fare molto di più, tre film erano pochi. Quindi grazie alla bellissima locandina “pentacolare” creata
da Quinto Moro (fategli i complimenti), oggi sul menù abbiamo ben cinque film dell’orrore
pescati tra Amazon Prime Video e Netflix. Cominciamo!
Evil Eye (2020)
A volte mi capita di imbattermi in titoli del tutto
sconosciuti, che però risultano primi nelle classifiche di streaming. Vi è mai
capitato? Cercare un film e scoprire che tra i più visti del pianeta, si trova
un titolo sconosciuto di cui non avete mai sentito parlare, quando mi capita la
risposta che mi do è sempre la stessa: il titolo in questione è un film Indiano.
Si perché in India il cinema è una faccenda serissima, da
quelle parti oltre ai musical di Bollywood vengono sfornati film di TUTTI i generi,
dai film d’azione più tamarri, alle commedie ed essendo tanti gli Indiani,
smuovono numeri mica da ridere. Forse la Blumhouse ha voluto tenere a mente
anche loro con almeno uno dei quattro film dell’operazione “Welcome to
Blumhouse”, film usciti in esclusiva per Amazon Prime Video.
Purtroppo “Evil Eye” (tradotto anche “L’occhio del male”
anche se “Maloccio” sarebbe stato più divertente) è il più debole del mazzo, il
film dei fratelli Dassani ha il solito budget microscopico tipico della
produzione Blumhouse, ma in questo caso, anche un taglio televisivo da fare
male agli occhi. Sarà per quello che si chiama “Evil Eye”?
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Come si dice “dramma girato in un tinello” in Indiano? |
Non so se fosse il tentativo di rifare L’uomo invisibile in salsa Tandori, ma il risultato lascia
piuttosto a desiderare. La storia è quella di Pallavi (Sunita Mani), figlia di
due immigrati indiani che hanno vissuto per molti anni negli Stati Uniti e che
ora sono tornati a Nuova Delhi, lasciando la ragazza a vivere a New Orleans.
Cuore di mamma Usha (Sarita Choudhury), sogna per la figlia il fidanzato giusto
che sembra manifestarsi, almeno secondo Pallavi, con l’arrivo di Sandeep (Omar
Maskati), ricco, gentile, educato, ricco, di bell’aspetto, ricco e soprattutto
ricco. Vi ho detto che il ragazzo è ricco vero?
“Evil Eye” mena il can per l’aia fin troppo a lungo, un
soggetto che andrebbe bene per un episodio di “Ai confini della realtà”, viene
stiracchiato fino ai 90 canonici minuti inserendo un elemento chiave: Sandeep è
davvero la reincarnazione dell’uomo violento che ha perseguitato mamma Usha
anni prima? È tutta una fissazione da madre iper protettiva, oppure è questa la
spiegazione del fatto che Sandeep conosca così tanto del passato della donna?
Il soggetto che in mani altrui avrebbe potuto anche essere sfizioso, qui viene
risolto nel modo più banale del mondo, d’altra parte trattandosi di una storia
con degli Indiani come protagonisti, poteva non essere tirato dentro il
concetto di Karma?
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Lo sguardo di penitenza della mamma, non lascia scampo. |
Insomma, filmetto pigro dal taglio fin troppo televisivo e
con parecchie interpretazioni sopra le righe, più che su Amazon
Prime Video, potrebbe andare bene nel pomeriggio di Canale 5, però devo essere
onesto, questo film mi ha fatto tornare la voglia di ordinare Indiano da
asporto. Lo so è poco, ma molto più di quello che certi altri film ti lasciano
tante volte.
The Lie (2020)
Il secondo film che ho visto legato al progetto “Welcome
to The Blumhouse”, da poco disponibile su Amazon Prime Video è “The Lie”, se
avete una predisposizione naturale per il Thriller e le ambientazioni nevose,
potrebbe fare al caso vostro, anche se bisognerà abbassare le aspettative dopo le buone premesse iniziali della trama, eccola che arriva.
