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Il serpente e l’arcobaleno (1988): vivere e morire ad Haiti

Nella tradizione Voodoo, il serpente rappresenta la terra mentre l’arcobaleno il paradiso, tra questi due elementi ogni creatura vive e muore. Ma poiché l’uomo ha un’anima, potrebbe ritrovarsi intrappolato in un posto terribile, dove la morte è solo l’inizio. Con questo inizio da Baron Samedi vi do il bentornato a… Craven Road!

Sono profondamente convinto che l’horror sia non solo il genere più creativo di tutti, ma anche quello più portato a diventare metafora del mondo che lo circonda, era vero oggi come nel 1988 un anno incredibile in cui il genere ha sfoggiato tutti insieme ben quattro maestri in grande spolvero.

Romero con Monkey Shine ha saputo raccontare come l’orrore potesse essere vicino a noi e arrivare anche da chi normalmente consideriamo innocuo. Carpenter con Essi Vivono ha attaccato con satirica ferocia l’inquilino della Casa Bianca in carica e la sua politica, mentre Cronenberg, sempre propenso a scavare, ha reso le sue mutazioni interiori, quindi ancora più drammatiche con Inseparabili.

A completare questa perfetta tetralogia di maestri poteva mancare quello arrivato da Cleveland? Proprio no, infatti Wes Craven dopo il film di culto su commissione, dalla produzione estremamente travagliata Dovevi essere morta e un bel po’ di lavoro per rilanciare la serie tv Ai confini della realtà (tra il 1985 e il 1986), si è unito alla compagine sfornando uno dei suoi film più riusciti, perché un Wes Craven concentrato e motivato il più delle volte è in grado di sfornare Classidy come questo.

“The Serpent and the Rainbow” è liberamente tratto dal romanzo d’inchiesta omonimo scritto da Wade Davis, ma è un capolavoro di equilibrio. Un film che per tutta la sua durata resta in bilico tra vita e morte, tra libertà e dittatura, tra narrazione quasi documentaristica e il non negare mai la sua natura di film dell’orrore, un film che potrebbe costantemente sbagliare di poco il tono risultando fallimentare che, invece, azzecca davvero quasi tutto iscrivendosi tra i film migliori del regista di Cleveland, anche se alla sua uscita fu considerato poco più che un generico film di zombie. Parliamo della trama e poi scendiamo nei dettagli.

Anche se tratto da un libro, Craven con questo film ha trovato il modo di firmare uno dei film più “Craveniani” di sempre raccontando la storia di Dennis Alan (un Bill Pullman fresco della sua luna di miele con la principessa Vespa), un giovane ricercatore scientifico americano, sopravvissuto ad un lisergico viaggio in Amazzonia e per questo considerato perfetto dalla multinazionale che gli paga lo stipendio, per svelare i segreti della misteriosa “droga degli zombie”, una polvere preparata dagli sciamani Voodoo di Haiti che sembra avere il potere di far risorgere i morti.

Da Stella Solitaria a croce solitaria, il passo è breve.

Con una polvere così la compagnia potrebbe fare soldi a palate nel mercato delle anestesie ospedaliere, ad attirare la loro attenzione è stata la “resurrezione”  (vista con enorme scetticismo anche dal protagonista), di Cristophe (Conrad Roberts) trasformato in zombi dallo stregone Dargent Peytraud (un diabolico Zakes Mokae) e ritrovato a vagare tempo dopo, vivo e senza memoria, malgrado fosse stato regolarmente sepolto e dichiarato defunto nella prima, angosciosa scena del film, quella con cui Craven ci ricorda a tutti perché i racconti di Edgar Allan Poe con i suoi personaggi sepolti vivi, fossero così spaventosi.

«Mi avevano detto che questa era una bara volante ma così è grottesco!»

Dennis è l’americano scaltro e scettico che ad Haiti troverà una sorta di girone infernale, in cui a guidarlo sarà la dottoressa Marielle Duchamp (Cathy Tyson), anche lei una donna di scienza, ma ben più propensa a credere al folclore locale, infatti la vedremo ballare come “posseduta” in una delle scene del film. Ma per Dennis il viaggio ad Haiti sarà qualcosa che lo cambierà per sempre, altro che quelli che vanno in India a ritrovare loro stessi!

