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Il pianeta delle scimmie (1968): la scimmia è l’evoluzione dell’uomo

No, sul serio, pensavate che uno scimmiofilo come me non vi avrebbe tediati tutti con uno dei più grandi “Monkey movie” di tutti i tempi? L’idea sarebbe quella di un bel ripasso in vista del nuovo capitolo della saga, quindi benvenuti alla nuova rubrica quadrumane… Blog of the Apes!

Il 1968 è stato un grande anno per le SIMMIE al cinema, nel giro di pochissimi mesi, con un paio di film le abbiamo viste diventare intelligenti venendo a contatto con un misterioso monolite, ma anche diventare la specie dominante sul pianeta, il film di Stanley Kubrick e quello di Franklin J. Schaffner hanno fatto da apripista per tutta la fantascienza che avremmo visto nei due decenni successivi, siete liberi di non credermi, ma lo dico sempre che il cinema discende dalle scimmie!

Il seme di questa rivoluzione è stato piantata dallo scrittore francese Pierre Boulle, il suo romanzo “Viaggio a Soror” pubblicato nel 1963 (dopo un cambio di titolo nel 1975 per cavalcare il successo dei film) è un libercolo piccino picciò nato senza alcuna intenzione di fare fantascienza, le intenzioni di Boulle erano quelle di utilizzare l’arma del grottesco per parlare dei cambiamenti della sua Francia e di fare metafora della sua prigionia in un campo di lavoro in Indocina nel 1943, se per caso tutto questo vi ricorda il film con Sir Alec Guinnes “Il ponte sul fiume Kwai” è solo perché era tratto dal romanzo omonimo dello stesso Boulle.

Il fiero responsabile di due grandi classici del cinema.

L’americano sborone, l’astronauta George Taylor (che nel romanzo si chiama Ulysse), interpretato da un grande Charlton Heston e le sue difficoltà di comunicazione con le scimmie locali, non sono altro che un riflesso di quanto accaduto al francese Boulle e, bisogna ricordarlo, quando si parla di superiorità vera o presenta sugli altri popoli, i Francesi sono i veri Americani del mondo.

Nel libro troviamo quasi tutti i personaggi e le situazioni che sono diventate mitiche al cinema, ma anche un paio di differenze sostanziali, il pianeta gemello con le scimmie al comando, ha quasi lo stesso livello di evoluzione scientifica e tecnologica della Terra e il colpo di scena finale è molto diverso. Mettiamola così: il remake di Tim Burton era davvero poca cosa, ma almeno su un punto è stato più fedele al libro, ne parleremo!
La ragione delle modifiche ha un nome, un cognome e un curriculum di tutto rispetto, quello di Rod Serling, il papà della mitica Ai confini della realtà (The Twilight Zone). Voi non mi vedete, ma quando parlo di questa serie mi alzo e mi tolgo il cappello in segno di rispetto. Serling riscrive la prima bozza firmata da Michael Wilson, premio Oscar proprio per l’adattamento de “Il ponte sul fiume Kwai”, oltre a trasformare la società scimmiesca in un nuovo medioevo post-apocalisse, con tanto di echi da Santa decide di modificare il finale, anche perché parliamoci chiaro: anno 1968, forte della palestra di tanti bellissimi episodi di “Ai confini della realtà”, nessuno maneggia il concetto di twist finale meglio del bipede noto come Rod Serling. Se anche voi come me vi siete consumati le cornee sugli episodi di quella mitica serie lo sapete benissimo.
«…È una regione che potrebbe trovarsi ai confini della scimmiosità»

Allora, so che può sembrare assurdo, ma facciamo che ora io vi racconto la trama, facendo finta che nessuno di voi conosca quello che è uno dei più grandi finali della storia del cinema da quasi cinquant’anni a questa parte, ok? “Il pianeta delle scimmie” inizia con l’astronauta più spavaldo della galassia, George Taylor, non potete mancarlo perché è quello con le spalle e il ghigno irridente di Charlton Heston che qui recita per la storia.

