Visto che avete gradito il formato inventato da Quinto Moro, torna il Triello per parlarvi di tre film del 2020, uno buono, uno decente ed un altro decisamente brutto, ma per l’occasione tutti e tre horror. Se volete potete leggere tutto facendo lo sguardo da Clint Eastwood.
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«Ciao. Sono la vocina dentro la tua testa, ti sono mancato?» |
Una volta cresciuto Luke (Miles Robbins) tornerà con l’aiuto di uno psicologo ad affrontare i traumi subiti, temendo di soffrire della stessa malattia materna, la schizofrenia. Ed è proprio qui che Daniel tornerà a trovare l’amico d’infanzia, ad interpretarlo in versione adulta troviamo Patrick Schwarzenegger, figlio di cotanto padre, che per la prima volta abbandona commedie e storielle che a questa Bara non interessano e abbraccia un genere che invece è molto popolare su questa pagine, benvenuto a bordo Patrick.
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Pesa come un braccio di papà, però è sempre un piacere ospitare uno Schwarzenegger su questa Bara. |
Daniel non è reale, su questo non ci sono dubbi fin dal titolo, ma è solo il frutto della mente turbata di Luke? È una strana manifestazione di una malattia mentale che si sta facendo largo, oppure è qualcosa di peggio? Di sicuro “Daniel Isn’t Real” è un fiero rappresentante di tutti quei film che trattano il tema del doppio. Il regista Adam Egypt Mortimer fa davvero un ottimo lavoro, oltre ad avere il nome più spaziale di sempre, insomma Adamo Egitto Mortimer, con un nome così mi farei stampare mille biglietti da visita da regalare ad ogni piè sospinto, anche agli sconosciuti per strada.
Anche se il tema del doppio è forse anche abusato, “Daniel Isn’t Real” riesce ad utilizzarlo molto bene come metafora di tutte le relazioni sociali soffocante, ad esempio dai limiti del carattere. In questo senso i due giovani attori sono molto bravi a caricarsi il film sulle spalle, senza scadere mai nei luoghi comuni. Miles Robbins riesce a risultare tormentato e fragile ma mai dimesso, mentre Patrick Schwarzenegger in alcuni momenti gigioneggia pestifero come il suo Daniel richiede, in altri riesce a risultare minaccioso con la sola presenza, pur non avendo il fisico massiccio di papà, quindi il figliolo non so dirvi se è una nuova promessa, ma qui spara un colpo nella direzione giusta, al resto ci pensa Adam Egypt Mortimer… No sul serio, ma che nome figo è dai!
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La reazione base, quando gli eventi scivolano in zona Lovecraft. |
Il film prodotto dalla SpectreVision (fondata tra gli altri da Elijah Wood, come abbiamo visto grande appassionato di horror) offre al regista la possibilità di scatenarsi. Mortimer pare sia stato piuttosto fiscale nel voler curare la palette cromatica del film, estremamente dettagliata e funzionale nel far passare la storia da teso thriller psicologico, ad horror con punte quasi Lovecraftiane, quando la vera natura di Daniel si scatena.
Insomma, per essere un film girato quasi tutto in interni, con una manciata di attori giovani, “Daniel Isn’t Real” riesce a risultare sinistro, lo scontro tra i due protagonisti va in crescendo così come le atmosfere, in generale un’altra tacca alla cintura per la casa di produzione di Elijah Wood, che nel giro di pochissimo tempo ha sfornato lavori come Mandy e Color Out of Space.
Per una faccia nota che sta lavorando bene come produttore, qui devo invece citare uno dei miei registi preferiti di tutti i tempi, ovvero Sam Raimi, che invece con la sua Ghost House Pictures, il più delle volte mi fa stridere le orecchie, tipo unghie sulla lavagna.
Il remake di “La Casa” (su cui preferirei non dire nulla), Man in the Dark e Crawl sono lavori che regalano una gioia e otto coppini sulla nuca allo spettatore, inoltre la Ghost House Pictures è nata nei primi anni del 2000 quando impazzava la moda del J-Horror, infatti dobbiamo a loro tutti i vari remake americani dei classici Giapponesi, il più delle volte molto più spaventosi delle controparti Yankee.
