Torna l’appuntamento con il Triello, tre film che non hanno nemmeno bisogno della classificazione solita, uno buono, uno brutto e l’altro discreto, perché tanto sono tutti mediamente poca roba, i primi due li trovate in streaming (rispettivamente Paramount+ e Netflix), l’ultimo in sala.
Appartamento 7A (2024)
Il problema delle proprietà intellettuali in scadenza esiste più o meno da quando il primo uomo delle caverne ha sparato una scintilla nell’occhio del suo compare e questo, si è rivolto all’avvocato della tribù. Ad inizio anno siamo stati sopresi da un gioiellino come il prequel di Omen, per questo qualcuno deve aver pensato di interrompere la striscia positiva di neonati diabolici con “Appartamento 7A” diretto da Natalie Erika James e scritto, oltre che dalla regista, anche da Christian White e Skylar James, che chiaramente hanno visto il classico di Roman Polański, ovvero “Rosemary’s Baby” (1968) di cui questa roba pretende di essere un prequel.
Nella New York del 1965, la ballerina spiantata Terry Gionoffrio (citata velocemente anche nel film di Polański) è caduta (ah-ah) in disgrazia dopo un infortunio alla caviglia che le ha stroncato la carriera, gli unici a tenderle una mano sono gli anziani coniugi Minnie e Roman Castevet, rispettivamente Dianne Wiest e Kevin McNally che ereditano i ruoli da Ruth Gordon e Sidney Blackmer. Il resto della trama la conoscete, perché Terry viene ospitata nello stesso lussuoso palazzo, quindi la storia si ripete e anche se questo è un prequel, è proprio corretto dire che si ripete, perché quello che va in scena è la stessa roba, ma molto, molto peggio.
Non è questione di lesa maestà, ma quella di Natalie Erika James è una robetta da streaming che cerca di rifare un classico del cinema applicando tutte le regole (non per forza scritte) dai prodotti televisivi, nel senso peggiore del termine. Se Roman Polański teneva il ritmo basso e lavorava sull’angoscia e il senso di paranoia, qui si va solo piano, però con pennellate di grossolani “Salti paura” (anche noti come “Jump Scare), con manine diaboliche che spuntano a capocchia, l’imbarazzo vi giuro.
Se hai la pretesa di metterti in scia ad un classico dell’horror, devi essere almeno consapevole dei tuoi rischi, dove Polański era surrealista e comunicava (la scena onirica dello stupro di Rosemary), Natalie Erika James riesce ad essere solamente abbozzata, imbarazzante nel confronto diretto e sotto le media, non nel paragone con il film del 1968, ma con qualunque orroretto in circolazione. La puzza di prodottino televisivo supera quella dello zolfo che si potrebbe sentire, manca completamente tutto il discorso sul potere, sull’elemento Cattolico che aveva un peso specifico equivalente a quello del piombo nel film di Polański, qui ci sono solo momenti da proto-Musical, un uso semi satirico di “Be my baby” delle The Ronettes e tanta ansia nello smarcare i punti per cui nel 2024, se non affrontati, il tuo film non va nemmeno in produzione.
Non voglio perdere tempo in un paragone diretto, stiamo parlando da una parte di oro puro diretto da Polański, contro ottone arrugginito distribuito su Paramount+: a Rosemary non passava minimamente per l’anticamera del cervello di interrompere la gravidanza, per via della sua formazione, per il modo in cui Polański riusciva a parlare dell’influenza del cattolicesimo sui personaggi, senza gettarlo in faccia al pubblico. La Terry Gionoffrio di Natalie Erika James tenta la via dell’aborto perché è l’occasione di una bella (non è vero, è ridicola) scenetta orrorifica con un altro “Salto paura” e potrei andare avanti un’ora, ma avrò pietà di questa robina che dimenticheremo fortunatamente domani, per sottolineare un solo dettaglio, anzi due.
Terry, “la ragazza che è caduta” come la chiamano tutti insistentemente (perché bisogna ribadire i concetti mille volte, il pubblico con il naso nello smartphone è distratto), se questo film avesse avuto un minimo di cinematografia in testa, avrebbe potuto essere un elemento narrativo utile a rendere più efficace il finale (ampiamente telefonato dalla natura stessa del prequel), non sono stati capaci di fare nemmeno quello, però concludo dicendo che mi ha fatto piacere assistere all’esordio americano di Pilar Fogliati qui nei panni di Terr… Ah non è Pilar Fogliati? Cavolo è uguale, “American Pilar”.
Rez Ball (2024)
Se il film di prima vedeva come protagonista una donna e quindi è stato affidato d’ufficio ad una regista donna, questo dedicato alla pallacanestro nella nazione Navajo è stato messo nelle mani di Sydney Freeland, già dietro alla macchina da presa per alcune puntate di Echo, quindi il prossimo film su Super Mario verrà diretto da un italiano giusto? Sta cominciando a somigliare tutto molto ad una barzelletta.
I Chuska Warriors sono la squadra delle scuole superiori dell’omonima zona nel New Mexico ad altissima densità di popolazione Navajo, la Coach della squadra, Heather Hobbs (Jessica Matten) è una stella locale passata dalla WNBA e tornata come la figliola prodiga per condurre i Guerrieri alla terra promessa, anche se l’assenza del loro giocatore di punta Nataanii Jackson (Kusem Goodwind) dopo una pausa di un anno a causa del brutto lutto che ha colpito la sua famiglia, ha decisamente rallentato i sogni di gloria della squadra e sta facendo barcollare la panchina della Coach, messa doppiamente in dubbio in quanto donna.
Da che parte cominciare ad analizzare questo disastro, potrei dirvi della svolta, ma per farlo dovrei descrivervi la prima mezz’ora di un film troppo lungo e che utilizza molto male il suo minutaggio, quindi mettiamola così, Coach Hobbs e Jimmy Holiday (Kauchani Bratt) dovranno trovare un modo per vincere malgrado tutto e allo stesso tempo, di riscattarsi, la prima come professionista, il secondo come figlio della più tosta ex giocatrice della comunità nativa, finita schiava della bottiglia.
Ci sono un paio elementi che fanno riflettere, essendo un film prodotto da LeBron James, non so se si tratta di un caso il fatto che i due amici protagonisti, Holiday e Jackson, indossino rispettivamente le maglie numero 7 e 23, insomma come Carmelo Anthony il suo grande amico LeBron, anche se trovo molto più ironico il fatto che il numero 23 dei Lakers (finché non cambierà ancora maglia… E squadra) abbia prodotto un film sui Warriors, vabbè comunque meno peggio di Space Jam 2.
Il motivo di interesse di un film che si intitola “Rez Ball” dovrebbe proprio essere beh, il Rez Ball, lo stile di gioco utilizzato sui campi presso la comunità dei nativi, debitore del “Seven seconds or less” reso celebre da Coach Mike D’Antoni sulla panchina dei Phoenix Suns. Se poi vogliamo ribadire che i territori, sempre molto “Western”, sono sempre quelli ci può stare, ma è stata la prima grossa rivoluzione al gioco, che ha “allargato” il campo (senza cambiarne le dimensioni fisiche), imponente un gioco più veloce, sette secondo (o meno) per arrivare al tiro che nel film viene citato frettolosamente, se non proprio dato per scontato a favore del solito drammino sportivo che oltre ad inventare i Chuska Warriors (che giocano su campi che comunque risultano migliori di quella della Seria A italiana) non si impegna più di tanto.
La sottotrama della madre di Holiday ammazza il ritmo, le pecore da radunare sono la versione locale delle galline di Rocky e il ritmo latita, aggravato dai cliché e dalla retorica fuori dal campo, in compenso le parti di gioco fanno pietà.
Chiarito che “Rez Ball” è un titolo come un altro, non pretendevo una lectio magistralis su questo stile di gioco, ma almeno che qualcuno dei convolti abbia una minima idea di cosa sia la pallacanestro e su come raccontarla al cinema, anche se qui siamo in streaming. Giocatori in penetrazione che scaricano, passaggio dietro la schiena chiaramente a nessuno sulla traiettoria della palla, tanto poi con un montaggio brutale possiamo mostrare il tiratore (in un altro punto del campo non raggiungibile dal passaggio) intento a tirare, insomma, pallacanestro bruttina perché diretta male e montata peggio. La scalata alla finale raccontata con l’avanti veloce e la finale? Anche peggio.
Sorvolo sul modo barbaro con cui il film cerca di passare il concetto di “Appropriazione culturale”, quando accade uno dei telecronisti dice proprio: «Sembra un caso di approvazione culturale» perché quel naso dagli Smartphone va fatto sollevare in qualche modo agli spettatori, ma è la non-strategia di gioco che lascia allibiti: una squadra imbattuta arriva in finale puntato sul loro giocatore di punta, ovviamente bianco, biondo e con gli occhi azzurri (marò la quantità di zozzeria che si trova in streaming…), per l’ultima partita sceglie di giocare Rez Ball, come reagisce la Coach dei Warriors? Loro giocano Rez Ball? Lo faremo anche noi, che è l’esatto opposto di quello che si fa quando ti trovi contro una squadra che corre, non la fai correre, trovi il modo di farla rallentare, insomma non solo in questo “Rez Ball” non c’è il Rez Ball, non c’è quasi la pallacanestro.
