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Il quarto uomo (1983): la tela della donna ragno

Un titolo alla volta siamo arrivati anche all’ultimo film della fase olandese del buon Paul, quello che oggi è protagonista della rubrica… Sollevare un Paul Verhoeven!

Spetters è stato un titolo che ha fatto enormemente discutere, il primo vero film scandalo della carriera di Verhoeven, ma anche un grande successo al botteghino, il nuovo lavoro del regista olandese è stato l’esatto opposto: molto apprezzato dai critici, nelle sale è andato così così, ma questo non vuol dire che si tratti di un brutto film anzi. Con “Il quarto uomo” Verhoeven fa un passo indietro e torna a collaborare con il produttore Rob Houwer, ma anche con il suo fidato direttore della fotografia Jan de Bont, il passo indietro non è una resa, ma un modo per guadagnare un punto di vista più ampio e, considerando quanto il discorso dello sguardo sia importante in questo film, perdonatemi l’ardita metafora.

Certo, il tentativo di riappacificazione tra Verhoeven e Rob Houwer dura giusto il tempo di questo film, visto che durante la lavorazione i due tornano a battagliare come al solito, ricoprendo i loro eterni ruoli di cane e gatto, ma l’ultimo film olandese di Verhoeven sembra quasi un modo per tirare le fila di tutta la prima fase della sua filmografia, l’occasione per farlo arriva nuovamente da un romanzo, ovvero “De vierde man” di Gerard Reve.

Facciamo un brindisi alla ritrovata intesa… Per ora.

Come per Fiore di carne, Verhoeven sceglie di portare sul grande schermo il romanzo di un autore popolarissimo nei Paesi Bassi e decisamente meno altrove, vuoi perché Gerard Reve è stato uno dei primi scrittori olandesi a dichiararsi omosessuale, ma allo stesso tempo fortemente legato ai valori del Cattolicesimo? Strano non sia il più venduto in uno strambo Paese a forma di scarpa di mia e vostra conoscenza.

Proprio questo tipo di contraddizione (se di contraddizione si tratta) sembra cucita dal sarto per il cinema di Verhoeven, malgrado il fatto che il buon Paolo abbia dichiarato il suo liberismo, anche sessuale e rivoluzionario con film come Fiore di carne e Kitty Tippel, proprio grazie al romanzo di Reve trova l’occasione per fare una sintesi del suo cinema fino a quel momento, ma anche di gettare spunti per idee che verranno poi sfruttate ampiamente nella sua fase americana. Lo so che ora è facile da dire, ma sono i vantaggi di analizzare una filmografia dalla poltrona comoda dell’anno 2017 ed io sono a favore delle comodità!

Per la parte del bukowskiano protagonista Gerard, Verhoeven vuole a tutti i costi il suo attore feticcio Jeroen Krabbé al suo terzo film con il regista, mentre per la parte del bello bello in modo assurdo Herman, il casting si compone da solo, la parte va a Thom Hoffman, l’unico che durante i provini ha avuto il fegato di baciare Krabbé alla francese (immaginatelo pronunciato come farebbe Gigi Proietti) durante il provino, storia vera.

«Uffa nessuno mi vuole baciare, eppure mi sono anche lavato i denti stamattina…»

Come al solito, il timido Paul apre il film toccandola pianissimo, sui titoli di testa mostra con dovizia di dettagli un grosso ragno impegnato ad avvolgere nella sua una mosca prima di divorarla, il tutto con un bel crocefisso sullo sfondo, roba da mettere subito a loro agio aracnofobici e Cattolici oltranzisti, così, tanto per gradire.

Gerard (Jeroen Krabbé) è uno scrittore piuttosto famoso bisessuale (dettaglio fondamentale per la trama) che convive con un violoncellista che sogna di strangolare già dalla prima scena. Proprio come in Fiore di carne Verhoeven apre il film con il protagonista che sogna di uccidere l’amante, segni di continuità, certo, ma anche un modo per dirci che i sogni conticchiano in questa storia.

In viaggio da Amsterdam a Flessinga dove dovrà tenere una conferenza sui suoi romanzi presso la Vlissingen Literary Society, Gerard ha parecchie visioni non tutte piacevolissime, sulla carrozza del suo treno è riprodotta una stampa di un quadro che rappresenta Sansone e Dalila, mentre la mamma accanto a lui sembra una specie di Madonna con bambino, intesa come signora mamma di Gesù non come Pop Star, eh!

Non so perché mi risuona in testa un pezzo famoso dei Depeche Mode.

