Tra una cosa e l’altra sono arrivato un po’ lungo con il commento dell’ultimo film di Steven Spielberg uscito alla fine del 2015, poco male, spesso per commentare certi film è meglio attendere qualche giorno per vedere se hanno lasciato effettivamente qualcosa dopo il loro passaggio.
Il film è uscito nelle sale lo stesso giorno di Episodio VII – Il risveglio della nuova speranza dell’impero che colpisce ancora, per un puro caso, i due film hanno quasi la stessa durata, cinque minuti scarsi di differenza, però questo almeno mi ha fatto fare pace con il Cinema, se devo scegliere un regista con gli occhiali tondi io non ho dubbi, mai nella vita. Trama e poi ne parliamo:
1957, in piena guerra fredda, il classico brav’uomo americano (che infatti ha il faccione di Tommaso Aquile), l’avvocato James B. Donovan, si ritrova ad essere l’uomo di punta per la risoluzione di un difficile negoziato tra Stati Uniti e Unione Sovietica, l’obiettivo è il rilascio del pilota Francis Gary Powers (Austin Stowell) abbattuto dai Russi mentre era in volo con il suo U-2 Spia, evidentemente ai Sovietici non piacciono i gruppi rock irlandesi…
In cambio i Russi richiedono la liberazione della spia filocomunista Rudolf Abel (Mark Rylance), l’avvocato viene spedito a Berlino per trattare, a complicare il tutto, ci si mette la Repubblica Democratica Tedesca che vorrebbe un ruolo di primo piano nella trattativa, per essere riconosciuta come stato sovrano, Mr. Hanks, la palla è nel suo campo.
Giocatori in campo, Steven Spielberg e Tom Hanks si ritrovano nuovamente insieme, alle prese con una sceneggiatura scritta dai Fratelli Coen. L’ultima volta che i fratellini del Minnesota hanno scritto qualcosa per qualcuno, non è stato tutto pesche e crema, bisogna dire che questa volta almeno per la parte tecnica, lo script è finito nelle mani capaci del vecchio Steven, infatti la messa in scena del film è davvero notevole sotto tutti gli aspetti.
I Coen non sono certo i primi registi e sceneggiatori della storia del Cinema a prestare un copione scritto da loro ad altri, quello che ho apprezzato è il fatto che specialmente nella parte iniziale del film, i due Fratelli abbiano piazzato qualche stoccata caustica, riservandole quasi tutte ai politici americani. Ma è impossibile non notare che i due non abbiano utilizzato la solita scrittura la vetriolo, e sulla lunga distanza, complice anche un certo buonismo (forse anche troppo) nel finale, è chiaro che il testimone del film sia saldamente finito nella mani di Zio Steven.
Come dicevo, ho visto il film qualche settimana fa, quindi ho avuto modo di riflettere sulla retorica presente nella pellicola. Ora, la retorica nei film è come la mostarda in cucina: prima o poi salta fuori in qualche ricetta e se non ci inzuppi il piatto può anche renderlo più gustoso (a volte). Ora fatemi uscire da questa pericolosissima metafora culinaria in cui mi sono infilato dicendovi che “Il ponte delle spie” in certi momenti è molto retorico, in generale il sotto testo è abbastanza chiaro: Americani = BUONI, Russi = Cattivoni, un tripudio di bianco contro nero, con buona pace delle zone grigie.
Il montaggio parallelo che mostra la disparità di trattamento tra i due prigionieri, quello Sovietico, svegliato come farebbe una brava mamma dai suoi carcerieri Yankee, mentre il povero pilota Americano trattato in stile… Beh Guantanamo, qui un po’ di vetriolo avanzato ai Coen lo utilizzo io.
L’altra grande critica mossa a questo film è la sua eccessiva lentezza, certo la prima parte è molto orientata a presentare i personaggi e la situazione in cui si trovano, non si può certo dire che sia tutta esplosioni e mortaretti, ma si è visto ben di peggio. Quando il film sale di colpi, ho trovato anche appassionante seguire le vicende di quest’uomo qualunque, in territorio straniero e dalle cui azioni, dipendono i destini del mondo. Qui entriamo nel campo della soggettività, ma Tom Hanks anche questa volta dimostra di essere il più bravo di tutti a dare volto e corpo all’uomo normale che si trova ad affrontare condizioni straordinarie, bravo Tommaso!
Ma, siccome mi conosco e so cosa mi piace vedere in un film, la cosa che ho apprezzato di più de “Il ponte delle spie” è stato l’intreccio, è il classico film in cui appena pensi “Ma perché Tom Hanks non telefona più alla moglie?”, Spielberg ti piazza la scena della cabina del telefono e mette a tacere i nascenti dubbi dello spettatore caga minchia (cioè io) e se lo fa per un dettaglio semplice come questo, figuriamoci per tutto il complesso intrigo politico portato in scena, che a mio avviso, si segue con una facilità disarmante e questo non perché in sala siamo diventati tutti degli Henry Kissinger, ma perché il regista de Lo Squalo tira le redini della narrazione alla grande.
L’apice del film è, ovviamente, la scena che dà il titolo al film, ambientata sul ponte di Glienicke, a questo punto, ritmo o non ritmo, retorica o non retorica, mi potete dire quello che volete, ma non che Speilberg non abbia fatto un lavoro magistrale di regia e montaggio, creando una scena che comunque ti lascia incollato allo schermo, anche se nel fondo del cranio sai già come finirà, giù il cappello!
Gli ultimi cinque minuti soffrono di eccesivo buonismo e soffrono anche dell’effetto della “Moltiplicazione dei finali”, non so come descriverla meglio: arriva una scena che sembra il finale del film, poi ne arriva un’altra e un’altra ancora e anche se Hanks che guarda i ragazzini americani che saltano il muro di cinta risulta un momento molto riuscito (“Didascalico! Letterario!” cit.), ogni finale aggiuntivo porta con sè altro buonismo. Malgrado tutti i difettucci, devo dire che ho apprezzato il film, certo, se avesse fatto fare un cameo anche al cavallo di “War Horse” sarei stato più felice, ma non si può avere tutto dalla vita.