Era inevitabile che dopo l’enorme successo del primo capitolo, la Paramount Pictures spingesse per metterne subito in produzione un secondo film, per certi versi se esiste un esempio perfetto per la famigerata regola aurea dei seguiti (uguale al primo, ma di più!) è proprio la mosca bianca rappresentata da “Il padrino – Parte II”, un film che tradisce molti elementi chiave di questa regola e diventando l’eccezione non fa altro che confermarla, anche perché Francis Ford Coppola questo film non lo voleva dirigere, ma proprio mai nella vita!
Mettetevi nei suoi panni, a trentadue anni aveva fatto l’impossibile, non solo aveva salvato la sua casa di produzione, la American Zoetrope dal fallimento, ma aveva rilanciato la carriera di Marlon Brando regalandogli uno dei personaggi più iconici della storia del cinema, il tutto spaccando i botteghini del pianeta e conquistando anche l’Accademy. Il padrino aveva l’aurea del culto istantaneo, un film nuovo ma già un classico, rimetterci le mani per un seguito voleva dire gettarsi di propria volontà tra le fiamme di un fallimento quasi annunciato, ecco perché Coppola provò in tutti i modi a passare la palla a Martin Scorsese, bello avere degli amici nella vita eh zio Martino?
«Tu lo conosci il mio amico Martin? Dovreste fare un film insieme», «Magari lo farò» |
Scorsese furbo come una volpe, rifiutò senza rimpianti lasciando campo libero a Coppola, che pur di non cominciare un nuovo braccio di ferro con la Paramount come quello che lo ha visto battagliare per il primo capitolo, impose subito delle condizioni: il seguito avrebbe dovuto mostrare il passato di Vito Corleone, raccontato in parallelo con la vita di Michael, il nuovo protagonista e Padrino. Il passato di Don Vito rappresentava una parte corposa del romanzo di Mario Puzo ed era rimasto fuori dal primo film, su questo Coppola era irremovibile e posso dirlo? Aveva ragione da vendere ancora una volta.
Per dirvi di quanto lo zio di Nicolas Cage fosse tornato per concludere l’opera, ma questa volta in maniera definitiva, la prima stesura della sceneggiatura (firmata ancora una volta a quattro mani con Mario Puzo) prevedeva la fine di Michael Corleone, anziano e malato nella sua villa sul lago Tahoe, insieme al figlio diciottenne Anthony pronto a non seguire le orme paterne, per motivi di tempistiche Coppola non riuscì a girare la scena decidendo di eliminarla dalla sceneggiatura, per fortuna o purtroppo, questo sta al vostro gusto e parere personale, perché questa sequenza è diventata la base per il terzo capitolo della trilogia (a breve su queste Bare), ma questo è il futuro, nel 1974 Coppola voleva solo concludere la saga dei Corleone.
«Sa se è già passato il 42?», «Secondo te stavo qui se era già passato?» |
Cosa succede quando hai tanto tempo per ripensare al tuo passato? Questo finisce per consumarti oppure i ricordi verranno imbellettati dalla memoria, ecco perché nel corso degli anni e delle interviste (e credetemi, Coppola riguardo a “Il padrino” ne ha rilasciate davvero tante), il regista ha finito per sintetizzare una versione quasi eroica del suo non avere nessuna voglia di pelare questa gatta: «Quando me lo proposero dissi: girare un seguito de Il padrino è una garanzia di fallimento, potrebbe rovinare tutto ciò che ho costruito. Tornai a casa e ci pensai. Mi resi conto che visto che era così facile fallire, beh, quella sarebbe stata la ragione migliore per affrontare ciò che pareva impossibile.»
Questa a mio avviso è la favola che Coppola si è raccontato nel corso degli anni, un po’ come il suo alter-ego Michael per giustificare le sue azioni. Dalla sua però il regista nato a Detroit aveva a supportarlo dei fatti decisamente notevoli, perché “Il padrino – Parte II” è un capolavoro, posso utilizzare la famigerata “parola con la C” (non quella, l’altra) senza timore di essere smentito, anzi credo che nessuno si offenderà se faccio spazio e lo aggiungo tra i Classidy.
“Il padrino – Parte II” nasceva con parecchi paletti ben piantati nel terreno di cui tenere conto: non si poteva rivoluzionare i “Gangster movie” una seconda volta, perché inventare la ruota è complesso, farlo due volte nel giro di una manciata d’anni sarebbe fuori dal mondo. Non si poteva nemmeno competere con il fascino magnetico di Marlon Brando che di tornare non aveva nessuna voglia, parliamo di quello che chiese a Richard Donner se il suo Jor-El avesse potuto comparire sotto forma di oggetto di scena parlante, in modo da poterlo doppiare senza scomodarsi a recitare, salvo poi intentare una causa milionaria per le sue immagine di scena utilizzare in Superman II (storia vera).
