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Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re (2003): …e nel buio incatenarli

Al fin giungemmo, o per lo meno, all’ultimo post dedicato alla trilogia Jacksoniana, l’ultimo dei tre film girati in successione uno dopo l’altro, una maratona di super lavoro per il regista neozelandese che è decisamente valsa, l’attesa, la fatica e il duro lavoro.

Buona parte delle riprese de “Il ritorno del Re” sono state girate nel 2001 e terminate agli inizi del 2002, più tempo per la lunga post-produzione, durata la bellezza di due anni fino al novembre del 2003, un mese prima dell’uscita in sala di questo tanto atteso ultimo capitolo.

Se il prologo de La compagnia dell’Anello serviva per introdurre il pubblico al mondo della Terra di Mezzo, per quanto mi riguarda quello di “Il ritorno del Re” è senza ombra di dubbio il mio preferito, perché sarà anche vero che l’oscuro signore Sauron, è il Signore del titolo, ma non esiste personaggio che quell’Anello lo ha desiderato più di Gollum, che per parafrasare le parole del primo film (o libro) ha ancora un compito in questa storia, la pena provata da Bilbo ha davvero deciso del destino di tutti.

Intanto, completiamo la trilogia del cameo di Pietro Di Giacomo, qui in versione fetido pirata.

Infatti Pietro Di Giacomo lo sa benissimo è proprio sui dualismi del personaggio e quel senso di pena che sa provocare, affida l’inizio del capitolo finale, la trasformazione di Sméagol in Gollum è sofferta e dolorosa («… E abbiamo pianto tessssoro, perché eravamo tanto soli»), se i primi cinque minuti di un film ne determinano tutto l’andamento, in questi ci sono già tutti i sentimenti che proveremo nel corso di “Il ritorno del Re” per il povero povero Sméagol, traditore, bugiardo, seminatore di zizzania e variabile impazzita in grado di far saltare il banco, perché Tolkien era un dritto e ancora oggi i suoi personaggi fanno scuola per tutti i grandi scrittori, come Stephen King che su Gollum ha modellato Quello delle pattumiere del suo L’ombra dello scorpione, anzi, diciamo pure che tutto quel libro nemmeno esisterebbe senza Tolkien. Per altro non so voi, ma ho sempre trovato piuttosto geniale dal punto di vista visivo il fatto che i due portatori dell’Anello, Frodo e Gollum, avessero quasi gli stessi occhioni, quelli al naturale di Elijah Wood e quelli in CGI di Gollum, come se fossero uno la versione consumata dell’altro, un “memento mori” costante per l’affranto Hobbit.

Behind blue eyes (cit.)

Affrontiamo subito un tema importante de “Il ritorno del Re”: la sua durata. Con una mezz’ora aggiuntiva rispetto ai suoi due fratellini, questo terzo capitolo è il film più lungo della trilogia fin dalla sua prima versione cinematografica da 200 minuti, lievitati a 252 in quella estesa del DVD e 263 nel Blu-ray.

Siccome mi sono già espresso sull’affare Tom Bombadil (e i Tolkeniani duri e puri… MUTI!), bisogna dire che “Il ritorno del Re” è il capitolo che subisce più drastici tagli nel passaggio da carta a grande schermo, questo ai Tolkeniani posso concederlo. Per ovvie ragioni di tempo, Jackson sforbicia tutto il ritorno a casa con (brutta) sorpresa degli Hobbit, che da solo avrebbe richiesto almeno altre due ore di film, ma facendo di necessità virtù, i grandi sacrificati restano purtroppo lo stregone Saruman e il suo fidato servo Giuda Grima Vermilinguo, che nella versione cinematografica da 200 minuti nemmeno compaiono. Barbalbero ci informa che sono al sicuro chiusi dentro la torre di Isengard, messi a cuccia con una buona dose di mazzate e schiaffoni, rendendo così il ritrovamento del Palantir da parte di Pipino “faccio casino” (Billy Boyd) del tutto casuale, toh un Palantir che bello, possiamo teneeeeerlo??

Considerando i trascorsi di Christopher Lee, io avrei optato per un paletto nel cuore.

Qui Pietro Di Giacomo e le fidate Fran Walsh e Philippa Boyens, hanno dovuto lavorare di fantasia, inventandosi una fine tutta nuova per Saruman e Grima che è possibile vedere in maniera decente solo nella versione estesa del film. Ci tengo a sottolineare questo dettaglio per un motivo del tutto personale, penso che il film possa essere visto, seguito, capito e apprezzato anche senza vedere la fine dell’arco narrativo dello stregone, ma siccome l’aneddoto che sta dietro è uno dei più belli della storia del cinema, ve lo devo raccontare per forza: Peter Jackson intento a spiegare a Christopher Lee come recitare al meglio la scena della pugnalata, si è visto fulminato da uno sguardo d’odio dal celebre Dracula della Hammer, che reduce di ben due guerre (in cui si era arruolato volontariamente) ha zittito Jackson dicendogli: «Tu sai che rumore fa un uomo quando viene accoltellato alle spalle? No? Io sì» (storia vera). Pare che da allora Jackson dorma chiudendo a chiave la porta della camera. Due volte.

