Torna il Triello e con lui, il creatore di questo formato, Quinto Moro, che oggi affronta tre titoli del 2020, uno buono, uno brutto e l’altro cattivo, come da tradizione Leoniana. Buona lettura!
“Né buoni né cattivi, vince chi
sopravvive” cantava Piero Pelù, molto in tono col triello di oggi. Prendete una
pala e giù a scavare tra le miserie umane.
Non odiare: Gassmann, il buono fino a prova contraria
Il film buono è quello che riesce
a non essere troppo buonista parlando del razzismo nel nostro Paese. Il
protagonista Simone Segre, interpretato da Alessandro Gassmann, si scopre
tutt’altro che buono e passa il film a cercare di espiare le sue colpe.
“Non odiare” esce in linea coi
tempi, col vento che soffia forte sulle vele degli estremismi e
dell’intolleranza (non so voi, ma questi anni me li ricorderò così), onesto e
lucido come pochi film riescono ad essere. Il progressismo nel cinema di casa
nostra di solito sta nell’infilare in una commediola un tipo di colore.
Che tipo di colore? – Un tipo di colore. – Si ma bianco, verde, rosso… – Miiii un negro, un tipo di colore negro! |
Cercando di superare la sensibilizzazione
senza sensibilità di chi vuol catechizzare l’italiano medio (ottenendo nel più
dei casi la sua indifferenza o storture di naso) “Non odiare” parte forte e
duro. Quel che già spoilerava nel trailer è la bomba iniziale, il contraccolpo
allo stomaco del buonismo: se potessi salvare la vita a un nazista, lo
lasceresti morire? Questo è quello che succede al personaggio di Gassman,
protagonista sulla carta poi sovrastato dagli eventi che ha innescato. L’essere
un medico gli dà quell’aura da insospettabile sull’omissione di soccorso. Non
come me che potrei fingere lo stomaco debole “ma sa agente, non ho potuto far
niente, c’era tanto tanto sangue, oh ma quella è una svastica? Non l’avevo
notata, sa lo shock, comunque tutto è bene quel che finisce bene, volevo dire
pace all’anima sua”.
Già nell’incipit, un regista più
navigato avrebbe messo alle corde il protagonista, perché io qualche dubbio
sull’omissione di soccorso dopo aver visto il cadavere bello tatuato di simboli
nazisti me lo sarei fatto, invece l’unico che sembra averci fatto caso è il
nostro buon medico ebreo. In un’Italia in cui ogni volta che c’è un fatto di
cronaca si guardano tutte le sfumature di pelle di vittime e carnefici, e si
esplorano profili social per attenuare, aggravare o giustificare i fatti di
cronaca, un pelo d’attenzione in più gliel’avrei dato.
Inoltre, per un film italiano in
questo periodo storico, considerato che abbiamo i nostri bei panni sporchi,
puntare tutto sulla svastica e il nazismo è una soluzione comoda. La reazione
del medico, come quella del pubblico, al tatuaggio della svastica e delle SS è
immediata e rende molto più facile giudicare. Un tatuaggio della croce celtica,
del fascio littorio, o un bel “Viva il Duce” non avrebbero prodotto la stessa
repulsione nel pubblico italiano. Che è esattamente parte del problema, e il
motivo per cui da qui in poi parlerò di fasci e non di nazi. Perché basta con
l’esterofilia forzata. In Italia si chiama fascismo. F-A-S-C-I-S-M-O.
Il fascismo è come la cittadinanza. Sta tutto nel sangue. Oppure no? |
Questo non è un film sulla
redenzione ma sul senso di colpa, né un film SUL razzismo ma un film COL
razzismo. È il ritratto di uno scontro di mondi, di realtà sociali lontanissime
tra loro. La sceneggiatura tocca le giuste corde ma ogni tanto calca la mano
passando dalla stilografica al pennarello a punta grossa. Gassman non è solo
quello che lascia morire il fascista, ha l’aggravante d’essere un medico, e la
“giustificazione” d’essere ebreo. In quanto medico è benestante. In quanto
ebreo ha un padre sopravvissuto all’olocausto che è appena morto. Ce l’ha tutte
lui insomma. Ed è questo che nel prosieguo del racconto fa perdere forza al
personaggio, annacquando la sua tragedia, facendoci sentire molto più veri i
figli del fascista. I tre sono tutti di età diverse e rappresentano tre diversi
aspetti che emergono a turno. Sono i figli di genitori separati, di una
famiglia spaccata e poi riunita dal lutto, ma sono “veri” nella routine di
tutti i giorni, i conflitti, i momenti di gioco. Tre ragazzi che dovranno
diventare grandi in fretta. È il realismo della periferia e della strada, di
chi vive in ristrettezze economiche, dovendo rinunciare a tanto – o a tutto –
per tirare avanti.