Don Vito la sfinge che non dà risposte, Don Vito l’enorme ombra sulla vita di Michael doveva continuare ad esistere in assenza, ed ecco quindi la regola aurea dei seguiti tradita ma allo stesso tempo applicata, il due in numero romano nel titolo non solo mette in chiaro come questo film sia di fatto il secondo tempo del primo capitolo (anticipando altri che avrebbero fatto lo stesso altrove), ma anche che i padrini nel film sarebbero stati due, la doppia ascesa di Don Vito e Don Michael.
La mossa alla Marlon Brando direi che gli viene bene no? |
Perché Coppola tradisce la formula che ha funzionato con il primo capitolo? Perché il film del 1972 era estremamente lineare, ad esclusione del montaggio alternato sul battesimo di Michael mentre l’omicidio dei capi delle altre famiglie da lui commissionato va in scena, il primo film era una narrazione lineare, “Il padrino – Parte II” è un continuo flashback, un lungo gioco di specchi in cui Coppola mette in chiaro al pubblico la trasformazione di Michael, il ragazzo sorridente che diceva «La mia famiglia è così, non mi somiglia», deformato in una figura tragica, un freddo vampiro senza sentimenti che in quanto seguito di suo padre, deve essere come il primo padrino, uguale ma di più.
Francis Ford Coppola che temeva il fallimento, qui non solo vince, possiamo tranquillamente dire che trionfa, visto che questo secondo capitolo non solo ha lo stesso impatto emotivo e tecnico del primo film, ma a livello di sperimentazione forse riesce anche a superarlo. Visto che mi sono infilato in questo parallelismo tra Michael Corleone e il regista, possiamo dire che come il suo alter ego, Coppola batte il sistema di Hollywood portando la sua fiera indipendenza di artista (nello stesso anno usciva anche il capolavoro di Coppola che non viene ricordato mai abbastanza “La conversazione”) vincendo sul campo come fa Michael nel film, battendo alle sue condizioni tutti i vecchi Boss e le loro tradizioni, per certi versi potremmo anche dire che proprio come Michael, Coppola si è in qualche modo scavato la fossa da solo, perché ogni suo nuovo lavoro doveva essere abbastanza grande da uscire dall’ombra de Il padrino.
Libertà per tutti, a patto di rinunciare al proprio cognome. |
“The Godfather – Part II” è un film incredibile, 202 minuti che filano via come se fossero meno della metà, il capitolo più lungo della trilogia è anche quello più dolente, perché come diceva il Bardo, in una tragedia, il secondo atto è sempre quello più drammatico, una lezione che anche il protetto del Padrino Coppola ha fatto sua e applicato alla sua maniera.
Il film non solo inizia e termina con la stessa inquadratura, un primo piano sul volto di Michael Corleone (Al Pacino) che ormai è un consumato vampiro il cui viso, viene il più delle volte inquadrato in ombra dalla fotografia di Gordon Willis, per certi versi il primo vero vampiro della carriera di Coppola e anche quello più mostruoso. Ma il film comincia un minuto dopo la fine del primo capitolo, un lungo ellisse narrativo di 202 minuti che parte ad inizio secolo in Sicilia con l’infanzia del futuro Don Corleone, nato Vito Andolini e scappato dalla terra natia per evitare le violente ripercussioni di Don Ciccio.
«Gary Oldman chi?» |
Qui Coppola porta in scena la storia della sua famiglia, emigrati da Bernalda (in provincia di Matera) e arrivati in America come succede a Vito, che diventa Corleone perché un passacarte di Staten Island confonde il luogo di nascita con il cognome e gli regala una nuova identità negli Stati Uniti si, ma dopo la quarantena per il tifo. Benvenuto in America.
Il punto di passaggio di tanti disperati carichi di speranza. |
Il tutto mentre Michael (Al Pacino) fa valere la sua condizione di nuovo Padrino in Nevada, dove un senatore pronto ad approfittare del nuovo arrivato cerca di imporsi, insomma Michael è impegnato su più fronti, quello esterno ovvero essere all’altezza di cotanto padre e quello interno, perché i figli superstiti di Don Vito lo fanno penare: sua sorella Connie (Talia Shire) passa da un marito all’altro creando solo problemi, così come l’amato Fredo (John Cazale), che in assenza di Don Vito pare reclamare con il fratello Michael il suo ruolo in famiglia.