America… FUCK YEAH!

Taylor è cinico e disilluso, talmente disgustato dalla razza umana da essere disposto ad affrontare un viaggio nello spazio in animazione sospesa della durata di duemila anni pur di trovare qualcosa di migliore dell’uomo tra le stelle. Il cinema ci ha insegnato che più sono sboroni gli Americani nei loro viaggi spaziali, più forti sono le scoppole che prenderanno sui loro coppini a stelle e strisce.

Precipitati su un… Ehm…. “Pianeta alieno”, Taylor e i suoi compagni sono gli ultimi della loro razza, anche perché, a causa di un malfunzionamento, la capsula di animazione sospesa ha trasformato l’unica donna dell’equipaggio in una mummia rinsecchita da una ventina di secoli. Tanta solidarietà ai soci di Taylor, perché sopravvissuto all’ammaraggio, il nostro diventa ancora più disilluso, la scena in cui se la ride di gusto nel vedere Landon piantare una bandierina americana sul pianeta “colonizzato” riassume il personaggio meglio di cento parole.
Aspetta che ti mostro il Charlton che me ne frega.

Sul pianeta l’evoluzione è andata al contrario, con buona pace di Darwin, al comando c’è una società composta da scimpanzé, oranghi e gorilla umanoidi, organizzati in un nuovo Medioevo, fatto di leggi imposizioni e dogmi religiosi, dove gli umani sono bestie selvagge incapaci di parlare e considerate esseri inferiori.

Il film ribalta il punto di vista, l’alieno invasore è l’uomo e Taylor dovrà usare tutto il suo ingegno e il suo brutto carattere per non finire castrato, lobotomizzato o peggio. Ad aiutarlo solo la dottoressa specializzata in veterinaria Zira (Kim Hunter) e suo marito Cornelius (il grande Roddy McDowall scimmia onoraria di questa saga), due intellettuali che non credono alle teorie retrograde e conservatrici dell’esimio professor Zaius (Maurice Evans). Ora, non so voi, ma ogni volta che sento il nome Zaius, mi viene in mente la scena del musical ispirato a questo film, in cui recitava Troy Mcclure in un mitico episodio dei Simpson (dottor Zaius dottor Zaius!).

Voglio essere chiarissimo: amo alla follia questo film, ma i difetti li vedo anch’io, eppure, a mio avviso, non fanno altro che rafforzare la potenza di questo film, è chiaro che ci va un’abbondante dose di classe (chiamiamola così, anche se la parola giusta sarebbe un’altra che inizia con la stessa lettera) per precipitare proprio in un lago, avendo un intero pianeta brullo contro cui schiantarsi e ci va ancora più classe a trovare tra gli umani dei selvaggi che vivono e vengono cacciati come animali, proprio la bella Nova (la guardabile Linda Harrison), con le lunghe gambe perfettamente depilate e i capelli in ordine. Nel romanzo gli umani erano zozzi e nudi, una cosa che la censura non permetterebbe oggi, figuriamoci nel 1968!

«Prendimi ancora per il culo perché ho messo il canotto nella zaino, dai!»

Ma passando ai MACCOSA maggiori, la spiegazione dell’evoluzione alla rovescia, è comunque deboluccia nel giustificare un intero pianeta di scimmie che parlano in impeccabile Inglese (Italiano se lo guardate doppiato), Ulysse nel libro imparava da Zira lo “Scimmiese”, proprio come Boulle dovette imparare i rudimenti linguistici per sopravvivere durante la sua prigionia, ma importa davvero poco, perché nè Boulle nè soprattutto Franklin J. Schaffner erano interessati a fare della rigida hard sci-fi e, in virtù del colpo di scena finale, il film risulta molto più efficace del libro ad utilizzare la fantascienza per ricordarci quanto l’uomo sia incapace di gestire il progresso senza distruggere tutto quello su cui mette le sue luride zampacce.

Per essere una scimmia senza peli, non sei niente male.