Al contrario il chirurgo ebreo
vive in centro in una bella casa, ha una donna delle pulizie straniera che paga
in nero, pure meno di quel che sarebbe onesto. Per lavarsi la coscienza d’aver
ammazzato un fascio padre di famiglia, inizia a stalkerare la figlia maggiore
per poi assumerla come domestica, salvo poi entrare in conflitto col fratello
di lei, fanatico fascista in erba. Il più piccolo dei tre fratelli rimane sullo
sfondo, è timido e chiuso, ma nel finale tira una mazzata che da sola vale più di
tanti dialoghi.
Famiglie disfunzionali crescono |
La retorica mi fa sempre girare i
coglioni. Scusate il francesismo. Perché sì, questo film l’ho apprezzato, ma per
chi ha la pretesa di leggere la realtà, piazzare l’ebreo cinquantenne contro il
fascio adolescente in una logica italica mi sa di capovolgimento della realtà
delle cose. Mi sa di quella retorica che vuole catechizzare i giovani alla
sensibilità della memoria, al rispetto delle vittime della Shoah, quando a
mancare di quel rispetto oggi sono quelli che nella cultura della memoria
dovrebbero esserci cresciuti (quelli della generazione di Gassmann per
intenderci). Quegli over 50 nostri padri, zii, nonni. Quelli che per primi
trovano la nostalgia del Ventennio – che non hanno conosciuto – per vomitarcela
addosso quando le cose vanno male, alzando lo scudo dell’intolleranza a
baluardo dell’identità nazionale.
“Non odiare” è scritto col chiaro
intento di toccare il nervo scoperto dell’intolleranza, ma devia
pericolosamente dallo scontro generazionale in corso: il vero fulcro della
questione è il padre fascio che ha educato i figli sotto l’ombra dell’intolleranza,
ma lo si leva di mezzo a tre minuti netti all’inizio del film. Ragion per cui
finisce per sminuire totalmente ogni retorica razzista, sovrastata dalla
necessità del dover tirare a campare, del mettere da parte i pregiudizi per
sopravvivere. In questo senso, non c’è niente di edificante nella ragazza che
rinuncia a tutto e finisce a lavorare per l’ebreo, solo per dover aiutare la
famiglia. Né c’è una vera risoluzione del conflitto nell’aiuto che il medico dà
a un ferito per lavarsi la coscienza.
La dinamica dei rapporti opposti
tra padri e figli nella famiglia fascista e in quella ebrea aveva un senso, ma è
indebolita da troppa sovrascrittura. La casa abbandonata del padre ebreo era
efficacie con le sole immagini, la vasca da bagno piena di bottoni
“fisiologicamente” mi ha fatto pensare all’olocausto. E forse tanto sarebbe
bastato, senza appesantire con dialoghi ragionati e passaggi forzati, tipo la
scena della sinagoga. Il fulcro non è l’antisemitismo, che pure influenza le
dinamiche tra i personaggi, ma il ritratto sociale, i mondi divisi e lontani
che non si parlano e non si capiscono finché non si scontrano.
La guerra dei mondi, con meno alieni e più alienati |
Non ho voluto scrivere del film a
caldo, e a distanza di giorni ci sono delle scene che mi tornano. Un buon film
è quello che ti lascia qualcosa. Scene come l’omissione di soccorso iniziale
(che avrei voluto più cruda), o il bambino davanti alla tomba del padre, più
una cifra di momenti sparsi, sono cose che mi porterò dentro per un po’, al
netto di un film ben girato e ben recitato. Gassmann intenso nella prima parte,
poi costretto nei dialoghi troppo costruiti. La coppia di attori più giovani,
Sara Serraiocco e Luka Zunic, è stata la vera sorpresa. Oltre la bravura degli
attori apro parentesi sul regista-sceneggiatore Mauro Mancini, all’opera prima:
c’è un motivo le cose più autentiche e scritte meglio riguardano i personaggi
più giovani, mentre i passaggi sulla memoria dell’olocausto sono i più forzati.
Mancini ha descritto tanto bene il contesto perché lo conosce, perché lo stiamo
vivendo, mentre nel parlare dell’olocausto e dell’odio razziale ha tutta la
goffaggine di chi l’ha assorbito da fonti esterne, o perché se lo immagina così.
Ma se l’antisemitismo delle camicie nere e degli skinhead ha la sua forma
ristretta e la sua nicchia caricaturale, quello più diffuso e sottopelle – che
ignora o giustifica il primo a piacimento – è più simile al “con tutti i
negretti che ci sono in giro” pronunciato dalla figlia orfana.
