Nel momento in cui vi scrivo, il cerchio della vita ha fatto il suo corso e la mia “bolla” social è tutta un proliferare di dediche alla memoria dello scomparso James Earl Jones, per tutti i giusti Thulsa Doom o re Joffy Joffer, per molti di quelli che ora lo piangono la voce originale di Darth Vader e di un altro re, Mufasa. Poi ci sarebbe da indagare su quante volte abbiano ascoltato i due ruoli pop più famosi di Jones in lingua originale, ma questo non è un discorso per questa sede.
Capite da voi che i festeggiamenti per i primi trent’anni del film di oggi, ovviamente già in programma per l’anno corrente, sono stati anticipati qui sulla Bara perché l’omaggio ad un gigante come James Earl Jones è quanto meno doveroso, anche se devo essere onesto, cosa si può davvero aggiungere che non sia stato già detto e scritto in questi trent’anni su “The lion king”? Forse solo il racconto di quando l’ho visto io per la prima volta, alla tenera età di anni dieci, nel novembre 1994, anzi, forse anche un po’ dopo.
Perché dico questo? Perché andai a vederlo nel cinema del mio paesello, non proprio un posticino con in programma solo ultime novità, mettiamola così, toccava un po’ farsi andare bene quello che passava con quel minimo sindacale di differita per tenere bassi i costi di gestione. Non ci andava così male, non esisteva internet quindi nessuno stava in ansia da prestazione del tipo, se non vedo l’ultima novità al primo giorno, al primo spettacolo, in prima fila, mi toglieranno la tessera per accedere ad “Infernet” e non potrò scrivere il mio straordinario parere (di solito “CAPOLAVOROOOO!” oppure “Cagata pazzesca”) sui Social per poi passare ad attendere la prossima grande uscita, anche se la questione prima fila, torna di moda.
Già perché io andai a vedere il film con i miei amici di allora, ma malgrado la scarsa popolazione del paesello e la seconda fascia della proiezione, beccai un pienone storico, che mi restituiva già allora, non la vastità del cazzo che me ne frega, come da popolare meme ispirato a questo film, ma dell’impatto avuto dalla regia di Roger Allers e Rob Minkoff. Risultato finale? Trovai un posto in sala per vederlo questo re leone, ma in prima fila, il primo posto a sinistra, avete presente? Bene, 89 minuti dopo uscì dal cinema con il torcicollo e felice di aver visto un bel film, anche se più che altro avevo visto “Il re leone di profilo” (storia vera).
Sulla genesi del 32º Classico Disney è stato scritto tutto, Roger Allers voleva una storia ambientata in Africa con perdite e crescita per i personaggi, Matthew Broderick, selezionato per doppiare i dialoghi di Simba da adulto (della parte cantata se ne occupa Joseph Williams) pensava di stare lavorando ad una versione americana di “Kimba, il leone bianco” tante erano le somiglianze e anche su questo, nel corso degli anni i video sul TuTubo si sono sprecati. Certo che dico io, tra tutti i doppiatori disponibili, proprio Broderick? Uno dei pochi americani che conosce prodotti provenienti dal Giappone dico io? Una cosa siamo noi, se siete della mia leva oppure un po’ più grandicella, “Kimba, il leone bianco” rappresenta le basi di ogni buon ragazzino e ragazzina teledipendente ma la leggenda riporta che Yoshihiro Shimizu, della Tezuka Productions, creatore di Kimba e “Dio dei Manga”, non si sia lanciato in una causa legale per mancanza di fondi contro gli allora (figuriamoci oggi) già temibili avvocati della Disney, anche se Roger Allers e Rob Minkoff hanno sempre dichiarato che se Kimba fosse stato tra le fonti di ispirazione, lo avrebbero citato (anche se nelle prime animazioni di prova il leone era bianco, storia vera), ma sappiamo come funziona no? Per la Storia non conta chi ha avuto per primo l’idea, ma chi ha saputo portarla al grande pubblico e “Il re leone” lo ha decisamente fatto. Classido? Direi di sì, anche se non è tra i miei titoli Disney che riguardo più spesso.
