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Il Signore degli Anelli – La Compagnia dell’Anello (2001): un anello per domarli…

Quanto possono essere potenti le parole? John Ronald Reuel Tolkien lo sapevo, come professore di lingua e letteratura inglese ne ha corrette tante nei compiti dei suoi studenti e come romanziere, ne ha scritte anche di più, ma tutto è iniziato con una parola, scritta distrattamente e senza un vero senso, la parola “Hobbit” è quella che ha aperto un mondo al vecchio professore.

Nel tentativo di scoprire il significato di quella parola, scrisse un romanzo per bambini intitolato appunto “Lo Hobbit”, nato per essere proprio quello, una storia da raccontare ai figli prima di metterli a letto, questo spiega la presenza dei ragni del bosco Atro, un tentativo di far passare la paura ad uno dei pargoli, particolarmente aracnofobico (storia vera).

FERMI! Da qui in poi troverete solo Cassidy che blatera a ruota libera su Tolkien.

“Lo Hobbit” divenne un grande successo, tanto da spingere il professor Tolkien a mettere in fila tante altre parole, una dopo l’altra per continuare ad esplorare il mondo di personaggi creato attorno a Bilbo Baggins, l’Hobbit che voleva solo stare a casa sua (e voi vi lamentare per qualche settimana di “lockdown” tzè!), ma soprattutto la contorta creatura Gollum e quell’anello che compare nel capitolo “enigmi nell’oscurità”, quasi un dettaglio secondario che diventerà fondamentale nel tomo in tre parti “Il Signore degli Anelli”, uno di quei libri che sono patrimonio dell’umanità e che hanno influenzato pesantemente la cultura popolare.

Nel corso dei decenni e della storia umana, tutti hanno cercato di appropriarsi del potere del romanzo di Tolkien, a seconda dei punti di vista, ad ogni svolta della storia il nuovo dittatore in carica veniva paragonato a Sauron ma allo stesso modo, potete star pur certi che tra il fango di Woodstoock, sguazzavano parecchi Hobbit e forse era facile trovare anche qualche stregone, dedito all’uso dell’erba pipa degli umani e magari non solo quella.

«Nìche? Ma che cos’è, una parola indiana o che altro?» (cit.)

La cultura e la controcultura avrebbero fatto carte false per assicurarsi il potere delle parole del romanzo di Tolkien, che ha appassionati a tutte le latitudini del globo e da ragazzini si leggeva in vecchi volumi polverosi e illustrati, qualche volta ereditati da qualche genitore che aveva affrontato il viaggio verso il Monte Fato prima di noi. Tra gli appassionati di Tolkien anche quattro ragazzi abbastanza famosi di Liverpool, di nome John, Paul, Ringo e George, tutti appassionati di cinema tra le altre cosette e ben volenterosi di impersonare loro stessi i personaggi, in un film la cui regia venne proposta ad un giovane inglese promettente di nome Stanley Kubrick (storia vera). Non so voi, ma io avrei voluto essere una delle aquile di Gandalf per sorvolare la zona e godermi la faccia di Kubrick davanti alla proposta, probabilmente ha rispedito a casa i Beatles con una serie di improperi che in futuro, sarebbero stati righe di dialogo per il sergente Hartman.

Un mio amico dubitava fortemente che quello fosse un occhio in fiamme (Storia vera e ciao Diego!)

No, per riuscire nell’impresa di portare Tolkien al cinema ci voleva un visionario, uno vero, qualcuno in grado di pensare fuori dagli schemi come Ralph Bakshi, se volete capire quanto la controcultura si sia nutrita dell’opera di Tolkien cercatevi la sua versione animata, anche perché è un gran film. La versione di Bakshi di Il Signore degli Anelli di Bakshi è rimasto purtroppo incompleto, la sua storia è diventata leggenda e la sua leggenda mito, fino al giorno in cui il potere dell’Anello e la missione di portare la storia di Tolkien al cinema, non finì nella mani del più improbabile dei portatori, un Hobbit? Quasi, un neozelandese di nome Peter Jackson.