Più della storia costruita per
portare i personaggi a un certo punto, per mettere insieme una specie di
morale, funziona la cornice, lo sfondo realistico e riconoscibile della nostra
Italia, quella dei palazzi in centro e delle periferie. Quella di chi avanza
nella carriera e di chi deve regredire per tirare a campare. Quella di chi
eredita una casa da vendere e di chi eredita un debito dagli strozzini. Di chi
ha tutto tranne una famiglia, e viceversa.
Mancini mi ha fatto pensare a
Matteo Garrone, anche se gli manca quell’asciuttezza. Però ‘sticazzi ad
esordire con un film del genere e portare a casa il risultato.
Il giorno sbagliato: Russel, il cattivo
“Il giorno sbagliato” fila via
come uno shottino di vodka che s’infiamma in un crescendo di tensione,
inseguimenti e azione giù per la gola. Ma sul palato non lascia niente. È uno
di quei film da palinsesto estivo, tipo “Terrore su quattro ruote”, con una
spruzzata di “Duel” e “The Hitcher”, senza però arrivare a quelle vette.
I titoli di testa sono una
dichiarazione d’intenti con immagini da Real TV su incidenti e “rabbia
autostradale”, parlando della frenesia nella società moderna e di come il
cittadino medio si senta a metà tra il supereroe che può fare millemila cose al
volante, e minacciato da tutti coloro che lo circondano. La partenza con il
pippone sulla follia dilagante negli USA sembrava presagire un film dai
contenuti più densi, ma serve solo a giustificare quel che accade negli 80
minuti che seguono.
Pronti via c’è Russell Crowe
confuso e stravolto nella sua macchina. Si leva la fede dal dito, impugna un
martello, entra in casa, ammazza la moglie e l’amante. Dopo aver battuto la
carne accende il fuoco e prepara un barbecue. Infatti quando esce di casa
capiamo che se li è mangiati tutti e due, senza nemmeno aspettare che fossero
cotti, tanta era la fame che aveva.
Scusate la battuta di body
shaming, ma è diventato davvero difficile scorgere il vecchio gladiatore dietro
quell’ammasso corpulento e ondeggiante. Anche se un Russell così ingombrante con
un personaggio del genere ha il suo perché.
Per avere una minaccia grande, ci vuole un attore grande. Non ci vuole un attore grande ma un grande attore. Facciamo tutti e due. |
l’ammazzamento iniziale è inutile, serve ad abbozzare il background del villain
ma anche a dirci da subito: “hey! Questo tizio è andato fuori di testa ed è
diventato un assassino! È lui il cattivo!”, cosa che tramortisce la tensione
iniziale, rende i deliri di Russell più deboli, e l’inizio dell’inseguimento più
banale. Se Russel fosse apparso direttamente nel traffico, diventando il
cattivo di scena in scena, se avessimo imparato a conoscerne la violenza
attraverso la persecuzione stradale, il film ne avrebbe guadagnato.
Il vecchio Russell si risente
perché, dopo essersi addormentato a un semaforo, una mamma l’ha strombazzato
col clacson. Lui, che non ha ancora digerito la moglie e l’amante, prima si
scusa poi attacca un pippone paternalistico. La mamma però c’ha già i cazzi
suoi e lo tratta male. Da qui iniziano i guai. Russell Crowe in questa veste
corpulenta, con quegli sguardi penetranti e i tic da schizzato, mostra di poter
recitare alla grande (in tutti i sensi) il ruolo del villain.
“Mamma, Russel mi mangerà?”, “Se ti trova, tu corri forte e speriamo in un infarto” |
Il film non lesina botte violente
e schizzi di sangue. Gli inseguimenti sono ben fatti, il montaggio e la colonna
sonora tengono il ritmo e la tensione. Gli incidenti stradali hanno una
fisicità notevole, il sonoro è “pieno” e ci restituisce la violenza degli
scontri. Quando una coreografia di schianti non sembra una coreografia, è tanta
roba.
Purtroppo i personaggi non hanno
alcuna evoluzione, la vicenda fila via verso un finale abbastanza ordinario. Il
film intrattiene con gusto regalando momenti di tensione, ma lo script si
riduce ad una lezione di civiltà stradale, perché non sai mai chi potresti
strombazzare, perciò è molto meglio se ci diamo tutti una calmata. O i Russell Crowe che popolano le nostre strade potrebbero impazzire e inseguirci. Per poi
mangiarci.