Diretto da Veena Sud, conosciuta per la serie “The
Killing”, questo film è il rifacimento americano del tedesco “We Monsters”
(2015) che offre una solida e pragmatica base di partenza alla storia: Kayla
(Joey King) è la figlia quindicenne di una coppia divorziata composta dal
musicista Jay (Peter Sarsgaard) e l’avvocatessa Rebecca
(Mireille Enos). La ragazza come Vodafone, c’ha lo scazzo alla risposta, ma
d’altra parte è un adolescente che cresce con genitori separati possiamo
biasimarla? La sua migliore amica è una ragazza acidella (come cantavano i Flaminio
Maphia) di nome Brittany. Una mattina papà Jay ha il compito di portare le due
ragazze a scuola, ma durante una pausa lungo il percorso Brittany scompare in
prossimità di un fiume gelato e secondo Kayla no, non è stato un incidente.
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#Andrà tutto bene (forse…) |
Tutto il film è basato sull’immedesimazione con i
protagonisti, in quanto genitori è giusto coprire la figlia a tutti i costi?
Qualcuno potrebbe dire no (ma il film finirebbe dopo dieci minuti), quindi come accadeva in storie che sono diventate modelli di riferimento, penso a “Fargo” (1996) oppure
“Soldi sporchi” (1998), i personaggi decidono di fare tutto quello che è in loro potere per coprire il crimine e di
proseguire lungo questa china pericolosa, costi quel che costi. Anche se citando i Coen e il loro fratello spirituale Sam Raimi, ho alzato davvero troppo il tiro, “The Lie” inizia bene poi prosegue sul soporifero andante come ritmo.
Una volta che il pubblico accetta la premessa iniziale,
“The Lie” funziona, portandoci nella vita di personaggi tutto
sommato ben interpretati e credibili nella loro volontà di restare una
famiglia, anche se per farlo bisognerà sacrificare qualche capro espiatorio,
mentire alla polizia e tenere tutti insieme i nervi saldi, per non mostrare
lacune nella storia farlocca, inventata per proteggere la figlia.
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#Ho detto che andrà tutto bene c@%$o! |
Il film è puro Blumhouse, pochi attori ancora meno set e
una trama che non ha molto di originale ma tiene botta se riuscirete a sospendere un po’ la vostra incredulità, almeno fino all’inevitabile svolta finale, che gli spettatori più
attenti potranno indovinare con alcuni minuti di anticipo. Insomma “The
Lie” inventa davvero poco, verso metà cerca di mettere su un ritmo teso basato sui rapporti tra personaggi ma più che altro, regala sbadigli con il suo tentativo di replicare atmosfere da noir nord europeo.
Black Box (2020)
Sei mesi dopo un drammatico incidente, Nolan (Mamoudou
Athie) ha subito un grave danno neurologico e non ricorda più bene sua moglie,
tanto da andare in giro con dei tatuaggi sul corpo, che riportano alcune parole
chiave, necessarie per scavare a ritroso nel mistero del suo pass… No scusate, mi sono
fatto distrarre dal nome del protagonista, che immagino sia per lo meno una
citazione.
Crescere sua figlia Ana (Amanda Christine) diventa un
problema quando hai il cervello come uno scolapasta, dopo l’ennesima porta in
faccia lavorativa, l’uomo decide si sottoporti ad un esperimento del tutto innovativo, nel tentativo estremo di recuperare le memorie mancanti. A
gestire il viaggio nel subconscio è Clare, la mamma dei Robinson… No gente, ma come fa
a non invecchiare Phylicia Rashād? Questo per me resta il più grande mistero di
“Black Box”, uno dei quattro segmenti dell’operazione “Welcome to Blumhouse”,
presentato in esclusiva su Amazon Prime Video.
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“Mi spieghi perché mi sono risvegliato in un episodio dei Robinson, signora Robinson?” |
Il film scritto e diretto da Emmanuel Osei-Kuffour Jr. è
un viaggio (allucinante) nella memoria del protagonista, un incrocio tra horror
e fantascienza, dove la Black Box del titolo è il macchinario futuristico che
rende possibile il viaggio. La prosopagnosia del protagonista – per fortuna
Caparezza mi ha spiegato il significato di questa parola – è la principale
occasione per il regista per giocarsi qualche momento horror: Nolan si ritrova immerso nei suoi ricordi del passato ma circondato da persone senza volto,
porzioni della sua storia a cui sarà necessario restituire un nome, oltre che
un naso, una bocca e due occhi.