Il cinema di Wes Craven è sempre stato teso tra le pulsioni colte del professore laureato in filosofia e psicologia e da quelle basse del maestro dell’orrore capace di portare in scena forse meglio di tutti gli incubi. Spunti di cultura e riflessione “alti” e pulsioni di macelleria, serpenti, sepolture premature e ritorno dalla morte decisamente più “basse”, in questo film sono perfettamente in equilibrio. Il risultato è un film di zombie fortemente politico che, però, è riuscito a smarcarsi dal modello creato da Romero che ancora oggi è quello più citato e utilizzato.

Pensare che i titoli di testa del film sono anche allegrotti, sembra “Operazione vacanze: Haiti”.

Scegliere di ambientare questa storia nella Haiti dell’anno 1985 è una presa di posizione politica chiara per il maestro di Cleveland, perché vuol dire andare a giocare a casa del dittatore Jean-Claude Duvalier, figlio del famigerato “Papa Doc” François che governa il Paese con pugno di ferro dal 1971 fino alla rivolta popolare del 1986. Il regime di Duvalier funzionava grazie alla temuta “Tonton Macoutes”, la polizia militare segreta, un po’ poliziotti e un po’ stregoni, capaci di tenere a bada la popolazione con metodi repressivi e con il culto del Voodoo che in un Paese come viene descritto del film «80% cattolico e 110% Voodoo» come Haiti, ha una valenza culturale sconfinata sulla popolazione.

«Signora mia, qui una volta era tutto Voodoo»

Ma, come dicevo, “The Serpent and the Rainbow” è una prova da gran equilibrista per Craven che affronta l’argomento senza la pretesa di raccontare una rigorosa descrizione storica, ma ricordandosi sempre di essere un grande regista horror, infatti nel suo film il personaggio immaginario di Peytraud è quello che Craven utilizza per raccontare così bene il terrore militare, instaurato in un Paese tenuto in scacco dai precetti religiosi, in cui i nemici politici venivano messi a tacere con la prigionia, la tortura e ancora peggio, trasformandoli in zombie, ufficialmente morti per il mondo.

«…Sangue teschi e insetti, Wes Craven» (Cit.)

In perfetto equilibrio tra documentario e film di genere, Craven firma un film politico con i morti viventi, riportando la figura dello zombie alle sue origini, quelle, appunto, legate ai rituali Voodoo da cui Romero aveva preso le distante. “Il serpente e l’arcobaleno” gioca nello stesso campo da gioco di capisaldi del genere come “White zombie” (1932), Zombi 2 di Lucio Fulci e se vogliamo anche ad alcune delle atmosfere di “Ho camminato con uno zombi” (1943) di Jacques Tourneur. L’Haiti di Craven è realistica, appiccicaticcia e decadente come potremmo vederla raccontata in un documentario, ma senza rinunciare al suo folclore, quello che permette a zio Wessy di scatenarsi con visioni allucinatorie che sono zampate (da giaguaro per stare in tema con il film) horror al 110%.

«Si sente bene signore?», «Per essere un morto vivente, sto una crema, grazie»

Bilanciando alla perfezione stili e generi cinematografici agli antipodi, nello scarto tra il realismo da documentario e l’assoluta fantasia degli horror, proprio in quel solco Craven fa muovere la sua storia, conciliando e mescolando gli opposti, realtà e incubi, scienza e magia nera, sono parte di un racconto in cui la libertà e la dittatura sono raccontate come normalmente in un horror ci vengono raccontati vita e morte. Anzi, da grande narratore degli incubi al cinema, Craven ci dice chiaramente che la dittatura potrebbe essere peggiore dell’essere sepolti vivi, perché di fatto è un costante stato di non libertà, di non vita, che costringe a vagare in eterno come zombie.

Chiaro che in tutto questo ci sia una spinta iconoclasta, se non proprio anarcoide che, ammettiamolo, a Craven non è mai mancata. I suoi zombie magari possono risultare spaventosi quando entrano in scena, ma di fatto sono solo dei poveri diavoli che non cercano certo di divorare il cervello e le carni a nessuno, al massimo invocano a loro modo l’aiuto del protagonista e in qualche caso, intervengono anche per aiutarlo, non è un caso se l’apice del film (che va in crescendo come le musiche e i tamburi di Brad Fiedel) si raggiunga durante la rivolta finale di Haiti e i suoi abitanti che scorre sullo sfondo dello scontro tra Dennis e Peytraud.