[nota Cassidiana: il film è stato scritto dallo stesso sceneggiatore di Red Eye e si vede. Perché la protagonista femminile è una santa laica e il cattivo un attore famoso, solo che ha le automobili al posto dell’aereo di linea, ma in ogni caso termina mandando tutto, in vacca? No in Slasher! Con tanto di cover eterea di “(Don’t Fear) The Reaper” dei Blue Öyster Cult sui titoli di coda, praticamente una dichiarazione d’intenti. In ogni caso considerando l’aspetto del protagonista, per il titolo italiano io avrei scelto: “Altrimenti ci arrabbiamo”]
“Il tizio che ha detto che sei grasso? È fuggito da quella parte”, “Mmm, gnam gnam!” |
Siberia: Willem, il brutto dentro
Dopo le turbe al volante di
Giuliano Ferrara, passiamo a quelle psichiche di Abel Ferrara. Devo ammettere
tutta la mia ignoranza sulla sua filmografia. So che è un nome, un Autore,
eppure per una ragione o per l’altra non avevo mai visto un suo film.
Dopo Siberia mi son chiesto: come
giudicherebbe un neofita l’ultimo film di David Lynch? Probabilmente una boiata
terribile. Però fa strano che da lynchiano, Siberia mi sia risultato così
indigesto.
L’ho visto un po’ per riprendere
confidenza con la sala, un po’ per la carenza di distribuzione post lockdown.
Willem Dafoe era la garanzia. Il buon vecchio Willem fa la sua spettrale e
porca figura ovunque lo metti, pure in questo film ingarbugliato, a farsi
maltrattare da Abel, tutto concentrato a far vedere quanto è brutto dentro il
protagonista.
I dilemmi morali di Willem: mangiare prima il gelato o la figlia di Abel? |
Siberia è la storia di un tizio
che si isola dal mondo per una specie di penitenza interiore. Se andate a
leggere in giro è così che lo vendono, in realtà questo aspetto non si capisce
prima di 20 minuti buoni e anche di più. Il protagonista si isola per fare i
conti con se stesso e il suo passato, in un groviglio di visioni, sogni, incubi,
e una sfilza di scene che finiscono per non portare da nessuna parte.
La sensazione più irritante non è
la mescolanza di visioni disturbanti, ai limiti dell’horror, ma il non voler raccontare
qualcosa di più delle angosce e ricordi di un personaggio che non compie un
vero percorso. Il protagonista Clint, com’è all’inizio lo troviamo alla fine, e
questo non è mai un bene.
La proverbiale luce in fondo al tunnel o la luce in fondo al frigo dopo una sbornia? |
Tecnicamente discutibile il
sonoro e il (ri)doppiaggio. Non per colpa del doppiaggio italiota ma della
volontà di far recitare in italiano Willem Dafoe, nei dialoghi e nella voce
fuori campo. Ferrara pare aver sviluppato un certo rapporto con l’Italia, e
alla faccia del titolo, buona parte del film è girata tra le nevi del Trentino.
Ma Willem Dafoe che ridoppia se stesso in italiano non si può davvero sentire.
Sembra un fottuto tedesco pronto a staccarti i denti con un paio di pinze
mentre ti interroga. A questo si aggiungono lunghi silenzi e qualche dialogo in
russo che ci può anche stare, ma il sonoro e il montaggio audio rendono i
dialoghi posticci, mi portavano costantemente fuori dall’atmosfera onirica.
Io crande fan di GioPizzi, faccio doppiaccio come tettesco per azzazzinare tue oreccie |
Quel che rimane è una lunga – 90
minuti che pesano – seduta di autoanalisi da parte di Ferrara, un viaggio nelle
sue paranoie che disorienta lo spettatore passando da un delirio all’altro con
un montaggio fatto un po’ a cazzo. Lo stesso girato, montato diversamente,
avrebbe dato un altro senso al racconto. Anche se qualcosa manca lo stesso.
Molti dettagli utili a farci
capire il protagonista arrivano fuori tempo massimo. Quest’uomo isolato tra i
ghiacci della Siberia disprezza se stesso, ha dentro di sé tutto un concerto di
incubi nelle sue putride budella, ma non riesce mai a farci provare empatia o
tenerezza, tra le sue difficoltà di rapporto padre-figlio o i sensi di colpa da
marito fedifrago. Quest’ultimo elemento avrebbero funzionato meglio nella prima
parte, ma non si riesce a cogliere mai un genuino senso di colpa o un brandello
di illuminazione o redenzione.
Se non altro, non mi ha tolto la
voglia di scoprire meglio Ferrara. Ma il rischio di pernacchie da chi non lo
conosce e non gradisce i film sperimentali è decisamente alto.
P.S. Mille grazie a Quinto Moro, vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI.