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Il Triello – speciale Horror: Hatching, The Grandmother e Veneciafrenia

Torna il Triello, oggi affronterò tre titoli tutti del 2022, uno buono, uno discreto ed un altro decisamente bruttino, cominciamo!

IL BUONO
Hatching – La forma del male (2022)

Dico sempre che tra i generi horror, il mio preferito resta lo Slasher, ma è anche vero che quello con cui mi trovo più a mio agio è il Body Horror, tu dammi un po’ di mutazioni e mi farai contento.

Alla ricerca di nuovi titoli, anche la Finlandia va bene, infatti proprio da qui arriva l’esordio alla regia di Hanna Bergholm, alle spalle tanti cortometraggi e serie televisive, prima di arrivare a questa sua opera prima davvero riuscita, vi basterà ignorare il solito inutile sottotitolo italiano, un giorno mi stuferò e smetterò proprio di riportarti nei titoli dei post.

La bionda Sophia Heikkilä interpreta una madre di famiglia senza nome, non ne ha davvero bisogno visto che incarna un archetipo narrativo fin troppo beh, familiare, ovvero quello della madre castrante e apprensiva, infatti Hanna Bergholm apre il suo film alla grande, con la donna impegnata a sfoggiare sul suo Blog e relativi profili sui Social-cosi lo splendore della sua casa. Ora, io non so come si dica “Famiglia del Mulino Bianco” in finlandese, ma se vi interessa mi informo e ve lo farò sapere.

Il vero orrore, l’asta da selfie!

Ad interrompere questo Idilio da Social, un brutto corvo nero che irrompe nel soggiorno devastando tutto, insomma i famigerati cinque minuti iniziali che mettono in chiaro tutte le intenzioni e il ritmo di “Hatching”. La bionda capo famiglia ha un marito zerbino (Jani Volanen), un figlio minore viziato e “mini me” paterno ma soprattutto una figlia di nome Tinja (Siiri Solalinna), costretta a vestire come mammà, ad eccellere in tutto a partire dalla ginnastica, perché la poveretta, soggetta ad una leggerissima pressione materna, deve essere come il profilo Instagram di mamma: l’immagine di una perfezione impossibile.

Quando mamma costringe Tinja a gettare quello schifo di corvo morto nella monnezza, la ragazza trova un piccolo uovo, una sorta di vendetta postuma del pennuto che Tinja porta a casa e letteralmente “cova”, nascondendolo tra i cuscini del suo letto, occhio che arriva la parte Body Horror.

Sarà nato prima l’uovo o la metafora?

Come in una favola nera (di cui “Hatching” condivide molto dell’atmosfera), l’uovo cresce, cresce e un giorno si schiude, quello che ne esce è… avete presente i pennuti bruttini e un po’ spelacchiati appena usciti dal guscio? Ecco uguale solo cento volte più grande del normale, un Calimero viscido e schifoso, talmente brutto che basta guardarlo due volte per avere subito l’istinto di abbracciarlo e volerselo tenere stretto a vita, cosa che puntualmente accade a Tinja, che in fondo è una di noi.

“La seconda regola era non bagnarlo, giusto?”

Hanna Bergholm è bravissima a suggerire un’atmosfera da favola dei fratelli Grimm grazie ai tanti piccoli dettagli, la creatura che a colpi di faticosi cinguettii sostiene di chiamarsi Alli, si nasconde spesso sotto il letto o nell’armadio, i luoghi prediletti dei mostri dell’infanzia, oppure a suo modo tenerissima (si fa per dire), porta dei sanguinanti regali alla sua nuova neo mamma, appollaiandosi sul suo petto mentre Tinja dorme nel letto, con la posa tipica dell’Incubus.

Alcuni mostri si nascondono sotto il letto altri beh, si riposano.

Ma avevo promesso del Body Horror e “Hatching” mi permette di essere di parola, perché per nutrire Alli, Tinja è costretta a fare come la mamma-uccello, non fatemi scendere in dettagli, magari qualcuno di voi mi legge facendo colazione. Ma la svolta vera arriva quando Alli, inizia a sfoggiare dalla sua capoccia ossuta una ciocca di capelli biondi, proprio come quelli di Tinja. Ok vi ho appena venduto il film, il minimo dopo avervi fatto andare di traverso la colazione.

Alli è una creaturina adorabile, a volte crudele perché non ha avuto troppo tempo per imparare la differenza tra il bene e il male, anche perché Tinja di suo ha già i suoi bei problemi a gestire le ipocrisie di una madre che conduce una vita di plastica da copertina, ma poi si spupazza Tero (Reino Nordin), atletico tuttofare di casa, insomma è qui che Hanna Bergholm si gioca alla grande due carte, la prima è quella del METAFORONE la seconda gli effetti speciali.

“Ciao sono la metaforaaaaaaaaa!”

Per animare e far muovere Alli, sono stati utilizzati un misto di grafica computerizzata e vecchi trucchi artigianali, di fatto la pennuta in trasformazione è un enorme burattino condito dalla CGI realizzato così bene, da non sospendere mai l’incredulità necessaria alla storia, mi sembra anche superfluo sottolineare di cosa sia la metafora Alli, l’avrete già capito ma è il bello dei Body Horror, poter utilizzare il genere e le mutazioni (spesso anche rivoltanti), per parlare delle nostre trasformazioni, perché di fatto è davvero impossibile non riconoscersi un po’ in Tinja.

Of course Mama’s gonna help build the wall (cit.)