Se Le due torri aveva introdotto i signori dei cavalli di Rohan (sono tutti dei gran signori nella Terra di Mezzo), “Il ritorno del Re” ci porta a Gondor, nel bellissimo modellino in scala della città di Minas Tirith, governata dal sovrintendente Denethor (uno straordinario John Noble). Quindi se per caso vi foste chiesto dov’era Gondor (e sono sicuro che lo avete fatto…) la risposta è semplice: stava qui.

Dov’era Gondor? Dov’era Gondor? Ma metti il navigatore no!

Il personaggio interpretato da John Noble rappresenta la cecità dei burocrati davanti a tutto, anche al fatto compiuto, un personaggio che quasi da solo, porta il dramma del film a livelli quasi Shakespeariano. Il suo attaccamento ad un ruolo che non è palesemente in grado di sostenere, lo rende perfetta metafora del potere (che poi è uno dei temi chiave de “Il signore degli Anelli”), infatti per tenere testa ad uno così ci vogliono momenti pieni di pathos, come la trascinante frase di Gandalf (Sir Ian McKellen) la mitica «Non ti è concessa l’autorità per negare il ritorno del Re, Sovrintendente», anche questa sono sicuro che l’avete declinata in ogni modo possibile durante i dialoghi delle vostre giornate, ne sono certo.

Anche se la parte che preferiscono restano i BASTUNAZZI!

Denethor poi ci permette di esplorare un po’ i trascorsi del bistrattato Faramir (David Wenham), il personaggio che ci ricorda quando sia inutile tentare di compiacere un genitore assente, l’inutile carica di Faramir sulle note del pezzo cantato da Pipino “canto un pezzettino” (per altro canzone tutta tradotta e adattata in italiano nel doppiaggio, roba che oggi sarebbe un lusso) è uno dei tanti momenti carichi di enfasi di un film che mette a dura prova chiunque abbia la lacrima facile.

Visto che il fosso di Helm ci ha resi tutti dipendenti dall’idea di una bella battaglia, che salverà tutti riportando la pace (esportatori di democrazia nella Terra di Mezzo) e che più in generale, dopo la trilogia de “Il signore degli Anelli”, tutti i film hanno deciso che senza una mega battaglia sei un Paperino (e un Peregrino Tuc), proprio “Il ritorno del Re” non può essere da meno. L’arruolamento delle forze sul campo mi affascina sempre, Peter Jackson non ci permette di dimenticarci che la sua palestra come autore è stato il cinema Horror, grazie alla presenza nel film dell’esercito degli spettri, i primi a costringere Aragorn (Viggo Mortensen) ad accettare il suo destino da testa coronata. Per altro quella specie di mutante forza 5 di Mortensen, uno che ha un cervello tale da permettergli di conoscere e parlare più lingue di un vocabolario, uno che ha conquistato la moglie scrivendo poesie sì, ma che conservava dentro il frigorifero (storia vera) è anche quello che non solo girava sul set sempre con la spada legata al fianco anche a mensa, ma ha preteso di portarsi a casa il cavallo che ha cavalcato nel film, che per anni è stato a pascolare nella casa della famiglia Mortensen (storia vera).

Viggo da zero a Re, la superstar di Hollywood che trova la poesia anche in un frigo (letteralmente!)

Ma forse il momento in cui davvero Jackson rende onore ai suoi trascorsi di regista Horror e alle origini stesse della letteratura Tolkeniana (piena di ragni, tentativo paterno da parte dello scrittore di far superare al figlio la sua aracnofobia, storia vera) è grazie a Shelob, l’enorme ragno che imbozzola Frodo (Elijah Wood) caduto vittima della trappola di Gollum, in una scena che sta a metà tra IT (ve l’ho già detto che King ha pescato parecchio da Tolkien no?) e Gremlins 2, che ogni volta mi esalta. Pare che per l’aspetto finale di Shelob, Jackson abbia dato indicazioni precise basate sui suoi ricordi, già perché che nello scantinato dove da ragazzino PJ costruiva modellini e costumi da scimmia (con cui terrorizzare i passanti, storia vera), ci fosse un enorme ragno neozelandese grosso più di un pugno, a supervisionare ogni attività del futuro regista sotto i suoi otto occhi, un bestione pieno di zampe che Jackson ha voluto in qualche modo omaggiare in questo film, perché tutto possiamo dire, ma non che “Il signore degli Anelli” per il regista, non sia stato una vera crociata in cui mettere dentro tutto, il suo cinema ma anche parti della sua vita.