Poi chiedetevi perché Tom Hagen (Robert Duvall) nel giro di due anni ha perso tutti i capelli, sarà proprio il “consigliori”, il figlio adottato a rivelarsi l’unico vero fratello per Michael, in quella che sarà un’ascesa violenta, tragica, il personaggio di Al Pacino si siede sul trono ma nessuno meglio di lui ha recitato la sofferenza di una testa resa pesante dalla corona che porta.
Vogliamo ricordarli così, quando erano tutti vivi e pronti a litigare tra di loro. |
L’altra faccia della medaglia è il parallelismo con l’ascesa del giovane Don Vito, che Coppola inquadra quasi come un sovrano anche quando è un pezzente, anche quando il massimo che riesce ad ottenere è un tappeto perdendo però il lavoro alla bottega. Per compensare l’assenza di Marlon Brando, Coppola ha affidato il ruolo a quello che insieme ad Al Pacino in quel momento, era probabilmente l’attore vivente più talentuoso del pianeta, lo stesso Robert De Niro che lo aveva impressionato durante il suo provino per il ruolo di Sonny Corleone (andato poi a James Caan, che compare in un solo flashback qui, ma si è fatto pagare lo stesso assegno del primo film, storia vera). De Niro fa un lavoro incredibile sulla voce, lo sappiamo tutti che il film è stato ridoppiato (facendo storcere più di un naso), ma voi fregatevene e guardatelo in originale, il vecchio Bob si è calato così tanto nel ruolo da pronunciare le frasi in inglese con accento “siculo” e quelle in italiano, come un vero Siciliano, regalandomi la frase di culto che ogni tanto ripeto ai miei cani: «Micheluzzo, papà ti vuole bene assai», i miei cani ormai la temono e nel film la trovate pronunciata proprio così (storia vera).
«La vedi questa Bara Volante? É mia, posso mettere una buona parola con Cassidy» |
Coppola poi ottiene il meglio da chiunque, da Lee Strasberg maestro di recitazione all’Actor’s Studio a cui viene affidato il ruolo di Roth vagamente ispirato al mafioso Meyer Lansky (che per altro telefonò a Strasberg dopo l’uscita del film per congratularsi della sua interpretazione, storia vera), ma anche da Gastone Moschin nei panni di Don Fanucci, il primo grande avversario di Vito Corleone, che con il suo abito bianco è diventato a suo modo anche lui un personaggio iconico, anche se credo che non esista un singolo elemento di questo film che non sia diventato parte della cultura popolare, proprio come la frase «Gli amici tieniteli stretti… ma i nemici, anche più stretti», che è il riassunto della filosofia del nuovo padrino.
Non so se sia più curioso far notare la seconda apparizione in fila per Sofia Coppola all’interno della saga (bimba al battesimo nel primo capitolo e piccola immigrata a Staten Island qui) oppure come il giovane Don Vito di De Niro, passi accanto ad una locandina di un incontro di Jake LaMotta, il tutto prima di Toro Scatenato. Sta di fatto che Coppola si gioca alcuni dei momenti più riusciti della sua filmografia, non credo esista modo più chiaro per mostrare alcuni boss impegnati a spartirsi la torta degli affari a Cuba, che mostrarli mentre letteralmente fanno a fette e mangiano una torta di compleanno con l’isola disegnata sopra, oppure il modo sottile in cui il vecchio Francis Ford dà spazio a Fredo, facendo capire dalle sue parole prima a Michael (e quindi a noi spettatori) il tradimento del fratello, quello che diventa il punto di equilibrio di tutta la saga del padrino e il baricentro morale di Michael Corleone.
«Baciami stupido» |
Il momento più drammatico del secondo atto di una tragedia in tre atti, il bacio di Michael al fratello Fredo è una scena iconica, il nuovo vampiresco padrino che marchia per sempre il suo amato fratello condannandolo a morte, persino la successiva frase «Fredo tu per me non sei più niente, non sei più fratello o amico», non ha la stessa potenza pur essendo uno dei tanti momenti emotivamente altissimi di un film che ne è pieno, Al Pacino poi qui è addirittura straordinario, anche più del suo solito.
Michael Corleone è distante anni luce dal figlio prodigo felice e innamorato di Diane Keaton, ma è ormai una maschera tragica che ha abbracciato una crudeltà che sembrava impossibile ad uno come Don Vito e parliamo di un personaggio pronto a saltellare sui tetti e a sparare in faccia a Don Fanucci improvvisando un silenziatore sulla pistola fatto in casa per i suoi interessi. Ma se l’ascesa di Don Vito è disseminata di morti e minacce di morte, ha comunque una certa satirica Joie de vivre (la Statua della libertà sullo sfondo non solo ci ricorda dove è stato “battezzato” Vito Corleone, ma il crollo delle istituzioni all’ombra dei suoi simboli), insomma la contrapposizione, il parallelismo diretto con l’ascesa di Don Michael rende la figura del nuovo padrino ancora più tragica, qualcuno per cui possiamo provare parti uguali di pena ed empatia per il suo gelido senso del dovere.
