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Il padrino – Parte III (1990): requiem per Michael Corleone

Il tempo può risolvere i problemi e lenire le colpe oppure non fa che accentuarle? Parliamo anche di questo nell’ultimo capitolo della trilogia del padrino, senza ombra di dubbio il più controverso.

Anche perché Francis Ford Coppola era già stato recalcitrante ad accettare di dirigere la seconda parte, salvo poi portare a casa un capolavoro, che per il regista nato a Detroit da immigrati italiani era davvero la fine dell’epopea dei Corleone. Anche se già nel 1978 Mario Puzo si era dimostrato ben disposto verso un nuovo capitolo, tanto da stendere un primissimo trattamento con protagonista Anthony Corleone, figlio di Michael, ma a quel punto Coppola era già partito verso il cuore di tenebra di “Apocalypse Now” (1979) che lo avrebbe tenuto leggerissimamente impegnato, appena appena eh?

Bisogna anche dire che più tardi nel 1986, Puzo non aveva ancora mollato l’osso buttando giù un secondo adattamento con protagonista un nuovo personaggio, Vincent Mancini, figlio illegittimo di Sonny Corleone, che sembrava perfetto per essere interpretato dal nipote di Coppola, Nicolas Cage, che è anche il nome che mi viene in mente ogni volta che rivedo “Il padrino – Parte III”, ci sono quasi tutti, ci sarebbe stato anche l’eccentrico nipotino di Francis no?

«Francis ma quello non è tuo nipote?», «Oh cacchio! L’ho già fatto recitare ovunque nei miei film!»

Nulla da fare, niente smuove il padrino Coppola dal suo disinteresse per un terzo capitolo, tanto che la Paramount provò ad appiopparlo a chiunque, il solito Martin Scorsese, addirittura a Michael Mann, ma il nome più bizzarro resta quello di zio Sly Stallone, che propose la sua versione ambientata vent’anni dopo il primo capitolo, una trama legata alla Guerra Fredda e all’ascesa dei Kennedy, che Stallone oltre a dirigere era pronto anche ad interpretare, portandosi dietro nomi come John Travolta ed Eddie Murphy (storia vera). Mettiamola così, Sly che aveva fatto anche il provino per il ruolo di Sonny, finì a raccontare la Guerra Fredda in altro modo e a fare il padrino altrove, in un altro film che dovrebbe sbarcare a breve su questa Bara.

Scherza con i fanti ma lascia stare i santi.

Cosa fece cambiare idea a Coppola? No, non le bizzarre ambizioni di zio Sly, quanto più che altro l’enorme flop al botteghino di un film a cui il regista teneva moltissimo, “Un sogno lungo un giorno” (1982) un disastro per cui Coppola fu costretto a mettere in vendita anche gli uffici della sua casa di produzione, l’American Zoetrope per pagare i debiti (storia vera). Volente o nolente il regista non aveva alternative, tra i tanti titoli realizzati da Coppola tra il 1982 e il 1990 ci sono alcuni dei lavori più belli e personali di Coppola, ma il regista aveva bisogno di liquidità, l’unica opzione era tornare dal suo alter ego cinematografico Michael Corleone, a cui il suo padre (o padrino) cinematografico, era pronto a riservare un trattamento speciale, quasi un accanimento sul personaggio che gli ha regalato la gloria ma lo ha legato a se per sempre, allontanandolo dal cinema più sperimentale che stava tanto a cuore a Coppola.

Rimettere insieme la vecchia banda per Coppola è stato un gran mal di testa, Al Pacino voleva sette milioni di fogli verdi con sopra facce di altrettanti ex presidenti defunti per tornare nel ruolo, la Paramount aveva posto il limite a cinque milioni, quindi Coppola alzò il telefono e chiamò Pacino dicendo: «Muovi il culo Al o Michael lo cancello dalla trama!», magari non proprio con queste parole ma con questo spirito nel cuore si, infatti Pacino, Diane Keaton, Talia Shire e Richard Bright sono tornati nei rispettivi ruoli, ma a quel punto il braccio di legno della Paramount non era più disposto a sganciare cinque milioni in consulenze, nella fattispecie quelle del “consigliori” Tom Hagen, ecco perché malgrado l’opinione contraria di Coppola, Robert Duvall non compare in questo capitolo (brutta perdita per la trama), ma il regista ha voluto in qualche modo ricordarlo con il figlio del personaggio, destinato a prendere i voti, introducendo il tema chiave di questo terzo capitolo, il rapporto tra stato, Mafia e chiesa. Per la serie toccarla piano eh Francis?