«Scendo un attimo in cantina, il tempo di fare testamento»

La parte di “Il ritorno del Re” che preferisco è quel suo drammaticissimo secondo atto, in cui sembra andare tutto storto per gli eroi della storia, Frodo si lascia abbindolar da Gollum e caccia via Sam, che in questa porzione di film si chiama così perché “Semagnato” tutto il Pan di vie degli elfi. Ed è anche difficile dare torno a Padron Frodo, visto che Sean Astin seguendo il suo piano per calarsi nei rubicondi panni di Samvise, è l’unico attore del cast che ingrassa nel corso dei tre film malgrado i patimenti subiti dal suo personaggio. Ma se ne facciamo una questione di nomi, l’arco narrativo del mio Hobbit preferito si completa quando diventa “Samvise l’impavido”, salvando Frodo («Questo è per Frodo! Questo è per la Contea! E questo è per il mio vecchio gaffiere!») per poi caricarselo sulle spalle, letteralmente!

Sapete quanti amici sbronzi ho riportato a casa così? Poi chiedetevi perché Sam è il mio preferito.

Quello che invece trovo sia il momento invecchiato peggio di tutto “The Return of the King” è sicuramente la battagliona, quella con gli Olifanti che sta a metà tra l’epica di Annibale e la battaglia di Endor. Nella scena in cui Éowyn (Miranda Otto) cavalca tra le zampe degli enormi animali e Legolas (Orlando Bloom) fa il tamarro in equilibrio sulla loro proboscide («Comunque vale per uno!»), la CGI dimostra tutte le rughe dei suoi anni, tutte quelle che nei tre film precedenti e con un personaggio come Gollum, interamente realizzato in post produzione, non erano mai stati un problema.

Elfi, gente che va in giro con la Punto GT gialla e la musica da discoteca a palla.

Anche perché Jackson ha realizzato questa trilogia con un sapiente utilizzo di modellini e vere prove da attore come quella di Andy Serkis, ma forse in quella scena in particolare ha cercato di utilizzare la CGI nel modo più sbagliato, ovvero come sostituta della realtà, che poi è il motivo per cui la successiva trilogia di Lo Hobbit è un buco nell’acqua. Il cinema sarà pure tutto finto, ma quante più soluzioni reali e tangibili, per i tuoi tecnici e attori sul set porti in scena, più il risultato finale risulterà efficace per il pubblico e in grado di reggere alla prova di Padre Tempo, che poi è sempre il critico più severo. Per fortuna “Il ritorno del Re” è la degna conclusione di una trilogia basata su personaggi ben scritti e ben recitati, proprio per questo destinata a scaldare cuori e fare scuola per ancora molti anni, Classido l’ho già detto? Beh dai a questo punto mi sembrava quasi ovvio.

“Il ritorno del Re” è pieno di momenti epici, da quella che io chiamo “Regola Jurassic Park” per cui un paradigma può essere smontato semplicemente cambiando il genere, come fa Éowyn togliendosi l’elmo e dicendo «Io non sono un uomo!», fino all’invocazione di Théoden (Bernard Hill) che ogni volta che apre bocca regala manciate di epica a buttar via: «Lance saranno scosse, scudi saranno frantumati, un giorno di spade, un giorno rosso prima che sorga il sole! Cavalcate ora, cavalcate ora, cavalcate per la rovina e per la fine del mondo!»

La “Regola Jurassic Park” applicata e approvata da Laura Dern.

Anche se è inutile girarci attorno, in questa epica da battaglia, in cui tutti i personaggi sono chiamati a dare il massimo e tutti gli spettatori a cercare di contenere l’attività dei dotti lacrimali, Aragorn ci insegna l’importanza di trovare le parole giuste nel momento chiave, il suo «Per Frodo» è marchiato a fuoco nell’immaginario collettivo, un Meme quando nel 2003 non sapevamo nemmeno cosa fosse, roba in grado di convincere chiunque a correre a rallentatore verso il nemico mimando un urlo, fino all’ultimo degli spettatori seduto sulle poltroncine in fondo della sala.

Quante volte vi siete gettati sull’ultima birra o sull’ultimo carrello libero al supermercato così? Solo io lo faccio?