L’uomo con le fiamme nelle mani! |
Don Michael è un killer senza sentimenti, sepolto vivo tra le ombre in cui si tormenta intrappolato in un ellisse eterno, uccide per cercare di mettere fine ad un cerchio e così facendo ne apre un altro all’infinito. Quando sua moglie Kay (Diane Keaton) gli comunica di aver abortito sua figlio perché non voleva mettere al mondo un altro assassino, assistiamo all’unica crepa nel volto da sfinge (ereditato da papà) di Michael ed io dico solo lo sguardo di Al Pacino in quella scena, non aggiungo altro, lo sguardo di Al Pacino in quel momento. Ne abbiamo vista di gente incazzata nella storia del cinema, ma quello sguardo è da podio della furia, senza ombra di dubbio.
«Al non hai vinto l’Oscar, ma De Niro si, sei contento?» |
Eppure resta l’unica crepa nella maschera funeraria indossata da Don Michael, che porta avanti gli affari di famiglia e tiene aperte le sue ferite, il parallelismo finale è dolorosissimo: dopo una vita intera passata a covare rancore, Don Vito è così potente da poter tornare in Sicilia per prendersi la sua vendetta su Don Ciccio, mentre Michael è costretto a regolare i conti con Fredo, “perché tutto finisca”, senza finire mai davvero in questo eterno ellisse, Fredo viene freddato (ah-ah) nella scena della barca sul lago, ho già usato la parola “iconografia” parlando di questo film? Si vero?
Fredo, Fredo, viene a pescare con noi! Ci manca il verme! |
Quello che resta non è altro che l’inizio del film, la chiusa perfetta per certi versi, il volto ormai di pietra di Michael, indecifrabile come quello di suo padre, maschera tragica dietro ad un dolore che lo consumerà per sempre, alla faccia di chi ancora crede che questo film sia una glorificazione della mafia e dei suoi rappresentanti, perché sul fatto che sia una delle più grandi pellicole della storia del cinema e sulla maestria di Coppola, le chiacchiere stanno a zero dal 1974, o quasi.
Incredibilmente la prima proiezione per i giornalisti fu disastrosa, le penne intrise nel curaro erano già pronte a raccontare la cronaca di un fallimento, accanendosi sulla scelta di raccontare in parallelo l’ascesa dei due padrini, che invece non solo è il vero genio del film e di Coppola, ma ha fatto la fortuna di “The Godfather – Part II”, di cui per altro esiste un’interessante versione.
Essere un Boss mafioso non è stressante, disse un rilassatissimo Michael. |
“The Godfather Saga (qui da noi “The Godfather: 1901-1959”) sono i primi due film della saga montati in ordine cronologico, senza girarci troppo attorno un’operazione fatta nel 1977 da Coppola per finanziare il suo film “Apocalypse Now”. Un balenottero da 434 minuti passato in televisione ogni tanto ancora come un grande evento, ma anche il primo montaggio di questo secondo capitolo non è andato proprio malissimo.
193 milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti portati a casa nel mondo, al netto di una spesa di 13 milioni, il primo seguito della storia del cinema a vincere il premio Oscar come miglior film (impresa ripetuta solo da Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re) oltre agli altri cinque Oscar, tra cui miglior regia, miglior sceneggiatura non originale e miglior attore non protagonista a Robert De Niro, ed è qui che arriva la seconda curiosità.
Don Vito Corleone è stato il primo personaggio a regalare due Oscar ai rispettivi interpreti, per la replica abbiamo dovuto attendere Joker, considerando anche l’Oscar postumo a Heath Ledger. Anche se io non so come abbiano fatto a lasciar fuori Al Pacino, dopo quello sguardo io non avrei mai voluto essere uno dei giudici dell’Accademy.
Niente male per un lavoro che non volevi accettare, vero Francis? |
“Il padrino – Parte II” conclude così una saga forse alla perfezione, oppure come Michael con le sue azioni crea conseguenze che avranno effetti a lungo termine anche su questa Bara, se siete tra i detrattori del terzo capitolo, trovatevi qualcosa da fare la prossima settimana, perché mosso da un senso del dovere tutto mio proprio come Michael, tra sette giorni concludo l’opera, ci vediamo qui per Gara 3 la prossima settimana, spero che vi piaccia il teatro.