Di base siamo davanti al più classico dei romanzi di formazione, la storia di Simba dalla sua nascita alla sua incoronazione, lutti, rifiuto delle responsabilità, crescita, amore e riscatto, il tutto raccontato con ancora un po’ troppe canzoni per i miei gusti, ma indubbiamente iconiche, la sequenza di apertura è monumentale, da sola ha determinato il destino di tutti i gatti e i cani di piccola taglia, presi in braccio e sollevati (spesso contro voglia), sulle note di una colonna sonora che da sola è diventata leggenda.
Il paroliere Tim Rice, sulle note di Hans Zimmer nel suo maggior momento di creatività (quello in cui le sue composizioni erano più variegate) con sir Elton John come ciliegina sulla torta, che gli vuoi dire? Funziona tutto così bene che nella versione italiana, persino una regina della Disco come Ivana Spagna ha avuto un ritorno di popolarità con quel pezzo. Ma visto che parliamo di un post in cui posso solo aggiungere qualcosa di personale ad elementi di pubblico dominio, l’inizio con AAAAHHH TZEVEGNA! A casa Cassidy è ancora la canzone ufficiale che viene intonata a turno, quando è il momento di fare qualcosa di cui hai zero voglia di fare, tipo: «Certo che dovremmo proprio dare il bianco a casa», «AAAAHHH TZEVEGNA!» (storia vera).
La qualità dell’animazione ancora oggi è innegabile, “Il re leone” è uno degli ultimi titoli Disney in animazione classica, giusto la cavalcata degli gnu in fuga rappresenta uno dei primi esperimenti con il 3D, prima che l’anno successivo, quella che era allora la concorrenza della Pixar, non arrivò a cambiare tutto per sempre. Il film si gioca alla perfezione anche la crescita dei personaggi (con un ellisse narrativo sulle note della famosina “Hakuna matata”) ma in generale non sbaglia un colpo che sia uno.
Re Mufasa ha tutta la fierezza che il vocione di James Earl Jones era in grado di dargli, per la versione nostrana, per trovare qualcuno che avesse lo stesso carisma, dovettero scomodare Vittorio Gassman, quello che forse è stato il più grande attore nostrano o giù di lì, quindi in proporzione, per chi ancora non lo sapesse, dovreste avere tutto per intuire la grandezza di Jones che qui predica, dà lezioni, riporta alla responsabilità il protagonista come uno zio Ben con criniera, a ben pensarci, l’altra faccia della medaglia pop per James Earl Jones, qui padre buono, altrove, sotto il casco nero, padre passato al lato oscuro.
A proposito di parenti bastardi, seguendo l’antico adagio di zio Hitch, azzecca il cattivo e avrai mandato a segno metà della storia, vogliamo parlare di quanto sia riuscito Scar? Si chiama con il suo segno distintivo, lombrosiano. Sembra un Mufasa smilzo, perché non ne ha la forza fisica e perché ha fame, nel suo caso di potere, eppure allo stesso tempo ha una sua decadente regalità resa alla perfezione da Jeremy Irons e da Tullio Solenghi qui da noi. Forse mi sto lasciando influenzare dalla fine di Mufasa, ha il cattivo qui ha qualcosa di Jafar (pescando da un altro classico Disney) e qualcosa di Hans Gruber con tanto di cazzuta “Frase maschia” («Lunga vita al re») e mi sento di aggiungere, di che stiamo parlando? Se hai la versione leonina di Hans Gruber, doppiato da suo fratello Simon, no sul serio, ma io cosa di vedo dire de “Il re leone” in occasione dei suoi primi trent’anni?