Al dopo la trattativa per il suo compenso.

Originariamente il personaggio di Willy Cicci avrebbe dovuto essere la nuova spina nel fianco dei Corleone, ma la triste morte di Joe Spinell, costringe Coppola a dare spazio al personaggio di Joey Zasa (ispirato alla nuova criminalità di John Gotti) interpretato dall’attore feticcio di Stuart Gordon, ovvero Joe Mantegna. Molto più semplice fu la scelta di Andy Garcia nei panni di quel tamarro di Vincent Mancini, il focoso figlio di Sonny con lo stesso identico temperamento di papà, ma il vero incubo per Coppola fu la scelta dell’attrice per il ruolo di Mary Corleone, affidata senza pensarci nemmeno per un momento ad una Winona Ryder in rampa di lancio, talmente in tiro che finì per esplodere in volo, dopo un solo giorno di riprese My-Winona (cit.) fuggì dal set accampando scuse del tipo troppo stress e troppi film in lavorazione, lasciando Coppola in braghe di tela. Da buon italiano il regista cosa fece? Si rivolse alla famiglia e sostituì Winona in fuga con sua figlia Sofia Coppola, che aveva già recitato in parecchi film del padre e anche nei primi due capitoli della saga (neonata impersonava Michael Francis Rizzi, il figlio di Connie e Carlo Rizzi ne Il padrino e più grandicella, una degli immigrati sulla nave del futuro Don Vito), ma qui al suo esordio ufficiale con il nome in cartellone, Sofia e papà hanno esposto il fianco scoperto alla critica e ai numerosi Razzie Awards portati a casa dalla futura regista, insomma la famiglia è sempre il punto debole, Coppola più di tutti avrebbe dovuto saperlo.

Non piangere Sofia, “Bing Ring” era ben peggio credimi.

Impossibile non citare Don Altobello, ruolo che interessava molto a Frank Sinatra (per la serie, se non può batterli unisciti a loro) ma sempre per motivi di vile denaro, venne affidato al più economico Eli Wallach, provocando le mie reazioni di giubilo fin da bambino guardando il film, il vecchio Tuco mi scalda sempre il cuore.

Il tempo lenisce le ferite o le accentua? A giudicare dalla piega presa dalla vita da Michael Corleone il tempo è un po’ come la tortura della goccia, infatti all’inizio di questo terzo capitolo un Al Pacino invecchiato dal trucco peggio di quanto poi Padre Tempo non abbia fatto davvero al suo volto, è un uomo potente, quasi realizzato ma non in pace, qualcuno che cerca con abbondante beneficenza di ripulirsi la coscienza per le azioni fatte, mentre pian piano, cerca di sfilarsi sempre più dal “Business” di famiglia, per fare il salto di qualità, ma durante la preghiera della funzione papale per le sue opere di filantropo, Michael ricorda la preghiera di Fredo, giusto per mettere in chiaro quanto il senso di colpa abbia logorato l’uomo quasi quanto il potere, e non cito una celebre frase di Giulio Andreotti a caso.

«Cassidy sta facendo i nomi, questa volta lo chiudo in quella sua Bara»

