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Il regno del pianeta delle scimmie (2024): scimmia vede, scimmia ripete

Una trilogia fa sempre pensare ad una storia conclusa, sarà per la classica struttura narrativa a tre atti, ma per molto pubblico quando si arriva alla fine di una trilogia, i giochi sono conclusi, chiudetevi la patta, tutti a casa. Guardate che casino è venuto fuori con un bel film come Toy Story 4, colpevole di essere il numero quattro.

Si sa che se un marchio risulta noto presso il grande pubblico, e se in passato ha macinato soldi, non resterà a lungo a prendere polvere in uno sgabuzzino, anche per non perdere i diritti di sfruttamento. Quindi la 20th Century Studios, che è più o meno dal 1968 che fa soldi con le SIMMIE, ha pensato bene di rilanciare una trilogia che dal 2011 con L’alba del pianeta delle scimmie, seguito da Apes Revolution e terminata con The War nel 2017, ha raccontato nuovamente l’ascesa di Cesare, protagonista del mio scimmia-titolo preferito ad ovest dell’originale del 1968.

Una trilogia universalmente ricordata come tutto sommato più intelligente della media, proprio come il suo protagonista Cesare, anche se a ben guardarli questi tre film, avevano le loro piccole e grandi magagne a livello di trama, ma va detto che sì, in generale, specialmente grazie al buon occhio del regista Matt Reeves (subentrato dal secondo capitolo in poi) e alla sua propensione a beh, scimmiottare il cinema del passato, questa trilogia si è guadagnata una reputazione tutto sommato meritata, anche se mi tocca fare la scimmia pestifere e iniziare a lanciare bucce di banana in giro.

«Cassidy è un tipo molto bizzarro di scimmia»

Ogni capitolo della saga classica de “Il pianeta delle scimmie”, ad esclusione del modesto e bruttarello Anno 2670, sapeva utilizzare la fantascienza e il racconto originale di Pierre Boulle del 1963, declinandolo in un METAFORONE riuscito dei suoi tempi. Terrore per il nucleare, razzismo e diffidenza nei confronti del diverso, sono tutti elementi che caratterizzano la saga originale, oltre a dei trucchi prostetici ancora incredibili, che facevano degli scimmieschi protagonisti sensate e credibili versioni evolute dei quadrumani tanto amati da questa Bara.

Nella nuova trilogia l’elemento metaforico è stato gettato fuori dalla finestra, in favore di intrattenimento più dritto e delle SIMMIE in CGI, meravigliose grazie alla Weta e alla prova di Andy Serkis, ma posticce. Quello che la nuova trilogia chiedeva al pubblico era di “credere” al fatto che quelle creature in CGI fossero in tutto e per tutto delle scimmie, solo così intelligenti da saper parlare, lo so, questa è una mia vecchia crociata da Scimmiologo DOC, non mi sto certo lamentando per l’incredibile lavoro fatto dalla Weta, ma sono quello delle lunghe premesse e questa mi serve per inquadrare anche il nuovo “Il regno del pianeta delle scimmie” che udite udite! Ha una traduzione italiana sensata del titolo originale “Kingdom of the Planet of the Apes”, per le abitudini di questa saga, non è affatto poco credetemi.

«La Bara Volante uhm, vedo tante parole, lunghe premesse per essere un feretro»

Alla regia questa volta troviamo una specialista di blockbuster come Wes Ball, quello di – pensate un po’ – una trilogia, quella di “Maze Runner”, un regista con le palle il nostro Ball (… lo sapevate che questa caSSata era nell’aria, non fate finta di non conoscermi) a cui è già stato affidato il prossimo film su “Zelda”, storico videogioco a cui non ho mai giocato, ma che anche io so che parla di un tale di nome Link che va in giro a cercare di salvare la principessa Zelda, come riassunto in questo pezzo NON cantata dai System of a Down, malgrado la leggenda urbana di Infernet.

