), uno che a questo punto può permettersi il lusso di dire «la mia famiglia è così, non mi somiglia», ma nella vita puoi sceglierti quasi tutto, tranne i parenti.

L’ultima volta in cui vedremo Michael quasi felice.

Basta questo inizio folgorante per calarci tutti nella quotidianità dei Corleone, in cui è normale sistemare i punti aperti con i “Cinematografari da strapazzo” per far felice Johnny Fontane, basta un cavallo e una frase entrata a far parte dell’immaginario collettivo, come ogni elemento di questo film, dalle musiche di Nino Rota alle citazioni, questo film che parla di famiglia più che di Mafia, ha cambiato tutto, anche le abitudine e i linguaggio di quegli italoamericani che portavano avanti lo stesso “Bussiness” dei Corleone, insomma ci sono stati pochi titoli nella storia del cinema che hanno avuto una rilevanza tale sull’arte e sulla cultura popolare come “The Godfather”.

Da un certo punto di vista Coppola e Puzo autori della sceneggiatura, hanno giocato un po’ sporco, ci sono dei passaggi nel film in cui i personaggi sembrano cambiare opinione quasi su due piedi, tra questi il più clamoroso resta l’arco narrativo di Michael, che per risolvere l’affare aperto con l’odiato Sollozzo (Al Lettieri) non esita nemmeno un secondo a proporsi lui come assassino, nella famosa scena della pistola nascosta nello scarico del bagno del ristorante, ma se dovessi etichettare come “famosa” ogni scena chiave del film potrei fare notte, visto che “The Godfather” anche dopo cinquant’anni dalla sua uscita, non ha un solo fotogramma fuori posto.

Un figlio che fa il suo dovere, anche a costo della sua anima.

Michael capisce per senso di responsabilità (inculcato da anni di pressione da parte della sua famiglia) che lui è l’unico che può vendicare Don Vito, questo fa di lui un personaggio tragico dal destino già segnato, come tutti i figli (biologici o adottivi) del Padrino del titolo, che non possono sfuggire da una traiettoria in cui il libero arbitrio non è previsto.

L’irruento e leggerissimamente “incazzoso” Sonny è l’esatto opposto di Michael, fedelissimo ma impulsivo non si fa problemi a pestare il marito violento della sorella Constanzia Corleone (ruolo assegnato da Coppola alla sorella, Talia Shire, tanto per restare in famiglia) ma nemmeno cadere in una trappola che è anche una delle poche concessione fatte da Coppola alla Paramount che chiedeva più scene violente. Infatti l’attentato a Sonny al casello dell’autostrada è una notevole strizzata d’occhio a “Gangster story” (1967), oltre ad uno dei tanti momenti memorabili del film, ma su questo punto mi sono già espresso, è un po’ tutto “Il Padrino” ad essere memorabile.

Non so voi, ma quando Sonny lo batte come un tappeto, ogni volta applaudo (storia vera)

Il Tom Hagen di Robert Duvall è il personaggio che capisce tutto con largo anticipo ma non ha il potere per influenzare le scelte, e giù così fino a Fredo Corleone (il compianto John Cazale, pochi film in carriera, tutti mitici) il cui ruolo sarà chiave nell’evoluzione di Michael che per certi versi oltre ad essere il vero protagonista della saga (avevo un paragone con Guerre Stellari del protetto di Coppola ma ve lo risparmio), ma è anche l’alter ego del regista, visto che Coppola intervistato ha commentato: «Il Padrino mi ha rovinato. Mi ha rovinato nel senso che ha avuto talmente tanto successo che tutto quello che ho fatto dopo è stato paragonato a quello.»

Una sorta di “trappola” per Coppola che avrà anche salvato la sua American Zoetrope dalla bancarotta grazie all’enorme successo al botteghino del film (centotrentacinque milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti portati a casa, al netto di una spesa di circa sette milioni), ma ha legato per sempre Coppola al successo di questa saga come Michael alla sua famiglia. Infatti Don Vito nel film è una sfinge che non dà risposte, un Golem difficile da sollevare nel suo letto d’ospedale spostato a casa (Brando che amava fare scherzi sul set, aveva appesantito il letto con pesi aggiuntivi, giusto per farsi due risate durante il complesso trasporto lungo le scale, storia vera), un’ombra su tutti i suoi figli e su Michael più di tutti, infatti non capisco dove sia questa presunta elegia alla Mafia quando il protagonista è un personaggio che sarà anche stato in guerra, ma la sua purezza la perde sparando in faccia al nemico di suo padre, il ragazzo che diceva «la mia famiglia è così, non mi somiglia» che perde fidanzata e sorriso abbracciando tutti i dogmi familiari, compreso sposare Apollonia (ruolo proposto prima a Stefania Sandrelli e poi andato a Simonetta Stefanelli) in una Sicilia che sembra l’antica Grecia dove nascono i miti, in questo caso la terra d’origine del “Pantheon” di protagonisti, i Corleone che proprio dalla cittadina prendono il nome.