In quanto “Parte III”, questo capitolo ha tre ideali strati, tre chiavi di lettura, la prima è l’intreccio alla base della trama, i legami tra Stato, Cosa Nostra e la Chiesa sono stretti ed indissolubili. Michael è pronto a sborsare settecento milioni di dollari per colmare il debito del Vaticano, di fatto il preludio per l’ingresso dei Corleone all’interno dell’Internazionale Immobiliare, insomma è palese che Coppola e Mario Puzo abbiano firmato una sceneggiatura strettamente legata ai fatti della cronaca di uno strambo Paese a forma di scarpa, sono chiari i riferimenti allo scandalo del Banco Ambrosiano e i personaggi che ruotano attorno al protagonista strizzano l’occhio a quelli reali. Come il banchiere Keinszig (Helmut Berger) ricalcato su Roberto Calvi, oppure Licio Lucchesi (Enzo Robutti) facente funzione di Giulio Andreotti e non a caso di nome Licio (come Gelli), con tanto di nemmeno velato riferimento alla misteriosa morte del Papa, con l’apparizione lampo di Giovanni Paolo I giusto per mettere in chiaro quanto di torbido ci fosse in quella porzione della storia di uno strambo Paese a forma di scarpa. Mi stupisce sempre riguardare il film e notare quando Coppola e Puzo abbiano avuto carta bianca, forse perché la Paramount era ossessionata solo dalla data di uscita del film, fissata per il periodo Natalizio, in sei mesi infatti il regista e lo scrittore non hanno avuto modo di approfondire al meglio tutti i personaggi, parliamo dei difetti del film? Doveroso farlo.

Il vecchio padrino e il nuovo virgulto, la storia si ripete (ripetutamente)

Se per i primi due capitoli della saga il difetto maggiore è che ad un certo punto di entrambi i film, parte della musica ed iniziano a scorrere delle scritte che procedono in verticale lungo lo schermo, meglio noti come “titoli di coda”, in “The Godfather: Part III” viene a mancare la coralità che era una delle forze dei primi due capitoli. L’arco narrativo di Michael Corleone è completo e ben scandito dalla varie tappe di questo “requiem” organizzato da Coppola per il suo alter ego cinematografico, attorno a lui sia Mary che lo stesso Vincent avrebbero meritato ben più approfondimento, rispetto alla loro storiella tra cugini, ma non facciamo battutacce su questo, dai fate i bravi (ragazzi) che già il post è complesso.

“The Godfather: Part III” dura 170 minuti (159 nella versione director’s cut, più avanti ci torniamo) ma si avvertono tutti, a differenza dei primi due capitoli che filano come se fossero filmetti da 90 minuti spaccati, la mancanza di tempo per affinare i passaggi della trama da parte di Coppola e Puzo si nota tutta, specialmente nella scena che io chiamo “Momento Punitore”, ovvero con i capi della famiglie mafiose spazzati via da smitragliate partite da un elicottero, che ogni volta mi fa pensare: «Ora entra in scena un energumeno con un teschio sul petto, sicuro!»

Ditemi cosa volete, ma io qui ci vedo lo zampino del vecchio Frank Castle.

Se la prima chiave di lettura del film, il rapporto stretto tra Stato, Mafia e Chiesa, dimostra tutto il fegato di Coppola e Puzo, rallenta anche un po’ il ritmo del film rispetto ai primi due capitoli della trilogia, mentre il secondo strato, la seconda chiave di lettura risente proprio del fatto che Vincent non ha lo spazio che merita per emergere, anche se Andy Garcia è perfetto per il ruolo del tamarro a “sangue caldo” che mozzica orecchie senza pietà. Tutta la sua ascesa risulta ricalcata sui momenti chiave dei film precedenti, una versione in piccolo (molto in piccolo) del parallelismo tra i due padrini del secondo capitolo, con le stesse tappe da percorrere: il padrino malato da difendere, l’iniziazione con massacro durante la parata di San Rocco, insomma un modo per chiudere il cerchio mentre Michael cerca di fare i conti con i suoi rimorsi, l’aver ucciso il fratello, essere stato allontanato dalla donna della sua vita, trasformato in un orrore per i suoi figli che non vogliono avere legami con lui, al massimo una spintarella per entrare nel mondo della musica e questo ci porta all’ultimo strato, l’ultima chiave di lettura di questo terzo capitolo, ma prima un paragrafo che farà discutere più della prova di recitazione di Sofia Coppola.

Vincent “Mike Tyson” Mancini nei panni di Bariste e Baristi dopo il mio prossimo paragrafo.