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Diciamo tutti grazie a Caparezza per la diagnosi medica. |
Ma la svolta è dietro l’angolo, letteralmente visto che
arriva a metà del secondo atto, forse fin troppo presto per rendere avvincente
per davvero un film che dura 100 minuti, e che sembra un altro “Black” famoso, Black Mirror, di cui questo film potrebbe essere l’episodio perduto. Mi rendo conto
che aveva ragione Joe Dante (ma lui ha sempre ragione!) quando parlando della
Blumhouse, sosteneva che hanno nei loro cassetti molti titoli da giocarsi sul
mercato delle piattaforme di streaming, materiale non abbastanza “forte” per un’uscita
cinematografica, ma che in questo periodo di sale vuote (e chiuse), torna molto
utile. Forse per questo la casa di produzione di Jason Blum ha potuto giocarsi
quattro titoli uno via l’altro. Anche se di questo “poker” non tutti sono
proprio degli assi (anzi…), di sicuro “Black Box” è quello più diretto agli
appassionati di fantascienza spicciola. Anche se personalmente spingere un po’
di più sul pedale delle apparizioni orrifiche e un po’ meno sulla svolta (non proprio impossibile da intuire),
avrebbe migliorato di molto l’atmosfera del film.
Nocturne (2020)
Una giovane violinista esegue alla perfezione il “Trillo del
Diavolo”, il brano di Giuseppe Tartini, posa il violino e si getta dal balcone.
Ed io che pensavo di essere estremamente autocritico!
Questo è l’inizio di “Nocturne”, opera prima della regista
e sceneggiatrice Zu Quirke, ultimo dei quattro film dell’operazione “Welcome to
Blumhouse”, presentati a raffica su Amazon Prime Video ma a ben guardare anche il migliore del
lotto. Dopo l’inizio potente, la storia passa subito a presentarci le due
protagonista, due sorelle gemelle (evidentemente eterozigote), Vivian (Madison
Iseman) è quella popolare, talentuosa e destinata ad entrare nell’importante
accademia di musica, mentre Juliet è la sorella sfigata, quella che come
scopriamo dai dialoghi abbastanza didascalici, non ha mai avuto una
Playstation, non possiede nessun account sui Socialcosi, ma si allena al pianoforte ininterrottamente, senza purtroppo avere gli stessi risultati della sorella.
Insomma Juliet è la conferma vivente che se dei genitori hanno dei buoni geni, questi non verranno divisi in parti uguali tra la prole, un po’
come tra Mark Knopfler e suo fratello David per capirci.
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“Non potevi usare i fratelli Young oppure i Van Halen come esempio?”, “No qui suoniamo solo musica classica” |
Juliet è interpretata da Sydney Sweeney, perché solo il
cinema (o in questo caso lo streaming) può farci credere che quella sexy di Euphoria sia poco popolare a scuola. Per
fortuna Sydney Sweeney è piuttosto brava a rendere un personaggio schiavo della
sua ossessione per il risultato, interessata solo alla musica tanto da ignorare
ogni stimolo esterno. Almeno fino al giorno in cui la ragazza non ritroverà il
diario della violinista suicida, un libercolo nero pieno di strane scritte e
disegni, che oltre a regalarle lisergiche visioni, le darà il talento
necessario per suonare come sua sorella, anzi meglio. Il “Trillo del Diavolo” di
Tartini eseguito al piano, diventa il suo lascia passare per il successo, quello per cui Juliet si è
sacrificata tutta una vita.
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Sembrano i disegnetti che facevo sul quaderno durante le lezioni. |
“Nocturne” ha tutti i suoi modelli di riferimento molto
chiari, “Scarpette rosse” (1948) e di conseguenza “Il cigno nero”
(2010), ma anche un pizzico del Suspiria di Luca Guadagnino, certo è una versione molto più in piccolo, che però
intrattiene per tutta la sua durata, a differenza dell’altro manipolo di film
dell’operazione “Welcome to Blumhouse”. Zu Quirke fa un ottimo lavoro con il
suo piccolo film e il cast risponde presente, grazie ad interpretazioni
convincenti.