Lo so, siamo ancora nella “coda strumentale” della mia infinita premessa ma sto per arrivare al punto, scritto da Josh Friedman, questo “Kingdom of the Planet of the Apes”, decide di proseguire sulla via dell’intelligenza e si apre con un prologo in cui le SIMMIE rendono onore al loro grande capo. Il funerale del vecchio Cesare sembra stare lì ad evitare “L’effetto Toy Story 4” e a voler dire: «Quella trilogia è FINITA, si passa ad altro». Ma è un passaggio morbido, un accompagnamento mano nella mano, perché il balzo in avanti di un tempo non ben precisato – ma siamo attorno ai trecento anni – permette a “Il regno del pianeta delle scimmie” di rilanciarsi.

Lui, ve lo dico subito, è il mio preferito del film.

Vidi il fiume Congo scavare con la testa e una lingua d’oro tagliare la foresta, ma vidi anche alcuni scimpanzè in CGI (non tornerò più sulla questione, vi ho tediati abbastanza) zompettare nelle foresta, nel primo accampamento fondato da Cesare, la giovane SIMMIA di nome Noa (Owen Teague) se la spassa con i suoi, tra un salto da un ramo e… Un film di Spike Lee? Vabbè quella roba lì. La loro vita prosegue placida, sono una comunità specializzata nell’allevamento di pennuti, li addestrano, vivono in armonia con loro, tenendosi ben distanti dagli umani, regrediti allo stato animale, bestie da gestire come branchi di animali selvaggi, in una scena che strizza volutamente l’occhio al film del 1968, per tentate di fare un po’ da ponte tra originale, reboot e nuovo rilancio.

I casini inizieranno con l’arrivo dello scimmione Bonono, che invece di fare quello che i Bonobo fanno da mattina a sera, è un bastardo represso e quindi fascistoide, Proximus Caesar si è autoincoronato (letteralmente, ha la corona) nuovo Cesare, sfruttando il fatto che molte scimmie quello vero di Cesare, lo conoscono solo per fama, mi fa molto piacere notare che ultimamente Kevin Durand, che qui doppia il cattivone di turno offrendone anche le movenze grazie ai sensori per il MOCAP, sia tornato a spuntare nei film, sarà ospite su questa Bara anche lunedì prossimo, ma qui è il primo a godersi un ruolo da cattivo canonico, ma tutto sommato efficace.

Regno? Scimmie? La corona non poteva mancare.

Ecco, canonico è l’aggettivo più indicato per questo “Il regno del pianeta delle scimmie”, perché la brava di potere di Proximus Caesar (che vince anche il premio “Cattivo con nome più didascalico del 2024″) porterà lo scompiglio nell’allegro villaggio di Noa, in una scena drammatica piena di fuoco e fiamme, costringendo la giovane SIMMIA a montare a cavallo ed iniziare un viaggio tra le rovine della Terra, per salvare i suoi amici villeggianti portati via in catene dal cattivone. Insomma si chiama Noa, ma fa quello che farà anche Link nel prossimo film di Wes Ball, vedete che le mie premesse hanno un senso? Sono lunghe lo so, ma per una ragione.

“Kingdom of the Planet of the Apes” è un buon film che non inventa una mazza, si gioca benissimo le sue carte ma ogni volta, si affida alla soluzione di trama più didascalica e canonica possibile, forse proprio per essere sicuro di non sbagliare nulla. La parte migliore del film? Ancora una volta la sua estetica, per fortuna non c’è mai noia a vedere Noa (ah-ah) cavalcare tra i resti di un mondo che a noi è familiare e ai suoi occhi, sembrano le rovine di un mondo antico, una trovata perfettamente in linea con il canone della saga, dal 1968 ad oggi.