Potremmo dire che il finale è un volontario tradimento rispetto al materiale originale, ma mi sento più a mio agio nello scrivere che ancora oggi, a quasi cinquant’anni dalla sua uscita, si tratta del più riuscito appropriamento (più o meno indebito) di una storia da parte di un media. Quel finale lì, è stato pensato, scritto e diretto per il grande schermo, se Boulle lo avesse scritto, su carta non sarebbe risultato altrettanto potente, la rivelazione finale deve per forza ergersi davanti a Taylor (e allo spettatore) così, devi poterlo vedere affidandoti solo agli occhi, senza nessun’altra descrizione per risvegliarti dall’illusione. Raramente il cinema si è impossessato in modo così radicale di una storia, mettendo in chiaro a tutti il suo essere una delle pochissime (se non addirittura l’unica) forma d’arte, in grado di raccontare al meglio questa storia che è nata tra le pagine di un libro, ma solo il cinema poteva raccontare nella sua pienezza. Basterebbe questo a fare di questo film un Classido!

“Il pianeta delle scimmie” è un capolavoro in perfetto equilibrio tra intrattenimento e politica, il messaggio critico contro la razza umana non prende prigionieri, ribaltando il punto di vista, il film non fa altro che sottolineare gli orrori di cui l’umanità è capace, quando vedi alcuni gorilla mettersi in posa sui cadaveri degli umani catturati durante la battuta di caccia, oppure il modo in cui gli oranghi giocano a fare le tre scimmiette (non vedo, non sento e non parlo), barricandosi dietro alle loro teorie retrograde, è impossibile non vedere il peggio della nostra società.

Ditemi che non è ancora un film attuale, cari maniaci delle selfie!

Il film di Franklin J. Schaffner è sessantottino non solo nell’anno di uscita, ma proprio nello spirito, è chiaro che i gorilla (neri) con gli idranti per disperdere i manifestanti, rappresentino il braccio armato del padronato, nella serie tv nata sull’onda del successo di questo film (che da bambino guardavo senza soluzione di continuità alternandola ai film) il concetto era estremizzato, i gorilla erano proprio i cattivi degli episodi, mentre in questo film sono ancora solo una parte della società della scimmie.

L’elemento politico diventa sempre più chiaro nel corso del film, mi fa sempre ridere il fatto che non appena veda un fucile Charlton Heston risponda prontamente “Io ne prendo uno”, visto che per decenni è stato l’uomo copertina e il più fiero sostenitore dell’NRA (National Rifle Association of America).

«Ricorda scimmia, dalle mie fredde mani morte»

la sua posizione si accentua quando Taylor si fa la barba dicendo alla scimmia Lucius che da dove viene lui, solo i giovanotti portano la barba lunga e poco dopo invita il ragazzo a sventolare alte le bandiere del malcontento e di non fidarsi di quelli sopra i trent’anni, sottolineando (e facendo beffe) dei motti e dei moti studenteschi sessantottini. Ah! A proposito di Lucius, fate un salto a trovare Lucius Etruscus che su questo film ha già scritto prima e sicuramente meglio di quanto non potrò mai fare io.

… E nemmeno dei terresti, come diceva Bill Murray.

Eppure, “Planet of the Apes” riesce ad essere così avanti da essere sessantottino e post-sessantottino allo stesso momento, la società delle scimmie incarna la disillusione, basta guardare Zira e Cornelius gli intellettuali che sono costretti a fare buon viso a cattivo gioco di fronte all’oscurantismo degli oranghi retrogradi. Non manca nemmeno una certa paranoia nucleare che quasi anticipa il clima da guerra fredda, dei decenni successivi, anzi, il secondo capitolo (prossimamente su questo schermo) da questo punto di vista è ancora più nichilista.

Un fotogramma che riassume il genio di questo film? Eccolo!