È naturale, è un Baggins Jackson! Non uno zuccone Serracinta da Pietracasa! (fermatemi, posso andare avanti tutto il giorno…)

A vent’anni dall’uscita nelle sale di “La Compagnia dell’Anello”, scrivere qualcosa di sensato su questo film vuol dire affrontare il primo capitolo di una trilogia di film che per molte ragazze e ragazzi ha rappresentato, quello che per me (che nel tempo ho riletto “Lo hobbit” quattro volte e “Il Signore degli Anelli” due) era stato da bambino Guerre Stellari, con la differenza che i romanzi erano già un culto per tutte le generazioni che nel 2001 erano già grandicelli, il resto invece è stato brillantemente riassunto da Kevin Smith in “Clerks II” (2006).

Molti di voi hanno colto l’occasione arrivata questa estate per festeggiare il ventennale, del ritorno del Re al cinema della trilogia per vedere i film di Jackson per la prima volta su uno schermo gigante, avete fatto bene perché in qualche modo piccoli Hobbit, mi riconosco in voi. Perché pur conoscendo già i libri e per avendo dedicato la vita alla saga di George Lucas, faccio parte di quella generazione che è stata colpita in mezzo agli occhi dai film di Peter Jackson, avevo appena compiuto 18 anni nel 2001 e “La compagnia dell’Anello” è diventato il film da dividere con la mia compagnia di amici, quasi nessuno di loro era appassionato di “Guerre Stellari”, quello lo ero solo io, quindi dopo una vita passata ad amare roba Nerd in solitaria, di colpo mi sono ritrovato ad avere amici in fissa, qualche volta anche più nera del sottoscritto, per questo film. Una discreta banda di Hobbit, condita da qualche stregone, pure lui dedito all’uso dell’erba pipa degli umani che questo film corsero al cinema a vederlo, solo per poi radunarsi puntualmente attorno alla VHS (vi lascio immaginare chi l’abbia comprata nella “compagnia”) del film, visto e rivisto a rotazione per colmare l’attesa fino a dicembre 2002, prima di poter continuare il viaggio con il resto della storia e il secondo capitolo già annunciato in sala.

‘Cause I got high, because I got high (cit.)

A vent’anni dalla sua uscita questo film ha palesemente influito sullo scenario cinematografico contemporaneo, pochi film sono stati immuni dalle grandi battaglie sdoganate da “Il Signore degli Anelli”, ancora oggi è difficile trovare una serie di film che siano stati in grado di infiammare i cuori degli spettatori più di questa trilogia, personalmente non ho alcun dubbio, per meriti tecnici e altrettanto affetto, non posso che considerare il film un Classido!

Eppure nel 2001 lo scenario non era così chiaro e netto, Internet era giovane e funzionava a 56k, il che vuol dire che non era possibile scaricare foto di donne nude lamentarsi in rete delle scelte di casting o del fatto che il film era finito nelle mani di uno che fino a quel momento, era famoso solo presso gli appassionati di Horror per titoli di culto come “Fuori di testa” (1987) e Splatters. Un regista che aveva mandato a segno il bellissimo Creature del cielo – film che avevamo visto in dodici – e quella divertente marchetta di “Sospesi nel tempo” (1996). Per il grande pubblico Peter Jackson era ancora uno sconosciuto, per di più smarcato dalle dinamiche di Hollywood, visto che proveniva dalla lontana Nuova Zelanda.

Eppure la missione non avrebbe potuto trovare regista migliore, non solo perché la circonferenza della panza di Jackson lo rendeva indistinguibile da un Hobbit, ma più che altro perché quel ragazzo aveva il cuore dal lato giusto e straripante di non una, ma almeno due storie a cui teneva moltissimo, la seconda era proprio “Il Signore degli Anelli”, il film che propose a diverse case di produzione, portandosi sempre dietro i suoi bozzetti e una statua costruita di suo pugno di King Kong, vuoi mai che magari dovessero essere interessati anche all’idea principale, la numero uno, il vero ritorno del Re (delle scimmie) che a Jackson stava davvero a cuore.

«Ehm.. Che succede, amico?» (cit.)

