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Il Triello: Armor, Uno Rosso e The Apprentice

Torna il Triello, un ottimo modo per coprire tre titoli del 2024, uno buono, uno brutto e l’altro discreto (anzi precotto) usciti di recente, non perdiamo altro tempo e cominciamo!

IL BUONO – The Apprentice – Alle origini di Trump (2024)

Alla faccia di chi pensa che Hollywood ancora possa influenzare chissà cosa, questo film è stato largamente osteggiato ed oggetto di chiare polemiche, la sua volontà di uscire poco prima delle elezioni americane fa un po’ a cazzotti con il fatto che il film sia stato co-finanziato dalla Kinematics LLC, di cui è investitore Daniel Snyder, sostenitore delle campagne presidenziali di Trump (storia vera).

Va detto che “The Apprentice”, titolo brillante perché da riferimento ai trascorsi televisivi di Mister Arancione, è un film che riesce ad essere prima di tutto anti-capitalismo prima di una biografia, una sorta di Una poltrona per due senza la scommessa da un dollaro di mezzo, ma l’idiota a caso, figlio di papà promettente ma tutto da formare, che ovviamente s’imborghesisce (ancora di più) diventando il campione del mondo dei megalomani egoriferiti.

Eppure io il Soldato d’Inverno e Falcon li ricordavo diversi.

Se il primo film in lingua inglese di Ali Abbasi avesse voluto accanirsi ancora di più sul personaggio di Mister Arancione ammettiamolo, il materiale non sarebbe mancato, ma la storia si concentra sull’ascesa del giovane Donald Trump, preso sotto l’ala protettiva dell’avvocato Roy Cohn, le cui lezioni su come spiccare nello spietato mondo degli affari, saranno la base della visione a lungo termine del Tycoglione. In pratica la genesi di un super criminale, se Lex Luthor avesse ricorso ad un parrucchino, sarebbe più o meno la stessa cosa.

Nel suo essere lineare questa biografia ha un taglio realistico molto riuscito, la ricostruzione di New York a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 è molto efficace, Ali Abbasi sa come far convivere i generi, nel suo “Border – Creature di confine” (2018) era stato bravo ad utilizzare il folklore all’interno di una storia di immigrazione e integrazione, qui allo stesso modo riesce a mettere su un film dall’aspetto quasi documentaristico (alcune scelte di inquadratura sembrano arrivare da lì) applicate alla classica biografia, circoscritta ad un periodo preciso, una manciata di anni, che poi è la lezione che Michael Mann ha regalato al mondo, fa piacere vedere che qualcuno è stato attento in classe.

La puntata di “Succession” che non avete visto.

Dove però “The Apprentice” offre il meglio è nelle prove degli attori, Jeremy Strong nei panni del controverso avvocato Roy Cohn sembra uscito dritto da Succession, quasi una prova a compendio per un personaggio che malgrado la sua vita, non si definisce omosessuale perché nella sua mentalità questa parola è un sinonimo di debolezza. Strong è un attore del metodo e si vede, qui ad esempio non sbatte MAI le ciglia per tutta la durata del film, lo fa solo nel momento in cui il suo personaggio si mostra come umano, quindi per un brevissimo lasso di tempo.

Sugli scudi però merita di stare Sebastian Stan, che con un po’ di trucco e il giusto parrucc(hin)o riesce a fare quello che un attore dovrebbe fare sempre, interpretare senza imitare. Chiunque altro avrebbe ecceduto in quella boccacce da Boss Nass che dovremo tutti pupparci per (almeno) i prossimi quattro anni, Stan ne avrebbe potuto ricorrere e abusarne, in realtà trova il modo migliore per rendere il giovane Trump e la sua arroganza (e violenza) in ascesa, se poi aggiungiamo il fatto che Stan sia stato l’unico a partecipare alla campagna promozionale del film, visto che tutti gli altri suoi colleghi temendo ritorsioni per le loro carriere, lo hanno lasciato solo (storia vera).

Un tuffo indietro nel tempo, che ne dite?

Va detto che Stan si sta specializzando in ruoli da “mostro” davvero notevoli, dopo Fresh e un altro titolo che arriverà su questa Bara a breve, il Soldato d’Inverno si sta specializzando in ruoli ben più complessi di quelli da belloccio, non vorrei risultare banale parlando di trasformista, ma sicuramente uno che fino ad ora, non è ancora caduto nella facile trappola dell’imitazione, quindi bravo Sebastiano.

IL PRECOTTO – Uno rosso (2024)

Il cinema d’intrattenimento è sempre esistito, mescolare le pere con le mele, lamentandosi che roba per tutti venga distribuita in sala in modo massiccio, mentre roba magari più ricercata scompare non ha senso. Lo sappiamo che sotto Natale uscirà una roba a tema, quest’anno si tratta di “Uno rosso” (disponibile da qualche giorno anche su Prime Video), che dal titolo mi fa pensare ad un film di Samuel Fuller ma nel contenuto non potrebbe essere più distante.

A me da bambino piaceva “Il grande uno rosso” ed ora che ci penso, è più o meno da quando ero bambino (tempo-internet percepito) che gira la foto del babbo natale ultra palestrato di J.K. Simmons che tira su pesi con The Rock. Lo hanno annunciato tipo quando andavo alle scuole medie e pensavo fosse uscito prima del mio diploma, invece è uscito a novembre 2024, quando a tirare fuori gli addobbi di Natale ci pensano solo quelli che in realtà l’albero non lo hanno mai smontato da 2023, o dal 1993 chissà.