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Questa sarebbe quella poco popolare a scuola? Ho sbagliato il mio percorso di studi. |
Il film non inventa certo nulla di nuovo, ma la storia
dell’ossessione di Juliet si srotola sotto i nostri occhi in maniera riuscita, tanto da distrarci tutti da una soluzione del giallo che non è certo così
impossibile da indovinare, che poi è la costante in tutti questi film del
pacchetto “Welcome to Blumhouse”, solo che “Nocturne” risulta molto più curato
e capace di farti patteggiare per la protagonista, le visioni orrifiche della ragazza, ben si prestano alla trance della grande prestazione al piano forte. Quindi anche se le
situazioni e le dinamiche tra personaggi le conosciamo bene perché le abbiamo
già viste molte volte, risulta un film riuscito e anche il migliore del lotto.
Cadaver (2020)
La rete a strascico di Netflix pesca quello che trova, a
volte azzecca film al passo con i nostri (brutti) tempi come Il buco oppure #Alive, altre volte invece si ritrova per le mani l’horror
norvegese diretto da Jarand Herdal, che pur puntando tutto su una messa in
scena ricercata, alla fine risulta ben poco originale, ma andiamo per gradi.
In un mondo post-atomico, che sembra uscito dalle strisce
di Bonvi e per convenzione cinematografica, viene rappresentato come buuuuuio
(da “Blade Runner” in poi non può essere diversamente), scarseggia tutto, in
particolar modo il cibo. Bisogna lottare per ogni bene primario e la morte è
sempre dietro l’angolo, tra le macerie cercano di sopravvivere l’ex attrice
drammatica Leonora (Gitte Witt) e suo marito Jacob (Thomas Gullestad), entrambi
impegnati a proteggere la loro figlia Alice (Tuva Olivia Remman) in questo
nuovo e non tanto coraggioso nuovo mondo.
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“Il servizio lascia un po’ a desiderare, non sono sopravvissuto alla guerra atomica per aspettare l’antipasto” |
Una piccola speranza sembra essere uno strambo
albergo che accetta ospiti solo su invito, qui in cambio di cibo e ogni genere
di coccola, ai commensali viene chiesto di dare un voto da uno a dieci al
servizio, alla locaScìon, al menù e… No, credo di aver fatto un po’ di
confusione. Viene solo chiesto di recitare in piccoli spettacoli, perché non di
solo pane vive l’uomo, anche un po’ d’arte non guasta.
Leonora con i suoi trascorsi da attrice genera parecchie
aspettative, anche se alcuni spettacoli all’interno dell’albergo
sembrano decisamente riservati a spettatori adulti, per la serie va tutto bene purché se magna!
Almeno fino a quando Alice scompare, inoltre essere inseguiti da avventori mascherati
(per aiutare l’immedesimazione), invece che generare brividi, provoca più noia
che altro. Quindi darei un dieci alla locaScìon, ma un cinque all’intrattenimento
e al servizio. Da qui in poi… SPOILER!
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Benvenuti nel paragrafo con le anticipazioni pericolose. |
Da dove arriva il cibo in un futuro dove la pappa
scarseggia? Se avete familiarità con il genere horror e le cene a casa della
famiglia Sawyer, non è difficile capirlo, peccato che questo (non) colpo di
scena sia anche l’unica svolta in un film che cerca di portare in scena la
lotta di classe, riuscendoci molto poco. Non fatemi fare nemmeno il confronto
diretto con il bellissimo “Delicatessen” (1991), perché sarebbe impietoso e il
povero “Cadaver” (o “Kadaver” stando al titolo originale) ne uscirebbe beh,
cadavere. La freddura più facile del mondo. Fine degli SPOILER
Insomma Jarand Herdal ha davvero buon occhio e questa
produzione originale Netflix Norvegia non è certo un film esteticamente brutto,
ma forse può spaventare solo il pubblico che gironzolato sul paginone di Netflix, chiunque sia
appassionato di horror, nell’albergo di “Cadaver” può fare giusto l’aperitivo,
prima di passare alla cena vera e propria.