Mettiamola così, per King Kong il buon vecchio Pietro Di Giacomo avrebbe avuto tempo, nel frattempo i più interessati a “Il Signore degli Anelli” si dimostrarono quelli della New Line Cinema, la casa di produzione costruita da Freddy (Krueger) che già conosceva Jackson perché aveva tentato di affidargli la regia di uno dei capitoli di “Nightmare” (storia vera). Proprio come Ralph Bakshi (lasciatemi l’icona aperta, su di lui ci torniamo più avanti), Pietro Di Giacomo sognava di mettere insieme i fondi per due film, solo due film sarebbero bastati per raccontare tutta la storia di Tolkien sul grande schermo, ma quando la New Line propose a Jackson tre film, uno per ogni libro che compone la storia, Jackson deve aver fatto le capriole sulle mani.

Con 93 milioni di fogli verdi con sopra facce di altrettanti ex presidenti Yankee defunti per dirigere il primo film, Jackson si lanciò nell’impresa suicida di dirigere tutta i film della trilogia uno dopo l’altro, per minimizzare i costi ma anche per mantenere una certa continuità tra i capitoli. 438 giorni di lavoro, quasi il tempo impiegato da Coppola per dirigere “Apocalypse Now” (1979), ma da impiegare per sfornare tre film, poi chiedetevi come mai il vecchio PJ abbia perso peso dopo un’impresa del genere.

Proprio perché nel cuore di Pietro Di Giacomo bruciava il fomento, le sue scelte sono state una più azzeccata dell’altra, la dimostrazione che Jackson allora stava in uno stato di forma artistica (basta pensare alla sua panza!) irripetibile. La prova del nove? Proprio la trilogia successiva di Lo Hobbit, dove invece il regista ha sbagliato tutto quello che in quei tre anni irripetibili tra il 2001 e il 2003 aveva fatto giusto.

1.65 di grande attore: Ian Holm nel ruolo “pop” che lo ha reso celebre anche ai più giovani.

Dopo aver rivisto la sceneggiatura del film per tre volte, con le sue socie di sempre, Fran Walsh e Philippa Boyens, Jackson impose di dirigere gli esterni nella sua Nuova Zelanda. Gli scenari mozzafiato che vediamo nel film negli anni hanno generato il tormentone con i miei amici: «Quello in Nuova Zelanda esiste davvero!» era la frase applicabile ad una montagna, ad un lago oppure ad un Troll di caverna generato in computer grafica dalla Weta, la compagnia che si è messa sulla carta geografica e con questa trilogia, ha dato filo da torcere alla storica Industrial light and magic, al lavoro in quel momento sulla Prequel Tragedy di Lucas, che di colpo, si ritrovava con dei concorrenti molto agguerriti.

L’arma segreta di Jackson? Forse proprio quel grado di distacco che con King Kong ha dimostrato di non avere. Non sto mettendo in dubbio l’amore di Peter Jackson per il romanzo di Tolkien, parliamo di un regista che prima di dirigere una scena particolarmente complicata, tirava fuori dalla tasca la sua copia sgualcita del libro, si rileggeva il capitolo oppure, scambiava due battute con Christopher Lee, scelto per il ruolo di Saruman, l’unico sul set più nerd di Jackson, visto che il grande attore non solo ha letto e riletto il romanzo ogni anno della sua (lunga) vita, ma era anche l’unico sul set ad aver conosciuto per davvero Tolkien, perché si, nella sua vita incredibile Lee ha avuto il tempo di fare anche questo, infatti snocciolava consulenze a tutti, dai costumi al reparto trucchi, sull’aspetto da dare ai troll (storia vera).

«Io avverto che le orecchie degli elfi sono più lunghe di tre millimetri…»

No, quel grado di distacco che Jackson ha perso con il tempo, è lo stesso che gli ha permesso di fare scelte azzardate ma efficacissime, io lo so che tanti Tolkeniani ancora pretendono il cuore di Jackson su una picca per aver eliminato dalla storia Tom Bombadil, ma lo vogliamo anche dire che il capitolo dedicato a Tom Bombadil in “La compagnia dell’Anello” è anche il più palloso di tutto il libro? Tolkien che si citava addosso, simpatico quanto volete, ma quando hai un film da fare, totalmente superfluo e giustamente sforbiciato da Jackson.

Scomparso dal film ma presente sulla Bara Volante, contenti amici Tolkeniani?