L’unica scena che almeno somiglia a del cinema sono i demoni da combattere sulla “linea della carità”, quella dei tiri liberi, l’unica scena in cui la natura di nativi dei protagonisti per lo meno ha un senso, peccato che un minuto dopo, il tedioso personaggio della madre “menagramo” di Holiday, risolva tutti i suoi problemi a colpi di “Tarallucciatore”, due ore a tediarci e poi? Massì risolto, va bene così, tanto il pubblico sul divano non se ne accorgerà, troppo intento a spollicciare il telefono.
Se volete un titolo più a fuoco sulla questione Rez Ball, guardatevi il documentario “Off the Rez” (2011) otto nativi e relative famiglie, che cercano di uscire dal ghetto della riserva usando la pallacanestro giocata, lì si davvero Rez Ball.
Never Let Go – A un passo dal male (2024)
I problemi che affliggono “Never Let Go” sono molteplici, il primo dei quali più che altro è un mio problema mentale, leggendo il titolo mi parte la canzone in testa, o almeno una parte, i Queen risuonano spesso in molti crani.
L’altro grosso problema è l’inevitabile sottotitolo italiano, sul serio, sembra un misto tra un generico horror e un’allegra commedia degli equivoci, una di quelle francesi molto garbate ed in effetti qualcosa di francese c’è, per lo meno il regista Alexandre Aja e se da un certo punto di vista, aspettarsi da lui la furia di film come beh, “Furia” (1999), “Alta tensione” (2003) o il suo rifacimento del classico di Craven, “Le colline hanno gli occhi” (2006) avrebbe poco senso, purtroppo non arriva nemmeno la scemeria di fondo di titoli come Crawl, ma nemmeno i limiti auto-imposti di Oxygen.
Di base però il film è il più classico dei METAFORONI, grosso, manifesto e senza nemmeno troppe spiegazioni, ma non in un modo positivo, più che altro “Never Let Go” sembra un’idea abbozzata per vivere di influenze esterne, due parole sulla trama poi approfondiamo.
La vita per mamma Halle Berry è diventata più complicata da quando la società come la conosciamo è collassata, insieme ai figli Nolan (Percy Daggs IV), Samuel (Anthony B. Jenkins) e un vecchio cane vivono nella loro casetta nel bosco, le risorse non mancano, sempre che tu non abbia pretese di avere perennemente cinque tacche sul tuo telefono per aggiornare storie e reel sui Social-Cosi, che nessuno vedrebbe mai, perché molto probabilmente là fuori sono tutti già morti.
La minaccia incombente al momento sono le creature che si aggirano fuori dal capanno, creature proto-zombesche che non ti attaccano ad una sola condizione, se ti fai i cazzi tuoi sei legato ad una corda con i tuoi cari. Cioè, capite di cosa stiamo parlando? I mostri ti vedono legato come una rolata di vitello nel suo filo, ma non ti attaccano, troppo facile.
Da tutto questo il METAFORONE, quello grosso, quello che fa male, perché è ovvio che l’idea di fondo sia urlata, una madre è pronta a fare tutto per tenere insieme la famiglia, oppure l’altra chiave di lettura, tenersi vicini i figli, tema che sarebbe anche molto sfizioso e interessante se non fosse che oltre a questo in “Never Let Go” non ci sia niente, ma proprio niente, il sangue latita, la tensione è tutta ridotta alla scena del cane, fastidiosa nella misura in cui non realizzi che siamo nel 2024, quindi al cinema certe scene crude non lo vedremo mai più, quindi questo film lo lascio andare più che volentieri.
Halle Berry è intensissima, ritorna al genere dopo i vari “Gothika” e “The Call” ma inevitabilmente dopo tre A Quiet Place, la versione locale con Nick Cage ovvero Arcadian e in generale tutta la filmografia di M. Night Shyamalan, c’è davvero qualcosa che Alexandre Aja possa davvero aggiungere? Così, in questa sua fase della carriera, in cui sembra un mestierante più che uno che faceva la differenza nel genere, non credo, mi dispiace perché ho sempre apprezzato il suo cinema, ma nella mia testa questo film o quello con Sandra Bullock bendata con i figlioli e i mostri, sono già quasi indistinguibili.
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