In tutta questa abbondanza di scene madri in cui abbiamo l’imbarazzo della scelta, quella che deve essere LA scena madre del film, non può certo essere da meno, infatti non lo è, ricordo in sala con i miei amici, molti dei quali corsero a leggersi il libro per attenuare i morsi dell’attesa tra un capitolo e l’altro, è mancato solo che facessimo la òla in sala al cinema, ma eravamo in ottima compagnia perché sul finale di questo film, un buon 80% delle persone presenti si sono alzate in piedi ad applaudire, convincendo anche tutti gli altri a fare lo stesso (storia vera). L’unica altra occasione nella mia vita di cinefilo, fuori dal contesto di un film festival (che vale come ecosistema chiuso con regole tutte sue) in cui è successo qualcosa del genere è stato, per buona pace di Martin Scorsese, con Avengers – Endgame, perché alla fine certe storie e certi personaggi appartengono al popolo, zio Martino ti voglio tanto bene però STACCE!

L’ultima scena vede vincere il maggiore desiderio, la brama di potere e possesso più grande in assoluto, e anche se Gollum e il suo tessssssoro sono riuniti per pochi secondi, ma per il personaggio è chiaro che ne sia valsa comunque la pena e ammettiamolo, anche per noi spettatori, ho visto spettacoli appena meno riusciti nella mia vita da appassionato di cinema.

Nella vita, trovate qualcuno che vi guardi come Gollum guarda l’Unico Anello.

Il problema-che-non-è-un-problema di “The Lord of the Rings – The Return of the King” è la proliferazione dei finali, quasi come se a Peter Jackson mancasse la volontà di staccare la spina di colpo dopo la scena madre, lasciando lui per primo – e noi spettatori con lui – la Terra di Mezzo poco alla volta salutando tutti i personaggi a cui ormai ci siamo affezionati. Se per Pietro Di Giacomo questo film è stato una crociata, un obbiettivo da perseguire per tutta una vita, anche gli attori coinvolti sono rimasti influenzati da questa esperienza, tutto il cast principale di attori, la compagnia dell’Anello, si è fatta tatuare lo stesso identico tatuaggio, la parola “nove” in lingua Elfica, tutti tranne John Rhys-Davies, lui di aghi non ha voluto sentir parlare («Nessuno può tatuare un nano!» quasi-cit.). In compenso il ruolo di nono membro della compagnia lo ha preso al suo posto sulla sedia del tatuatore, lo stesso Peter Jackson.

Bellissimo, però sai che palle per il tatuatore con sindrome da lavoro ripetitivo?

Tra i dodici o tredici finali prima dei titoli di coda de “Il ritorno del Re”, arrivano i saluti finali per Bilbo (Ian Holm) e per Frodo, ma anche la fine della storia di Sam che si getta su Rose per fugare le voci e le risatine su tutto quel “Bromance” fuori controllo con Padron Frodo, così ho detto la mia anche su questa chiacchierata faccenda. Insomma prima di sentire Annie Lennox cantare la sua “Into the west”, avrete più di un’occasione per commuovervi, vi conosco che credete! Anche perché parliamoci chiaro, questo è anche il compito di “Il ritorno del Re”, concludere alla grande, portando sul capo la corona e il compito di essere responsabile di tutta l’emotività accumulata per tre lunghi (lunghissimi!) ed emozionanti film. Non vi è concessa l’autorità per negare i brividi al pubblico nel finale.

La portata dell’impresa di Padron Frodo Jackson è stata tale che anche l’Accademy ha dovuto capitolare, gli incassi strabilianti al botteghino hanno di sicuro aiutato, ma “Il ritorno del Re” ha fatto filotto, vincendo tutte le statuette fatte a forma di zio Oscar possibili, ad esclusione di quelle dedicate agli attori, per un totale di 11 premi, le stesse conquistate in precedenza da Ben-Hur (1959) e da Titanic, con la sola differenza che “Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re” è stato il primo film Fantasy a trionfare in questo notevole primato.

«Il mio Tessssoro!» (dai questa cit. era facile)

A distanza di vent’anni dall’uscita del primo capitolo e diciotto dall’ultimo, la trilogia de “Il Signore degli Anelli” è diventata, oltre che una delle serie più amate dal pubblico, anche un modello di riferimento con cui ancora oggi il cinema fa i conti, per vent’anni Hollywood è andata alla ricerca di un nuovo Anello, una nuova saga Fantasy della stessa portata, eppure la grandezza ha spesso minuscole origini, ci voleva un Hobbit della Nuova Zelanda per riuscire in questa impresa. Come direbbero gli Elfi: signor Jackson, Hanta! Ed ora se avete bisogno di me, sono nella mia tana da Hobbit a leggere, bere birra e fumare erba pipa.

Sepolto in precedenza giovedì 16 settembre 2021

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