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Il treno (1964): quando c’era Frankenheimer i treni esplodevano in orario

Non potrà mai accadere che io permetta a questo 2024 di finire senza festeggiare il più colossale sessantennale dell’anno, perché se anche Steven Spielberg ha messo in chiaro di essere uno di noi, uno di quelli che al cinema ama gli inseguimenti e perché no, i treni che tirano ciocchi fortissimi, allora questa Bara non può proprio esimersi dal rendere omaggio ad un classico monumentale del cinema d’azione, non solo dei treni.

Nel corso del tempo quello dei treni d’azione è diventato un vero filone, anche il regista che più di tutti ha fatto suo l’esempio di John Frankenheimer si è esibito in questa specialità, ma tutto è iniziato qui, anzi, a voler essere proprio precisi l’origine primigenia resta “Come vinsi la guerra” (1926), perché Buster Keaton oltre ad insegnare il senso dell’umorismo al pianeta, era il padre nobile di tanto cinema d’azione, con quel suo modo libertino di saltare, cadere ma soprattutto, salire e scendere dai treni.

“Il treno” resta il perfetto esempio di come un soggetto che di lì a poco sarebbe diventato materia per i B-Movie, avesse invece un’origine “alta”, liberamente tratto dal romanzo “Le front de l’art” di Rose Valland, “The Train” è la prova che la puzza sotto il naso di etichettare tutto e di considerare i film d’azione come roba di seconda fascia, deve essere un male che ha cominciato ad affliggere il mondo (del cinema) dopo il 1964, perché John Frankenheimer ha trasformato qualcosa che in mani differenti sarebbe stata robetta, in arte allo stato puro, e la mia non è un’illazione o una sparata, “Il treno” era veramente in altre mani prima dell’arrivo in stazione di Frankenheimer, nemmeno di un mestierante, visto che parliamo di Arthur Penn.

Il momento del licenziamento di Penn me lo immagino un po’ così.

Al regista di “Anna dei miracoli” (1962) e “Gangster Story” (1967) dobbiamo l’inizio muto, quello dove vediamo solo Nazi inscatolare quadri di Cezanne, Renoir e Picasso, facendo razzia di tutta l’arte disponibile nella Francia occupata, bollata da quei fulminati abituati a muoversi a passo dell’oca come arte degenerata. Sulle piste – letteralmente – del treno carico di quadri, si metterà Paul Labiche (Burt Lancaster), un ispettore ferroviario che sembra godere ancora della fiducia dei tedeschi, ma che in realtà è responsabile delle azioni di sabotaggio in quella zona, dimostrando di essere calato nel personaggio a livello totale, il primo sabotaggio a fin di bene nei confronti del film, lo ha guidato in prima persona proprio Lancaster.

Ancora scottato dall’insuccesso de “Il Gattopardo” (1963), l’atletico ex soldato diventato Divo aveva puntato troppo su questo film per vederlo trasformare da Arthur Penn in qualcosa di sofisticato e verbosissimo, facendo valere tutto il suo peso politico da star di primo piano di Hollywood, fece cacciare Penn chiamando al volo colui che lo aveva già diretto in “Il giardino della violenza” (1961), “L’uomo di Alcatraz” (1962) e “7 giorni a maggio” (1964), se ci pensate ironico visto che non sarebbe stato l’unico “cambio basket” della carriera di John Frankenheimer.

Il momento in cui capisci che Frankenheimer è arrivato in città.

Non solo Frankenheimer cambia tutto l’approccio al film, ma dirige con una chiarezza d’intenti abbacinante, il film avrà pure sessant’anni ma è fresco come una birra tirata fuori dal frigo in piena estate, perché rende fede alla massima per cui, al cinema, ovvero il territorio della finzione pura, quante più azioni reali riprendi con la macchina da presa, tanto più il film ne sarà avvantaggiato. Immaginate la moderna smania di stunt a tutti i costi di Tom Cruise, mescolata alle sequenze di Fury Road, per quello che resta il titolo d’azione più influente della settima arte, tanto che per trovare un altro singolo titolo in grado di cambiare lo scenario attorno come ha fatto Frankenheimer nel 1964, abbiamo dovuto attendere The Raid, quasi superfluo dirlo: Classido tutta la vita!

Appena arrivato sul set, carico di piani bellicosi, John Frankenheimer con il suo piglio da generale ottiene di farsi raddoppiare il budget, tutti fondi necessari per i suoi piani di far deragliare, scontrare ed esplodere locomotive a favore di macchina da presa, infatti nei centrotrenta minuti di durate de “Il treno” (percepiti circa, non so, trenta) Lancaster inizia in giacca e cravatta e finisce sporco di fuliggine e grasso, al suo Labiche del treno carico d’arte non frega un accidente, lui punta a fare del male ai Nazisti portando via loro un carico d’armi, finirà ad avere a cuore questo treno pieno di quadri famosi in corso d’opera, se volete in tutto questo ci starebbe dentro un METAFORONE bello grosso, ma Frankenheimer non perde nemmeno un secondo ad illustrarvelo, fa arrivare a destinazione tutti i suoi messaggi usando l’azione, un esempio?

L’AZIONE, con tutte le lettere maiuscole.

In un film con diversi intenti, tutta la sottotrama tra Labiche e Christine (Jeanne Moreau), la vedova che gestisce un piccolo albergo che i Nazi utilizzano per i loro scopi, sarebbe gestita in maniera differente, qui capiamo tutto quello che dobbiamo capire come spettatori, anche il fatto che se i due avessero più tempo, forse diventerebbero una coppia a tutti gli effetti, ma “Il treno” non guarda in faccia nessuno e corre.