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Andrea Riseborough con la faccia di chi deve caricarsi un intero film sulle spalle. |
Il vecchio Sam deve aver rispolverato il contratto con cui aveva messo le mani sui diritti di sfruttamento di “The Grudge”, pensando che era il momento per un bel rilancio, quindi la prima grande maledizione ad aleggiare sul film è quella di essere il reboot di un remake americano di un film orientale. Invoco il vostro perdono per l’infilata di parole Inglesi, ma tranquilli ora la situazione andrà peggiorando.
Il piano di Sam Raimi è quello di affidarsi a giovani registi, questa volta sceglie uno che sulla Bara non era ancora arrivato, anche se ho seguito i suoi due film precedenti, con la stessa voglia che ho di parlarle del remake di “La Casa”. Per fortuna ci ha pensato Genius ad occuparsi di The Eyes of my Mother e Piercing, grazie Jack ti devo una birra!
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La mitica Lin Shaye, Scream Queen ad honorem (ma come parlo?) |
Il regista Nicolas Pesce non mi ha mai convinto davvero, la sua volontà di fare l’autore da grande, fa un po’ a cazzotti con i risultati (spesso pretenziosi) dei suoi film, e a questo punto della sua carriera, accettare di dirigere il reboot di un remake sembra più una decisione “alimentare” che un vezzo artistico, anche perché Pesce non riesce a dare al film la minima impronta autoriale.
Quello che tiene su la pellicola è l’impostazione iniziale della storia, che ruota attorno alle indagini della la detective interpretata da Andrea Riseborough, e se io devo una birra a Jack, Pesce ne deve numerose alla sua protagonista. La maledizione proveniente dal Giappone del 2004 – ovvero dal film di Takashi Shimizu con protagonista Sarah Michelle Gellar -, e fa un giro lungo prima di arrivare nella vita della donna, la parte più interessante della trama è proprio questa, perché la Riseborough è molto brava a caricarsi la storia sulle spalle. Il malessere del personaggio e le sue indagini professionali, si incastrano molto bene nel contesto di una storia di maledizioni e case infestate, anzi il disagio che trasmette la protagonista, è proprio la parte più riuscita del film, motivo per cui è finito etichettato come “Il discreto”, non certo per il suo ritmo più che ondivago. Da qui in poi non prendo più prigionieri, e giuro di non fare battutacce sul cognome del regista!
Nicolas Pesce inserisce il pilota automatico e scade in tutti i trucchetti da sbadiglio di questa tipologia di film, dai “Salto paura” (i famigerati Jump-Scare) ad ogni altro genere di trucchetto visto e rivisto mille altre volte, basta dire che l’unica scena efficace del film (anche se fin troppo simile ad una quasi identica di The Ring 3) viene sparata dritta sulla locandina, con buon pace dell’effetto sorpresa.
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Ci sono più capelli davanti agli occhi in un J-Horror che in un allevamento di Bobtail. |
Quindi non andiamo oltre l’esercizio di stile, oppure un lavoro su commissione per Pesce, che sta tentando di (…non dire restare a galla, non dire restare a galla!) restare a galla nel mondo dell’horror, mettendosi sotto l’ala protettiva di Sam Raimi. Niente, non sono riuscito a non fare battute sul cognome del regista!
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Ok Brahms, lascia stare Piccettino e nessuno si farà del male. |
“Brahms: The Boy II” che da noi è diventato “The Boy – La maledizione di Brahms”, è di fatto lo stesso identico film, con un’attrice più famosa nel ruolo della madre, qui tocca ad una rediviva Katie Holmes, che ogni tanto prova a tornare sul grande schermo proprio con gli horror, ma senza troppa fortuna.
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«Mamma ho paura», «E non hai nemmeno visto la piega presa dalla mia filmografia» |
Se il primo capitolo era un film quasi audace nel suo passare agevolmente da un genere all’altro, questo seguito è grigio, svogliato e pigro come il volto di porcellana di Brahms, che qui finisce a diventare il giocattolo del cuore di un nuovo bambino, e per ripetere le stesse identiche dinamiche del primo film.
Brahms è davvero una bambola maledetta oppure il bimbo si sta inventando tutto? Per rispondere, la storia procede nel modo più banale del mondo, di fatto un personaggio come Brahms che poteva diventare una nuova icona horror, qui prende placidamente la via più banale e dirla tutta, anche quella più stantia.