La storia di Simba non Kimba, passa attraverso quello che è forse l’ultimo grande MDD della storia del cinema Disneiano e non venite a dirmi che non conoscete il significato di questo acronimo, perché se siete lettrici e lettori della Bara di lunga data dovreste sapere che si tratta del Momento Drammatico Disney (copyright La Bara Volante aut.min.rich), lo schiaffone formativo, la ciabattata che fa crescere, la mano pesante con cui zio Walt ha tirato su due o tre generazioni di spettatori, per una volta declinato al lato paterno, dopo un’infilata di mamme di Bambi e Dumbo, qui tocca a papà Mufasa trapassare per dare una lezione al figliolo e ad un’altra generazione di spettatori.
Non è un caso se bilanciando alla perfezione il ritmo del film, quando ancora abbiamo gli occhi pieni del MDD, arrivano Timon e Pumbaa con il loro carico di canzoni e flatulenze a fare da riuscito alleggerimento comico anche nei momenti più concitati, ai tempi non certo una novità, ma non la costante a cui siamo abituati oggi, per cui alcuni personaggi nei film per tutti non fanno altro che snocciolare battute come se non ci fosse un domani sempre, in qualunque momento (sulla moda di «Chiamami signor maiale!»), forse anche per questo il suricato e il facocero sono ancora molto amati dal pubblico.
Un dettaglio che si nota poco ma mi fa sempre ridere, ve lo racconto anche questo, dal punto di vista di casa Cassidy, perché tanto più che così un film come questo non lo si può raccontare diversamente. Avete presente quando Simba torna? Mezz’ora di drammatica corsa, molto cinematografica eh? Come spiegare ai bambini il ritorno ad Itaca di Ulisse, bello, sentito, intenso. Peccato che Nala (quanti cani conoscete che si chiamano così? Tutto merito di questo film) per coprire la stessa strada, portandosi dietro i rinforzi Timon e Pumbaa, ci metta pochi secondi, spiegazione della Wing-woman: «Si vede che è una femmina, più intelligente» (storia vera).
Per ogni scimmia sotto acido con il culo blu (questo sarebbe il Maestro Yoda della situazione eh? Ve lo ricordo) e ogni Zazu doppiato con un certo grado di nobilità da Rowan Atkinson, ci sono passaggi in cui i trent’anni si sentono tutti, ma in peggio per noi, vogliamo ricordare il volta faccia delle iene? Shenzi, Banzai e Ed, foppiate da Whoopi Goldberg, Cheech Marin e Jim Cummings mettono in chiaro quello che succede quando un leader non gode di vero rispetto, un finale per Scar che ribadisco, in qualunque film per tutti di trent’anni dopo, sarebbe riservato se va bene ad un Horror, quindi il problema non è certo “Il re leone”, ma come l’industria si sia rincoglionita nel frattempo.
Il lascito del film è nutrito, un musical pluripremiato con sei Tony Awards che ha esordito nel 1997, un sequel DTV, alcuni spin-off, due serie animate e una versione in live action che, fatemi soppesare le parole, perché qui vanno selezionate a dovere… Fa cagare, ed è buono solo per una banda di spettatori tuonati. Io mi chiedo che senso abbia spendere soldi per tornare in sala a rivedere lo stesso film, realizzato peggio, con una CGI che ti tira fuori dalla storia perché andiamo, una puntata di un documentario National Geographics dedicato ai leoni, dove i grossi felici (che a differenza della versione animata per essere realistici NON hanno espressioni riconducibili a noi umani, del tutto logiche con l’animazione) improvvisamente si mettono a cantare, però ehi! Hanno già annunciato il prequel su Mufasa, quindi mettiamola così, la Disney attuale è diversa da quella di trent’anni fa, ma l’amore del pubblico per questa storia resta immutato, anzi, al massimo è stato triplicato.
Con tutto che questo non è nemmeno uno dei miei titoli Disney del cuore e nel corso degli anni, dopo quel torcicollo l’ho visto meno volte di quello che si potrebbe sembrare (anche se lo si impara a memoria molto presto), ancora oggi il mio Re leone preferito è un altro, ma questo classico ha fatto la storia ed è marchiato a fuoco nella cultura popolare a tutti i livelli, era doveroso ricordarlo specialmente ora… Sawubona James Earl Jones.
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