Wes Ball opta per campi larghi, inquadrature panoramiche e sostenuto dalla fotografia curata da Gyula Pados e gli effetti speciali della Weta che continuano a migliorare, ci regalano un film dove per interi minuti, non si vede un umano nemmeno per sbaglio, la prima a spuntare è Mae (Freya Allan) che ha un po’ il compito di fare la Charlton Heston al contrario, replicando a parti inverse lo stupore del sentire uno di quegli stupidi umani parlare, ma senza la mitica «You damn dirty Ape!»

Gli altri zozzi e in perizoma, lei pettinatissima. Nemmeno un po’ sospetta.

Tutto molto classico, tutto molto canonico, così come l’apparizione del grande attore nel piccolo ruolo, che sembra non poter mancare, almeno in base alle regole imposte dalla nuova trilogia, qui tocca a William H. Macy impegnato nel ruolo di “La spalla comica”. Sul serio, il nostro ha tre righe di dialogo, forse meno e una di queste sostanzialmente si riassume in «Ciao sono la spalla comica» e sì, siamo entrati in zona difetti del film.

“Kingdom of the Planet of the Apes” funziona così bene quando ci porta a zonzo in questo mondo in rovina, con i suoi dialoghi tra scimmie che parlano con altre scimmie, per la gioia dello Scimmiologo DOC in me. Quando poi la trama pretende il momento spaccatutto, che ogni Blockbuster deve avere, anche la CGI sembra appiattirsi su generiche scene di massa dove qui la Weta mostra un po’ più il fianco così come l’evoluzione di Noa, che prende l’uccello in mano. No aspettate, questa va spiegata meglio.

Come facciamo a capire che Noa è finalmente pronto a diventare l’eroe della sua storia? Ci infiliamo un’epica sequenza sulle note composte da John Paesano (che tutti salutano dicendogli «We Paesano!» oggi sono caldo) in cui un’aquila in modo trionfale va ad appollaiarsi sull’avambraccio del nostro scimmiesco eroe pronto alla riscossa. Non un falco, non un gufo, non una civetta, un cormorano, un pellicano o il passerotto di Alessandro Del Piero, ma ovviamente il più americano dei pennuti americani, l’aquila. Vabbè!

Noa lo ha grosso e sa usarlo. Si l’uccello e allora?

Da qui tutto prosegue come da canone, può non esserci lo scontro con il cattivo? Giammai! Infatti qui è veramente una lotta tra maschietti alfa, che si prendono a colpi di uccello… No, ok, lo so che suona un po’ compromettente, ma è davvero quello che succede, siamo in zona METAFORONE scritto con il pennarello a punta grossa (che mi rendo conto solo ora essere a sua volta una metafora vagamente fallica) però è il classico duello tra il buono, la scimmia positiva e il cattivo, ovvero l’esempio negativo di SIMMIA avida di potere, che si risolve anche questo affidandosi al canone, una delle regole che mi auguro in tutti questi anni di Bara Volante abbiate imparato a riconoscere al cinema: come si punisce il cattivo per i suoi misfatti? Con lo stile Nakatomi Plaza.

Quale altro elemento ha reso canonicamente celebre la saga delle SIMMIE? Il colpo di scena finale, qui non siamo nemmeno lontanamente vicini al finale glorioso del film del 1968, diciamo che è una svolta che serve a garantire almeno altri due capitoli a questa – già annunciata – nuova trilogia, che sfrutta quanto di buono fatto tra il 2011 e il 2017 e si guarda bene dal fare metafora dei (brutti) tempi moderni, al massimo se ne gioca una piuttosto bruttina sugli uccelli. Pennuti Cass! Inizia ad usare l’espressione pennuti ogni tanto!

Tutto sommato “Il regno del pianeta delle scimmie” è esteticamente un bello spettacolo, ma risulta un po’ un compitino, riuscito, più che sufficiente, ma che se la gioca sul sicuro in tutto e per tutto, insomma è quello che noi Scimmiologi DOC chiamano: scimmia vede, scimmia ripete. Per tutto il resto e i confronti diretti, vi ricordo lo speciale dedicato alle SIMMIE di questa Bara.

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