«Tengo su ‘sta ghisa dal 1993, ci credo che mi sono venute due braccia così!»

La storia prevede che… Guardate, non ho voglia, è un film talmente da poco che potrei giocarmela così: The Rock si ostina a recitare in titoli precotti, diretti da registi che lui ha schiavizzato (in questo caso Jake Kasdan, figlio di cotanto padre da cui non ha ereditato proprio tutto tutto) e ama che ci sia la parola RED nel titolo, infatti se ne valesse la pena potrei mettermi qui è tirare fuori “Il glossario del cinema Natalizio ad alto budget contemporaneo (con esempi illustrati)”.

Abbiamo di nuovo voci come “Il regista schiavo”, abbiamo “Il buddy movie” (questa volta con Chris Evans), più altre voci come “La CGI a strafottere” per un film in cui Babbo Natale palestrato Simmons viene rapito e tocca al responsabile della sicurezza e al suo bizzarro compare ritrovarlo.

Gli occhiali di Evans sono la parte che preferisco (la bionda di spalle non vale)

Nel mezzo idee anche simpatiche, come giocarsi il fratellastro di Santa, ovvero il Krampus e in generale, uno spreco di Lucy Liu nell’altro ruolo da glossario, “La generica protagonista femminile quasi ex famosa”. In generale sembra di guardare il film che ha fatto storcere tanti nasi, ovvero Kurt Russell in versione Babbo Natale, solo con molta più volontà di puntare alla serialità in stile MCU, con quel tipo di umorismo, quella CGI precotta e tutto il resto. Insomma, tolta la scena da meme delle braccione di J.K. Simmons resta pochino, se non la consapevolezza che se avessi tanta voglia di perdere tempo, solo grazie alla filmografia di The Rock potrei sfornare i “Glossari di cinema della Bara Volante”, ormai avrei più capitoli dell’enciclopedia britannica.

IL BRUTTO – Armor (2024)

Non accadrà mai che questa Bara lasci indietro un film con uno dei suoi eroi, perché Sylvester Stallone non si discute, anche se parliamoci chiaro, “Armor” non è stato pubblicizzato, nemmeno da zio Sly che è sempre prodigo di informazioni sui suoi progetti, anche quelli che poi restano in sospeso per anni, come il suo film su Poe ad esempio.

“Armor” è l’occasione perfetta per analizzare una situazione che esiste, va avanti da anni e prospera perché prima o poi anche voi ci siete in qualche modo cascati con tutte le scarpe: avete presente quei film con il divo di turno che compare sulla locandina e se va bene, cinque minuti nel corso del film? Sono titoli che prosperano nelle filmografie di Bruce Willis, John Malkovich, un po’ di Mel Gibson e di John Travolta. Sono film che costano poco, ultra generici, che permettono agli attori di potersi continuare a considerarsi tali, portandosi a casa soldi facili, anche se già sai che prenderai parte ad una robetta di una pochezza infinita che alla lunga, nessuno vorrebbe davvero ricordare, questi film hanno quasi sicuramente tutti lo stesso mandante, il produttore Randall Emmett.

Foto generica di imperitura stima a zio Sly numero uno.

A sorpresa, ma nemmeno così tanto, Emmett poi lo troviamo dietro ad alcuni film di Martin Scorsese ma la sua base di produzioni resta questa ultra popolare tipologia di prodotti a cui, a ben guardare, zio Sly non è immune, basta pensare ai seguiti di Escape Plan ad esempio, ma “Armor” è la quintessenza di questo tipo di prodotto.

Dei suoi ottanta minuti per puzza, ogni scena è alluuuuuuungata all’estremo al fine di raggiungere il minutaggio minimo considerato per un film, basta dire che ci sono più di cinque minuti di titoli di testa su inquadrature di ponti, quasi sicuramente materiale di repertorio già girato, in attesa di far entrare in scena il protagonista, voi direte, zio Sly? No, per nulla, qui l’eroe è Jason Patric nei panni di James Broody e Josh Wiggins in quelli di Casey Broody, due autisti di camion blindato.

Foto generica di zio Sly numero due, a ribadire l’immutata e immutabile stima.

Dopo trenta minuti di chiacchiere – ammettiamolo tediose – il nostro Sly entra in scena, scoglionatissimo, no dico, trenta minuti. Il suo ruolo è quello del capo della banda di criminali che attaccherà il convoglio (composto da un camion solo) e qui va in scena un film di rara tristezza, un po’ perché tutta la trama si svolge sul ponte scelto per bloccare il camion, tutto pur di fare minutaggio, quindi una volta ribaltato il camion Sly inizia la sua partita a scacchi con Jason Patric assediato dietro alle porte blindate, presentandosi come Rook, che poi è la Torre in inglese nel gioco degli scacchi. Lo so, è imbarazzante ma peggio di questo solo il modo lento e cadenzato con cui i tragici dialoghi vengono recitati, perché il gioco è occupare minuti con una trama che altrove, sarebbe stata una scena d’azione di boh, tre minuti?

“Armor” non si salva nemmeno con la particolarità dell’essere il terzo film con Stallone del ruolo del cattivo (gli altri? “Anno 2000 – La corsa della morte” e “Spy Kids 3”) perché tutto sommato la scena finale è quasi più dedicata a lui piuttosto che ai due ciarlieri protagonisti, quindi inutile girarci attorno, speriamo che Tulsa King con tutti i suoi difetti, proceda per cento stagioni, almeno il risultato finale risulta di qualità un pelo più alta dei film prodotti da Randall Emmett.

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