Pietro Di Giacomo si è approcciato al lavoro di Tolkien da uomo di cinema, ma anche da vero appassionato, ecco perché tra le scelte azzeccate, metteteci pure l’aver richiesto la consulenza di Alan Lee e John Howe responsabili dei bozzetti e delle scenografie, una garanzia di continuità visto che Lee era stato anche uno dei primi ad illustrare i libri di Tolkien seguendo le sue indicazioni (storia vera). Ma forse la scelta più azzeccata fatta da Jackson riguarda il cast, pensateci, se devi imbarcarti in un’impresa lunga e complicata, chi vorresti al tuo fianco? Meglio assicurarsi non solo di avere gli attori giusti, ma persone abbastanza motivate da poter girare tre film in contemporanea, seguendo un piano di lavorazione fittissimo, insomma per prima cosa Jackson doveva mettere su una gran squadra.

Nove compagni, una scena che anche Francesco Guccini guarda con il pugno alzato.

Per gli Hobbit il regista sognava solo attori britannici, infatti Bilbo Baggins lo abbiamo messo in cassaforte affidandolo a quel fuoriclasse di Ian Holm, mentre Billy Boyd e Dominic Monaghan (che deve la sua carriera proprio alla sua presenza in questa trilogia) sono stati anche quelli responsabili di insegnare un po’ di “Cultura da Pub” agli altri due Hobbit, che di Britannico non avevano nulla, ma ditemi se il Goonies Sean Astin nei panni di Samvise Gamgee (che entra in scena dicendo «Credo che mi scolerò un’altra pinta» e infatti è il mio personaggio preferito del libro, storia vera) oppure gli occhioni blu perennemente sgranati di Elijah Wood per il ruolo per cui verrà ricordato a vita, quello di Frodo, non sono le due scelte migliori possibili, passaporto o meno.

Tiro e… Canestro perfetto, altri tre punti per la Contea! (poi dicono che quelli bassi non possono giocare a basket, tzè)

A proposito di attori che verranno per sempre identificati in un ruolo, azzeccare Gandalf voleva dire madare a segno una buona parte del lavoro, se rendi credibile per il pubblico uno stregone con il cappello a punta, che non sembri subito la versione umana del Merlino della Disney, vuol dire che sei sulla strada giusta. Jackson lo sapeva e propose il ruolo ad un attore di innegabile carisma, Sir Sean Connery che poco prima aveva rifiutato il ruolo di Morpheus in Matrix e fece lo stesso con Gandalf, pare perché dichiarò di non aver capito la trama, sta di fatto che per reazione dopo aver detto no a due enormi successi, accettò quella porcheria di “La leggenda degli uomini straordinari” (2003), un flop talmente grosso che spinse Connery a dedicarsi al golf e ad una ricca pensione a tempo pieno (storia vera).

«A Sir Connery sarebbe piaciuto qui, abbiamo un sacco di prati ottimi per il golf»

Il ruolo di Gandalf il grigio andò così a Sir Ian McKellen, una vita da attore Shakespeariano e poi nel giro di due anni, due ruoli “Pop” che lo hanno reso un beniamino del grande pubblico. McKellen molto più pronto di Alec Guinness nel 1977, lo aveva capito benissimo che qui, sarebbe stato l’Obi Wan Kenobi della situazione e ci ha sempre scherzato sopra, dicendo che il giorno in cui morirà, sa già cosa titoleranno i giornali: «Oggi è morto Gandalf». Difficile dargli torto, visto che la sua “morte” sul grande schermo è una delle scene madri di un film che ne è pieno e che ha sfornato frasi che ormai sono patrimonio della cultura popolare, quante volte in vita vostra avete detto «Fuggite, schiocchi!» in qualche situazione? Io sempre, specialmente fuori contesto, ti invita la suocera a cena? «Fuggite, schiocchi», il capo ti vuole per gli straordinari? «Fuggite, schiocchi», funziona sempre!

«Cassidy parlerà ancora a lungo… Fuggite sciocchi!»