«Un limoncello, grazie»

“Il Padrino” comincia con una festa, con noi spettatori idealmente invitati a prendere parte agli usi e i costumi dei Corleone e termina in maniera quasi circolare allo stesso modo, con noi spettatori lasciati fuori dalla porta dell’ufficio del nuovo Padrino, quel Michael che ha perso il sorriso ma ha guadagnato il titolo con quel superbo “climax” finale, il montaggio alternato sull’ordine di Michael, da una parte i capi delle cinque famiglie spazzati via senza pietà dell’altra il battesimo del figlio Connie, una trovata visiva che interrompe un racconto fino a quel punto lineare, ma lo fa con una scena incredibilmente evocativa, il battesimo nelle tradizioni di famiglia per Michael.

La conclusione straordinaria di un film incredibile.

A cinquant’anni dalla sua uscita dire qualcosa di davvero fresco su “The Godfather” è impossibile, si è detto e scritto di tutto su questo capolavoro, quindi preferisco sottolineare l’ovvio, in 175 minuti Coppola ha il totale controllo del racconto, il classico film in cui si alternano nomi e personaggi, fatti ed eventi e dove la storia scorre come se il film durasse meno della metà del suo minutaggio effettivo, roba rara cinquant’anni fa figuriamoci oggi che ogni “rom-com” se non dura minimo due ore non riceve nemmeno la “luce verde” per la produzione.

Coppola ottiene questo risultato grazie ad un montaggio impeccabile e una regia estremamente curata, figlia di una conoscenza cinematografica enciclopedica, perché “Il Padrino” ad una prima occhiata distratta può sembrare un film classico tanto quanto i Gangster movie anni ’30 e ’40 ai quali si ispira, in realtà rielabora la tradizione aggiornandola al gusto del cinema degli anni ’70 creando un nuovo classicismo, questo soprattutto grazie ad un lavoro di cesello in fase di montaggio che mantiene tutto l’importante eliminando il superfluo, tanto da far percepire 175 minuti come meno della metà.

«Il primo che usa l’espressione “sequestro di persona” gli mettiamo una testa di cavallo nel letto”

Se Don Vito con i suoi racket vecchia maniera rappresentava i Gangster (e i loro film) del passato, l’ascesa drammatica di un personaggio tragico come Michael Corleone è la perfetta metafora del ruolo di questo film nella storia del cinema e del suo straordinario regista, i tre premi Oscar (miglior film, Miglior attore protagonista a Marlon Brando facendo per altro perdere le staffe a Pacino e migliore sceneggiatura non originale a Francis Ford Coppola e Mario Puzo) sono stati la definitiva consacrazione di un film talmente intrecciato con la storia della cultura popolare che in qualche modo l’ombra di Don Vito ha aleggiato anche sull’Accademy.

Persino James Bond quella sera è rimasto un po’ spiazzato.

La cerimonia di premiazione passò alla storia anche per l’assenza di Brando, che in gesto di protesta contro la chiusura di una riserva, inviò a ritirare il premio una ragazza nativa, Sacheen Littlefeather, per vedere nuovamente Brando legato in qualche modo al ruolo di uno dei personaggi più famosi e iconici della storia del cinema, abbiamo dovuto aspettare il 1990 e il film “Il boss e la matricola” dove lo stesso Brando offriva una parodia del suo personaggio, giusto per sottolineare ancora una volta il peso specifico di questo ruolo nella cultura popolare.

Ma l’ombra di Don Vito si allungherà anche sul prossimo capitolo e di conseguenza su questa Bara, abbiamo appena iniziato, tra sette giorni ci vediamo qui per Gara 2 della trilogia consideratela da parte mia come… Un’offerta che non potete rifiutare.

Sepolto in precedenza mercoledì 23 marzo 2022

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