Craven laureato in psicologia, di certo conosceva il lavoro di Sigmund Freud (ma se n’è sempre fregato)

Ecco, se proprio dovessi trovare un difetto a “Il serpente e l’arcobaleno” punterei il dito sullo scontro finale tra i due personaggi, alla pari di Benedizione mortale che teneva in sospeso l’elemento sovrannaturale fino all’ultima scena (imposta dai produttori), qui Craven nel finale si gioca lo spirito guida del giaguaro e lo scontro onirico con Peytraud che diventa una sorta di Freddy Kruger haitiano da esorcizzare. Ma se devo dirla tutta, è un problema minore, Craven ha voluto nel finale alzare un po’ il volume della radio, in un film che per la maggior parte della sua durata riesce ad essere estremamente serio (la scena della tortura del protagonista… GULP!) e decisamente lugubre nel suo incedere lento e costante, proprio come uno zombie.

Zio Wessy? Posso andare a letto senza cena?

La tradizione della sepoltura prematura è un archetipo horror fin dai racconti di Poe, ma qui Craven s’infila nel solco (o nel sepolcro?) portando nuova linfa a questa paura ancestrale. Ricordate il salvataggio all’ultimo secondo di Catriona MacColl nel Fulciano “Paura nella città dei morti viventi” (1980)? Ecco, qui zio Wessy rilancia e si conferma maestro nel portare sul grande schermo, le paure e gli incubi dell’umanità, una laurea in psicologia torna utile in questo senso.

La prima scena con quella lacrima solitaria di Cristophe sepolto vivo, l’angosciante e coreografica scena dell’incubo di Dennis, la cui camera da letto si trasforma di colpo in una soffocante bara che invece di volare, comincia a riempirsi di sangue tra le urla del protagonista, in quella che potrebbe essere a mani basse, la mia scena da incubo preferita, di un regista che di incubi al cinema ne ha regalati tanti.

Ma la bellezza di “Il serpente e l’arcobaleno” è il suo modo sublime di far scivolare lo scettico protagonista (e noi spettatori insieme a lui) in una realtà dove vita e morte si confondono, dove la sudditanza di chi subisce una dittatura, viene equiparata all’essere trasformati in zombi da sacerdoti Voodoo e proprio per questo una volta dall’altra parte, i morti cominciano a fare meno paura dei vivi.

Wes Craven, il preferito dell’AVIS.

Le apparizioni dei morti viventi sono dirette da Craven come delle aggressioni alle coronarie del pubblico e alle credenze scientifiche del suo protagonista. Zio Wessy utilizza tutte le armi a disposizione fornite dal genere horror, “spose cadavere” che Tim Burton può solo sognarsi, i soliti serpenti freudiani che nel cinema di Craven non mancano mai, ma anche mangiare la zuppa (condita, anzi, con dita) dopo “The Serpent and the Rainbow” non è mai più stato lo stesso.

Ma ad un certo punto, come spettatori siamo così calati nella storia e nel suo contesto politico, che persino gli zombie cominciano a fare meno paura. Quando Dennis attraversa le prigioni e si trova costretto ad evitare le braccia (assurdamente lunghe, come le geometrie impossibili degli incubi) dei non morti chiusi nelle celle, sembrano più mani tese a chiedere aiuto che spaventose apparizioni come nella prima scena di Il giorno degli zombi di Romero.

Secondo classificato nella categoria “Braccia zombie che escono dalle pareti”

Non è un caso se il momento chiave del cambiamento del protagonista, avvenga dopo la terrificante scena di tortura subita, uno di quei momenti in cui Craven sfoggia tutta la sua classe, perché di fatto non si vede davvero nulla di spaventoso, ma al maestro di Cleveland basta suggerire per terrorizzare e raccontare l’orrore vero, quello di una dittatura senza scrupoli. Le mani portare all’inguine da parte del pubblico maschile davanti a questa scena, sono l’effetto collaterale, tranquilli.

“Il serpente e l’arcobaleno” è un film di opposti fin dal titolo e Wes Craven il più bipolare (artisticamente parlando) di tutti i maestri dell’Horror, colto, ma pronto a fare il fattorino sottopagato pur di lavorare nel cinema, spinto verso il cinema alto, ma talento naturale nel raccontare gli incubi al cinema. Forse proprio per questo solo lui poteva bilanciare così bene gli opposti, vita e morte, libertà e dittatura, film politico e film horror, scienza e magia e sfornare un film così unico e riuscito, probabilmente il suo apice creativo.

Ma, per fortuna, Craven Road è una via ancora molto molto lunga, piena di altro loschi e sinistri figuri con cui fare i conti, il prossimo arriverà tra sette giorni e sarà un incontro… Scioccante! Intanto non perdetevi la locandina d’epoca di questo film, direttamente dalla pagine di IPMP.

Sepolto in precedenza venerdì 12 giugno 2020

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