Negli anni poi, tra versione cinematografica, versione estesa e contenuti speciali, mi sono spulciato, letto e visto tutto il possibile sulla realizzazione di questo film, quindi mi ritrovo per le mani tanto di quel materiale impossibile da stipare tutto in un solo post, se dovessi scegliere un aneddoto che riassume quanto Jackson stesse artisticamente in forma durante la realizzazione di questo film, devo citare uno che finì proprio a recitare in quella schifezzetta già citata di “La leggenda degli uomini straordinari”, ovvero Stuart Townsend prima scelta per il ruolo di Aragorn, che però venne licenziato dopo quattro giorni di lavorazione, perché Pietro Di Giacomo si rese conto che era davvero troppo giovane per il ruolo. Un personaggio chiave che è stato sostituito al volo, in un cambio in puro stile cestistico, da un attore che fino a quel momento aveva fatto un’infinita gavetta senza però sfondare mai per davvero, Viggo Mortensen che non aveva mai letto il libro, accettò perché suo figlio era fanatico di Tolkien e in un attimo diventò il miglior spadaccino presente sul set (storia vera), l’unico che andava anche in pausa pranzo con la spada legata alla cintura. Ma visto che avremmo modo di parlare ancora di Viggo nei prossimi capitoli, passiamo ad uno che invece ha avuto un solo film per mettersi sulla mappa geografica: Sean Bean.

«Con trentamila lire il mio orefice lo faceva meglio»

Se la HBO lo ha voluto come padre degli Stark in Giocotrono, è stato solo per aver partecipato a questo film, dimostrazione che tutti quelli usciti da questa trilogia ancora campano di rendita dopo vent’anni. Non solo Bean è diventato campione del mondo di meme generati attorno alle numerosi morti dei suoi personaggi, ma tutti ricordano il suo Boromir, che ha la sfortuna di passare per un tamarro con gloriosa redenzione finale, per lo meno nella versione cinematografica del film, in quella estesa da 228 minuti (contro i 178 di quella uscita in sala), il suo personaggio è molto più sfaccettato, ma è un sacrificio che Boromir poteva caricarsi sulle spalle in favore di un film tanto riuscito.

Fun fact: Orlando Bloom era appena uscito dalla scuola di recitazione quando venne scelto per questo film. Non si sa quale scuola però, hanno preferito restare anonimi.

Diventa anche complicato scrivere di un film a cui voglio così tanto bene e che in vent’anni si è guadagnato un pubblico tanto vasto e appassionato, le scenografie sono impeccabili, l’uso della CGI è abbondante ma grazie ad una palette cromatica azzeccata, risulta comunque omogenea al resto delle immagini e non è scontato che la CGI sappia reggere la prova del tempo, infatti in alcuni capitolo di questa trilogia non sarà sempre così, ma per “La compagnia dell’Anello” funziona ancora tutto alla grande, forse perché Jackson ha alternato costumi, trucchi, make-up e soprattutto tante soluzioni cinematografiche, da non rendere il suo film totalmente dipendente dallo “Schermo verde”. Basta guardare i trucchi utilizzati per gestire quell’incubo logistico che sono le differenti altezze dei personaggi, un po’ di computer grafica e tanto lavoro al montaggio (Elijah Wood e Sir Ian McKellen, non hanno quasi mai girato scene insieme, anche se per tutto il tempo i loro personaggi sono uno accanto all’altro) e anche uno come John Rhys-Davies, il più alto del cast con il suo 1 e 85, può diventare il nano Gimli. Sarà pure vero che nessuno può lanciare un nano, ma un cineasta capace può rimpicciolire un attore.

Elia Boschi non è proprio un gigante, ma la prospettiva usata bene aiuta.

Peter Jackson in “La compagnia dell’Anello” si è giocato tutti i trucchi da stregone accumulati negli anni e nel corso del suo cinema, dentro potete trovare l’amore per i trucchi analogici e il make-up dei suoi primi horror, ma anche la CGI che rendeva l’assassino di “Sospesi nel tempo”, una sorta di prova generale per i cavalieri neri di questo film. Non è un caso se alcune scene qui sono degne di un film dell’orrore, come i quattro Hobbit nascosti dietro l’albero con il cavaliere Nero ad un passo da loro a fiutare l’aria.