Ma le visioni non finiscono qui, per lui anche quello su di un sinistro albergo, di una stanza (non a caso numero quattro) dove cola fuori un bulbo oculare spappolato, primi accenni alle scene quasi splatter che vedremo spesso nella fase americana del regista.

Dopo la conferenza Gerard conosce una bella biondina di nome Christine (Renée Soutendijk, la panterona di Spetters) che prima lo filma con una vecchia Super 8 e poi se lo porta a casa, alternativa sicuramente migliore che passare la notte solo, per altro, nello stesso albergo della sua precedente visione, una specie di TripAdvisor onirico in pratica… Comodo!

Hotel molto curato, camere pulitissime, visioni a sfondo mistico garantite!

Un film di Verhoeven, un uomo e una donna, cosa succede? Vabbè trombano dai, questa era facile su, da qui in poi la trama si complica. Christine ha un salone di bellezza tutto suo e con una sua linea di shampoo chiamata “Delilah” e in una scena taglia proprio i capelli al protagonista, ancora sconvolto dal sogno della notte precedente, quello in cui con lo stesso paio di forbici, la bionda gli tagliava un’altra cosa che di solito non ricresce, se siete maschietti vi lascio il tempo per portarvi le mani all’inguine facendo “Auch!”.

Il film preferito di Lorena Bobbitt.

Malgrado tutte le premonizioni Gerard perde la testa per l’androgina Christine e va ancora più sotto nella sua ossessione quando vede una foto del suo atletico amante Herman (Thom Hoffman il baciatore compulsivo di cui sopra), presto scoprirà, però, come mai Christine è così piena di soldi e perché il film si chiama “Il quarto uomo”.

Come avrete intuito tutta la pellicola è carica di simbolismi, per la scena del sogno nel sogno, Verhoeven ha dichiarato di essersi ispirato a quella (bellissima) del film “Un lupo mannaro americano a Londra” (1981) del suo (e mio) amico John Landis. Il regista olandese ha spesso inserito nei suoi film delle inquadrature ispirate all’iconografia cattolica, ne troviamo in Spetters e, come vedremo, non mancano nemmeno nel martirio di Alex Murphy in “Robocop” (1987), ma qui Verhoeven davvero va a tavoletta, anni dopo è arrivato a dichiarare di averlo fatto solo per far strizzare gli occhi ai critici più conservatori, cosa che non si direbbe affatto visto che questo abbondante abuso del simbolismo non appesantisce per niente il film, anzi aggiunge un secondo strato di lettura alla storia.

Con “Il quarto uomo” Verhoeven si muove agilmente tra i generi, talento che ha sempre dimostrato lungo tutta la sua lunga carriera, questo film è a tutti gli effetti un thriller di stampo classico con tanto di Femme Fatale, per di più bionda, roba da fare la gioia di zio Alfred Hitchcock. Ma allo stesso tempo ha dei tocchi totalmente horror ed è innegabile che sia un film erotico, anzi forse qualcuno lo definirebbe pure eretico visto l’utilizzo libertino che fa delle icone sacre.

Ecco tipo La donna che visse due volte però difficilmente lo vedrete al pomeriggio su Rete 4.

Maneggiare tanti generi tutti insieme condendo il tutto con dosi abbondanti di simbolismo esplicito è qualcosa che potrebbe divorare un regista di minor talento, Verhoeven, invece, procede dritto come un fuso in una storia che mescola Cattolicesimo e Paganesimo portando avanti tutte le ossessioni cinematografiche tipiche del regista.

Se il paragone con la rasatura di Sansone che lo priva dell’invincibilità è piuttosto palese, allo stesso modo lo sono i continui rimandi ai ragni, anzi alla vedova nera, l’insegna del negozio di Christine, quando tutti i neon rosa sono accesi mostra la scritta “Sphinx”, che in Olandese significa sfinge, ma siccome è difettosa e ogni tanto qualche lettera scompare, spesso leggiamo solamente “Spin” che vuol dire proprio vedova nera. Alla fine di questa rubrica potrò andare anche in vacanza in Olanda con il vocabolario che sto raccogliendo, figo!