“Il padrino – Parte III” è il capitolo più debole della trilogia, quello che molti preferirebbero dimenticare, visto che ho parlato delle sue varie versioni, nel 2020 in occasione del compleanno del film, Coppola è uscito con “Il Padrino – Coda: la Morte di Michael Corleone”, una versione che modifica la parte iniziale e in parte il finale del film del 1990, con l’aggiunta di una nuova partitura strumentale. Questo nuovo montaggio non risolve i problemi strutturali già presenti nel film, ma amplia molti passaggi e regala un finale forse più facile da digerire per molti dei detrattori di questo terzo bistrattato capitolo di cui lo ammetto, non faccio parte. Al netto dei difetti che sono sotto gli occhi di tutti, “The Godfather: Part III” come Ritorno al Futuro Parte III (per altro uscito lo stesso anno) è un Classido, perché completa la trilogia pur essendo il capitolo più debole, ma è con l’ultima chiave di lettura che si conquista il logo rosso di questo club ristretto.

Il requeim per Michael Corleone termina proprio così, in musica, con quel fascino decadente da opera lirica che Coppola sa gestire sempre bene nei suoi film. Ma bisogna ammetterlo, il parallelo musicale con la Cavalleria Rusticana è spudorato, quasi didascalico verrebbe da dire, perché l’opera di Mascagni rimanda a quella Sicilia che anche per Coppola è l’origine, la terra dove nasce il mito dei suoi personaggi. Chi conosce l’opera di Mascagni meglio di me potrebbe raccontarvi di come Coppola abbia spostato le singole scene dell’opera, senza nemmeno un vero motivo narrativo, forse più che altro per sottolineare la magniloquenza di un finale che è un coro greco, una campana a morto per il protagonista, per puro e semplice linguaggio cinematografico lo sappiamo che partirà un colpo che metterà fine a tutto, ma Coppola allunga così tanto l’attesa da creare tensione, ogni minuto che passa, un pezzo del mondo attorno a Michael Corleone si sgretola, fino a quel finale sulla scalinata del Teatro Massimo di Palermo, che quando ho visitato con la Wing-woman per fortuna dei passanti, il comune della città ha pensato bene di far costruire una cancellata che impedisse l’accesso ai pirla come me alla scalinata, altrimenti avrei rifatto la scena finale del film (storia vera).

Michael Corleone, il ragazzo che non somigliava alla sua famiglia, trasformato in un algido vampiro senza sentimenti, in questo film fa emergere la sua fragilità, il tempo non ha curato le sue ferite ma solo fatto venire a galla i suoi sensi di colpa. Per uccidere un vampiro bisogna colpirlo al cuore e il cuore per Michael può essere solo sua figlia Mary, punita per aver ridetto quella ciofeca di Bling Ring le colpe del padre, che infatti su quella scalinata muore, mentre la mia faccia, ogni volta che mi riguardo il gran finale di questo bistrattato capitolo, diventa identica all’espressione sul volto di Al Pacino.

Come direbbe Sergio: io mentre guardo il finale di questo film.

Michael continuerà a vivere ancora per anni, ma in realtà è morto sulle scalinate del teatro di Palermo, ecco perché Coppola fa terminare la musica (e partire i titoli di coda) su quella scena che ha spiazzato tanti, l’anziano padrino che muore solo nel cortile di casa (come papàdestino beffardo fino alla fine) ed è solo allora che la tensione del film può terminare, Michael sarà anche sopravvissuto per anni alla morte della figlia ma si è spento quando le è morta tra le braccia e possiamo stare qui altri trent’anni a parlare di quanto Sofia Coppola non sia stata la scelta migliore per la parte, ma voglio sottolinearvi l’ultimo parallelismo tra Francis Ford Coppola e il suo alter ego Michael Corleone: il regista pugnala al cuore il personaggio che più riassume la sua carriera e per farlo, uccide la figlia di entrambi. Se non è un simbolico requeim questo e non vi ho convinti, allora credete allo stesso Coppola, che dopo averci raccontato la trasformazione da giovane uomo a vampiro e poi di nuovo a fragile uomo di Michael, subito dopo questo film è passato direttamente a raccontare la storia di Dracula, quasi un passaggio naturale per la sua filmografia.

L’opera, in tutti i sensi è finita, cala il sipario sulla saga della famiglia Corleone anche per questa Bara spero che il viaggio sia stato di vostro gradimento… Baciamo le mani!

Sepolto in precedenza mercoledì 6 aprile 2022

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