John Frankenheimer dirige come un uomo posseduto, a livello di montaggio il film è un gioiello, si passa da spazi ampi, a volte ampissimi all’angoscia di primissimi piani ultra dettagliati, sembra quasi che il regista si sia imposto di comunicare per immagini al pubblico TUTTO, ogni singolo dettaglio, non esiste una moneta, una vite o un bullone che tiene i binari che non ci venga mostrato nel preciso istante in cui serve farlo, per sottolineare la sua importanza. Non voglio dire che “Il treno” sia un manuale su come manovrare una locomotiva, ma quasi, perché tutti i punti di vista sono rispettati, che sia quello dei piloti dei bombardieri tedeschi fino al punto di vista di personaggi di culto come Papa Boule (Michel Simon), uno che sembra l’impiegato delle poste il lunedì mattina, quello che passa il tempo a cristonare e lamentarsi, solo che qui manovrare il treno e fare un torto a quei bastardi di Nazisti, sembra diventare la sua unica ragione di vita, io ho il culo girato e ce lo dovete avere anche voi… ‘stardi! L’eroe proletario di cui non sai di avere bisogno finchè non sali a bordo del suo treno.

Loro hanno portato il concetto di giocare con i trenini a tutto un altro livello.

La locomotiva ha la strada segnata (cit.) ma Frankenheimer riesce ad espandere così tanto lo spazio del suo film da permettergli di funzionare su più piani, se da una parte si sofferma volutamente sui dettagli anche minuscoli ma fondamentali, dall’altra sullo sfondo accadono cose che spesso, sono importanti quasi quanto quelle che avvengono in primi piano, la smania di mostrare viti svitate va di pari passo con la capacità di raccontare utilizzando tutto lo spazio del grande schermo. Rendere lo sfondo parte dell’azione è una lezione che tanti dopo Frankenheimer hanno seguito forti del suo esempio, ma la parte incredibile de “Il treno” resta scoprire che tale meccanismo ad orologeria, non è stato il frutto di mesi di preparazione, ma quasi esclusivamente del genio di John Frankenheimer, posseduto dal sacro fuoco dell’azione (che si fa arte), incapace di sbagliare una scelta anche nelle condizioni peggiori del mondo.

A livello di trama ci sono personaggi, anche fondamentali, che spariscono perché semplicemente gli attori che li interpretano non potevano più stare sul set per onorare contratti firmati in precedenza, per questo la trama si adatta trasformandosi in una corsa ad eliminazione in cui vale tutto. Burt Lancaster si fa male in una pausa tra una ripresa e l’altra durante il suo tempo libero? Integriamo lo zoppicare dell’attore nella trama e andiamo avanti (storia vera), ogni soluzione, anche visiva selezionata da Frankenheimer contribuisce ad un film impeccabile, anche quando sceglie angoli di inquadratura che sarebbero ancora arditi nel 2024, figuriamoci sessant’anni fa.

Tutto questo qui alla Bara Volante ha un nome: arte.

Dal punto di vista visivo “Il treno” è un film incredibile, a volte nella stessa inquadratura vediamo Burt Lancaster far valere i suoi trascorsi atletici di cascatore, per scendere al volo da una scala, saltare giù da un treno e prenderne al volo un altro che sta arrivano dal fondo della stessa inquadratura, in quelli che sono piani sequenza dove Lancaster avrebbe potuto farsi male ad ogni fotogramma, che invece si traducono in un’infilata di scene una più mirabolante dell’altra, ogni svolta di trama, ogni micro obbiettivo da raggiungere in “Il treno” è scuola di cinema in movimento.

Vogliamo parlare della corsa disperata tra la locomotiva e l’aereo tedesco? La gara per arrivare il prima possibile alla galleria dove non essere più obbiettivi esposti? Altrove sarebbe la scena madre di un film, qui è una delle tante monumentali che Frankenheimer riesce ad inanellare una via l’altra.

In un film che si intitola “The Train”, il rischio è quello di perdere ritmo e interesse quando i personaggi non sono sui binari, ma i muscoli cinematografici di Frankenheimer erano semplicemente troppo allenati per inciampare in questo rischio e di conseguenza, anche scene di fuga a piedi diventano manuali di suspence applicata al raccontare per immagini, il tutto senza bisogno di spiegoni o momenti espositivo. Tanto che ad un certo punto è chiaro che lo stesso Labiche cominci a capire l’importanza anche simbolica del carico d’arte del treno, da un certo momento in poi per lui diventa una questione di principio, un concetto che da spettatori comprendiamo perfettamente solo grazie ad un primo piano nel momento giusto su Burt Lancaster, inquadrato da un Frankenheimer che qui, pare fisicamente impossibilitato a fare una singola scelta narrativa sbagliata.

A ben guardare, nemmeno una singola inquadratura sbagliata.

Persino quando il duello finale si sposta – per un momento – sul piano dialettico, con l’odioso ufficiale nazista che ribadisce che quei quadri sono roba per lui e quelli come lui, non di certo per un buzzurro come Labiche, quello non gli risponde nemmeno, o meglio gli risponde come si dovrebbe sempre fare con un nazista, se avete visto il film sapete, altrimenti mettetevi sui binari di questa gran scuola di cinema, mi ringrazierete dopo.

Molti poveri di spirito non hanno capito che un buon film d’azione non è quello che ad un certo punto, si gioca una scena action a caso per giustificare l’etichetta sul retro della copertina del Blu-Ray, un film d’azione vero utilizza l’azione per sviluppare la storia, i personaggi e le loro motivazioni. Un esempio concreto che riassume tutto questo al meglio, usando le immagini, delle vere locomotive fatte scontrare e deragliare e una cura maniacale per i dettagli, quasi al limite del documentaristico, è rappresentato proprio da questo gioiello, sessanta candeline e ancora fila che è una meraviglia.

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