Christine è la vedova nera che avvolge il protagonista nella sua tela, per Verhoeven sono sempre le donne a sconvolgere i mondi maschili, sono loro le vere forze della natura che irrompono nella vita dei protagonisti rivoluzionandole, lo faceva la Olga della burrosa Monique Van de Ven in Fiore di carne ed era la stessa attrice che in Kitty Tippel capiva che il corpo femminile era la sua vera arma con cui conquistarsi il potere. Qui ho trovato incredibilmente riuscito il modo in cui Verhoeven sia ci abbia mostrato la stessa attrice, Renée Soutendijk, prima molto sensuale in Spetters e qui altrettato, ma allo stesso tempo incredibilmente androgina. La Soutendijk, poi, è davvero brava, perfetta nel rappresentare un personaggio ambivalente, all’apparenza debole e bisognosa, in realtà fredda e affilata come un bisturi. Tutti i personaggi di femminili creati da Verhoeven hanno dei tratti in comune, ma Christine sembra la zia olandese che dopo essersi trasferita negli Stati Uniti avrà un giorno una nipotina chiamata Catherine Tramell.

«Sharon Stone stai buona in panchina che non è ancora il tuo momento»

Se in natura è sempre la femmina la più letale della specie, come diceva Rudyard Kipling, Verhoeven pare essere dello stesso avviso, ma alzando ancora l’asticella: per il regista le donne sono la versione 2.0 quella migliorata, con tutto sempre sotto controllo in perfetta contrapposizione con i personaggi maschili che, invece, sono quasi sempre mossi dagli istinti più bassi e finiscono martirizzati, come Eef in Spetters, come il già citato Alex Murphy o come Gerard qui in preda alle sue ossessive visioni.

Diventa fondamentale in tal senso che Gerard sia bisessuale, perché il personaggio è attratto in misura uguale dal corpo androgino della Soutendijk e da quello al 100% maschile di Herman, che viene rappresentato come un’icona di machismo quasi al limite della macchietta, che il protagonista letteralmente venera. A proposito di simbolismo spinto, la scena in chiesa dove Gerard abbraccia il corpo di Herman, che si trova dove normalmente sta un Gesù sofferente, ovvero sul crocefisso. Ricordate cosa si diceva prima delle scene messe dentro per far incazzare i critici conservatori, no? Ecco, appunto.

You always look on the bright side of life (scusatemi non ho potuto resistere!)

A voler ben guardare dalla poltrona comoda del 2017, questo è anche uno dei primi passi di Verhoeven nel suo percorso di demolizione dei (super) corpi maschili, un modo per ridicolizzarli che nella seconda fase americana della carriera del regista sarà un argomento molto in voga… Bella comoda questa poltrona, vero?

Di simbolismo in simbolismo, non manca nemmeno un discorso molto forte sullo sguardo, vi ricordate quando Hannibal Lecter suggeriva a Clarice Starling che «Noi desideriamo ciò che vediamo ogni giorno»? Ecco, vale anche il contrario, cioè che vediamo quello che desideriamo, infatti lo sguardo è una costante in tutto il film, quello distorto di Gerard che scherzando durante la sua conferenza fa battute sulla sua miopia, ma dichiara anche che «Essere Cattolico significa avere grande capacità d’immaginazione».

Benvenuto, Frodo della Contea Gerard dall’olanda, colui che ha visto l’Occhio (quasi-Cit.)

Infatti, i rimandi agli occhi e allo sguardo sono continui, il bulbo oculare spappolato che è una costante nei sogni del protagonista, oppure il fatto che sia proprio lui a spiare Christine ed Herman dal più classico dei buchi della serratura. Brian De Palma diceva che la sua macchina da presa mente in continuazione mente ventiquattro volte al secondo, infatti la prima volta che Christine “vede” Gerard lo fa attraverso una macchina da presa, perché la verità passa tutta attraverso l’occhio della telecamera, che poi è anche quello che dice lo stesso Gerard durante la conferenza, parlando del suo lavoro di scrittore dichiara «Io mento sulla verità. Se non so se è successo davvero lo trovo eccitante.»

Come dice il saggio, la realtà non esiste, se non filtrata dalla finzione.

Nel finale, Christine con il suo punto della schiena insensibile (come le streghe nell’antichità) sembra quasi una forza pagana da cui il protagonista cerca di fuggire, rifugiandosi ormai perso nelle sue visioni sempre più a sfondo cattolico, non a caso invoca continuamente Maria, una donna sì, ma eterea, asessuata in pratica l’opposto di Christine.

“Il quarto uomo” è un altro ottimo film di Verhoeven, beccami gallina se sono riuscito a trovarne uno che non mi sia piaciuto tra quelli di questa porzione della sua filmografia, un ottimo modo per il regista olandese di concludere la prima fase della sua carriera e cominciare con quella successiva. Prossima fermata stelle e strisce passando dall’anno 1500, tra una settimana, stesso posto, stessa ora! 

Intanto non perdetevi la locandina d’epoca di questo film, direttamente dalla pagine di IPMP.

Sepolto in precedenza venerdì 20 ottobre 2017

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