In tutto questo, l’atteggiamento spavaldo e cinico di Charlton Heston è perfetto, il suo Taylor sfoggia un mal celato disgusto per tutto e tutti, umani e scimmie che siano, quando finalmente riconquista il dono della parola (con grande tempismo scenografico per altro) secondo voi chiede aiuto? Ma va! Si lancia in un clamoroso «Take your stinking hands off me, you damn dirty ape!», che nel doppiaggio sbagliato risulta ancora più efficace. Sì, perché qui da noi diventa “Toglimi quelle zampacce di dosso, maledetto sporco gorilla”, solo che lo dice ad uno scimpanzé, il che a suo modo è un doppio affronto.

Il garbo e la classe con cui risolvere una situazione complicata.

Taylor mostra giusto un minimo di interesse solo per coloro che non si schierano apertamente con qualche ideologia e cercano la verità (il modo in cui difende Nova, o il bacio a Zira), per quello il finale risulta ancora più potente, davanti alla rivelazione, la verità sul pianeta delle scimmie, persino uno risoluto come lui crolla, in un finale in cui la critica sociale all’umanità è palese, ma risulta anche emotivamente travolgente, il punto di equilibrio perfetto tra politica e intrattenimento. Non so voi, ma vedere l’ultimo uomo della Terra, maledire la razza a cui appartiene con tale forza («Voi uomini l’avete distrutta maledetti! Maledetti per l’eternità tutti!») vale da solo il posto che questo film ricopre nella storia del cinema.

L’ultima grande eredità della razza umana: Il cinema.

Con un budget di sei milioni di ex presidenti senza il muso da scimmia, il film diventa un successo commerciale che la Twentieth Century Fox non poteva attendersi nemmeno nei suoi sogni di gloria più spregiudicati, tanto che viene messo in cantiere un sequel al volo (ne parleremo!) per cavalcare il clamore. “Il pianeta delle scimmie” diventa una bomba atomica sganciata sulla cultura popolare, grazie ad una storia efficacissima, ma anche ad un lavoro visivo impeccabile, i costumi, le case dove vivono le scimmie, tutto è essenziale, ma azzeccatissimo. Fate una prova: scegliete a caso dei fotogrammi presi dai cinque film originali della saga, o dai quattordici episodi della serie tv, mescolateli come facevo io da bambino, che senza problemi mi guardavo tutto, basta che dento ci fossero le scimmie (sono malato lo so), dal punto di vista visivo, malgrado il cambio di formato e di registi, resta tutto estremamente omogeneo, nell’utilizzo dei colori e degli attori.

Ma che fomento era la sigla della serie tv? Vi ricordate?

Il make up creato da John Chambers è fantastico, anche dopo cinquant’anni, non vedi un attore con una maschera da scimmia, ma una creatura del tutto credibile come scimmia evoluta, un trucco efficacissimo, chiedetelo ai poveri Cristi che fermi al semaforo, vedevano una scimmia al volante dall’auto accanto a loro, visto che Roddy McDowall aveva l’abitudine di tornare a casa in auto, senza togliersi il trucco, giusto per spaventare un po’ gli autisti lungo il tragitto (storia vera!).

Chi se la toglie più dopo tutto questo lavoro!

La saga nata con questo film, forma un cerchio chiuso che racconta una storia completa attraverso cinque capitoli coerenti anche se non successivi temporalmente parlando, un film nato per terminare con un twist che è ancora uno dei più grandi della storia del cinema, ha saputo creare una saga che, di fatto, è un unico grande film in cinque capitoli.

Allora non solo il solito a pensarlo… Join the Monkey army!

Non vorrei ricordare male, ma mi pare che nel romanzo di Philip K. Dick “Un oscuro scrutare” (A Scanner Darkly, 1977) il concetto sia molto ben espresso dai protagonisti che, leggerissimamente strafatti, vanno ad una maratona de “Il pianeta delle scimmie” e reagiscono ai colpi di scena come se fosse un’unica grande storia. Ecco, per me è la stessa cosa, questo film è il grande inizio di una saga invecchiata piuttosto bene, barricata da anni dentro il suo cerchio magico di cinque film, cinque dita di una mano, ovviamente scimmiesca, di cui se avrete voglia, parleremo diffusamente da queste parti.

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