«Speriamo che non senta anche gli odori, perché credo di essermela fatta sotto dalla paura»

Jackson è stato bravissimo e anche molto furbo, molte delle scene migliori del film di Ralph Bakshi possiamo ritrovarle identiche qui (vi avevo detto che Bakshi, sarebbe tornato no?), specialmente per quanto riguarda la porta di accesso alle miniere di Moria (dite amici ed entrate…) oppure l’aspetto di Gollum, ma di questo parleremo a breve, il vantaggio di avere una trilogia intere su cui poter scrivere!

«Nel prosssssimo posssst ci vedremo tesssoro»

Quello che rende “La compagnia dell’Anello” un film così incredibile è la capacità di iniziare con enorme epica con quel prologo in grado di incollare quasi chiunque allo schermo, per poi diventare una favoletta leggera con Stregoni, Hobbit e feste di compleanno da celebrare, fino alla capacità di mettere in chiaro la posta in gioco, di quanto sia labile la speranza riposta nelle mani di Frodo Baggins, riuscendo benissimo a farci capire quando sia grande il peso da portare per un solo prescelto e no, non rompete il cazzo con quella storia delle aquile, Gandalf non poteva far portare l’anello al Monte Fato da loro, Sauron le avrebbe fulminate in volo al primo chilometro, smettiamola con questi falsi miti di Internet, come Indy che non fa nulla nella trama, essù!

Nel 2001 non erano proprio tanti disposti a stendere i tappeti rossi davanti all’idea di una saga Fantasy milionaria, Lucas non stava convincendo con il suo nuovo Star Wars, inoltre l’idea di una faida tra nerd con Tolkeniani da una parte e fan di Harry Potter dall’altra, attizzava parecchio i giornalisti, come non accadeva dai tempi di Blur contro Oasis. Motivo per cui quando il film uscì, non tutti erano disposti a riconoscere a Jackson la grandezza del lavoro svolto, con due film in uscita pochi erano già pronti ad urlare al capolavoro. Strano perché GIEI GIEI anni dopo è stato incensato a scatola chiusa fin da subito, così pure oggi, uno schiaffone all’oscuro signore dei Nerd l’ho piazzato, tiè!

Dritto in mezzo agli occhiali del mio arcinemico.

Peter Jackson nel suo film ha saputo metterci la favola e l’epica, in una storia che è strapiena di momenti epici e grandiosi, io ancora oggi trattengo il fiato sul crollo delle scalinate di Moria («E la chiamano una miniera… Una miniera!») e pochi altri momenti mi esaltano come quando all’ultimo faticoso salto, risuonano le noti trionfali di “The Bridge Of Khazad-dum” di Howard Shore, una colonna sonora che da sola potrebbe convincerti a partire per il Monte Fato a piedi anche ora.

Impossibile descrivere tutti i momenti riusciti di un film che potrei citarvi a memoria, che è diventato oggetto di culto e di amorevole sfottò, dal cameo di Jackson alle apparizioni di Cate Blanchett in versione Madonna dei boschi Fantozziana. Provate a buttarmi lì una frase (la sezione commenti esiste anche per questo) e io finirò per ridoppiarvi tutto un film, da «Attirate troppa attenzione signor Sottocolle» fino a «Ho fatto una promessa padron Frodo…», un film che dopo vent’anni e anche più visioni, ancora richiede estrema durezza, per continuare ad apparire così estremamente duri durante la scena dell’uscita dalle miniere di Moria, insomma ci voleva qualcuno con abbondanti dosi di cuore e cervello per riuscire nell’impresa di portare l’opera di Tolkien al cinema, Peter Jackson da Hobbiville dalla Nuova Zelanda era quello giusto per farlo.

Silhouette of Doom Ring.

Molto è rimasto fuori da questo post ma avremmo ancora tempo di parlare di tutto quello che ancora ci aspetta nei prossimi post, adesso era importante festeggiare i primi vent’anni di “La compagnia dell’Anello”, ma il viaggio è appena cominciato, ci vediamo qui tra sette giorni, lasciate tutto quello che non vi occorre, viaggiamo leggeri, si va a caccia di orchi. Cassidy parte di corsa verso la vegetazione canticchiando il tema di Howard Shore

Sepolto in precedenza giovedì 2 settembre 2021

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