La ragazzina sviluppa una specie di legame simbiotico con Alli, che prende fin troppo sul serio gli istinti e le esigenze della sua mamma, se all’inizio si limitava a portarle piccoli doni da cacciatrice, nel corso del film il bottino crescerà insieme alla posta in gioco, quindi il sangue non mancherà ma non voglio aggiungere altro, perché il film di Hanna Bergholm si segue alla grande e anche grazie al METAFORONE piuttosto chiaro, si resta incollati alla storia fino ai titoli di coda.

Insomma “Hatching” è un esordio davvero valido per una regista da tenere d’occhio, mescolare in questo modo adolescenza e favole, Body Horror e storie sulla cresciuta senza risultare mai didascalico, denota del talento, malgrado il suono completamente alieno (alle mie orecchie) del finlandese, ci si ritrova subito in questa fiaba oscura.

IL DISCRETO

La abuela – The Grandmother (2022)

Il rinascimento dell’horror spagnolo dei primi anni del 2000 ci ha fatto pensare che della coppia artistica composta da Jaume Balagueró e Paco Plaza, il primo fosse quello con la creatività trascinante, ma forse quello più continuo era Plaza.

I due hanno continuato a palleggiarsi il ruolo di regista nei vari seguiti della saga di REC, quindi mi ha fatto piacere ritrovare Paco Plaza alla regia di questo horror geriatrico piuttosto cattivello, la storia è quella della modella Susana (Almudena Amor, perfetta per il ruolo), una che ormai ha spento la sua venticinquesima candelina, che per il mondo della moda equivale più o meno alla lucina rossa sulla mano come in La fuga di Logan. Rimasta qualche anno fuori dal giro per Susana è ora o mai più, mentre le sue ex colleghe compaiono su manifesti e pubblicità, con profili sui Social-Cosi che spopolano, lei è rimasta un po’ al palo e il destino decide di metterle ancora un po’ i bastoni tra le ruote.

Il buon vecchio Paco che zitto zitto, non molla l’osso.

Tornata in Spagna per provare a sfondare davvero come modella, si ritrova invece l’ultima parente in vita della ‘pora nonna del titolo, incapace di badare a se stessa, non può più stare nella struttura dove ha vissuto negli ultimi anni, quindi Susana dovrà portarsela a casa, alla faccia delle sue sinistre apparizioni notturne, alle risatine isteriche come se la nonna vedesse cose che non ci sono e che solo lei, trova così divertenti insomma, una pacchia per la nostra protagonista, che ogni giorno vede i suoi sogni di gloria sfumare.

Paco Plaza è bravo a creare il legame tra le due donne, lo mette subito in chiaro, la posta in gioco per Susana è alta ma va a braccetto con la sua dedizione per la nonna, con cui ha un rapporto piuttosto protettivo. “La abuela” quindi, nei suoi 99 minuti di durata si gioca le incursioni notturne della nonna e i suoi strambi comportamenti, che beccami gallina se noterà chiunque altro non risponda al nome di Susana.

La non tanto tenera nonnina.

Paranoia? Il desiderio nemmeno troppo represso di liberarsi dell’anziana, che per quanto amata è anche una discreta zavorra? Almudena Amor è bravissima a tratteggiare un personaggio teso tra amore e senso di responsabilità per la nonna, ma con l’aria di chi vorrebbe dedicarsi solo alla propria vita e carriera.

Plaza non tira mai via la mano quando è il momento di giocarsi un momento cattivello, che sia un incidente in cui qualcuno ci lascia le penne, oppure nei movimenti da contorsionista della nonnina, che la rendono sinistra ad ogni apparizione. Ma soprattutto è bravo nel sottolineare (senza però utilizzare per forza il pennarellone a punta grossa) lo scontro tra corpi, quello della giovane protagonista e quello reso decrepito da Padre Tempo della nonna. Insomma nulla di particolarmente nuovo, ma l’atmosfera è quella giusta e un paio di momenti di riuscita tensione ci sono tutti.

Quando spunta uno specchio in un horror, le coronarie sono già pronte a saltare.

Potremmo dire che per certi versi “La abuela” è la versione più accessibile, meno votata alla metafora e più al colpo di scena horror di Relic, alcuni temi sono quasi gli stessi, ma Paco Plaza è più cattivello portando in scena un finale beffardo, insomma il disagio non manca, se volete una serata in allegria, magari questo film non farà per voi, ma è un ottimo candidato per il filone sempre attivo dell’horror geriatrico, che ultimamente sta trovando svariati nuovi titoli da aggiungere alla tradizione, oltre a ricordarci che Plaza è ancora in circolazione e con una filmografia per certi versi più solida di quella del suo compare.

IL BRUTTO
Veneciafrenia (2022)

Avete presente la formula collaudata di quei film horror, con protagonista bande di odiosi studenti Yankee, in viaggio all’estero per festeggiare lauree o prossimi matrimoni, armati di zaino in spalla e voglia di fare caciara fuori dai confini degli Stati Uniti?

Il tipo di film dove queste giovanotte e giovanotti di solito vengono ammazzati malamente, perché il messaggio di fondo è sempre quello per cui, fuori dall’unico Paese al mondo che conta, sono tutti dei pazzi selvaggi, mica come gli americani, che possono acquistare armi come se dovessero combattere i Cobra e dove le donne non possono decidere nemmeno del loro corpo.

Ecco, quel pazzarello di Álex de la Iglesia ha pensato bene di applicare la stessa formula, però cambiando gli stati coinvolti, in Veneciafrenia gli studenti in viaggio sono spagnoli e la nazione ospitante è l’Italia, in particolar modo Venezia durante il carnevale, piuttosto vuota perché il film è stato girato in piena pandemia (storia vera).

Presentato al festival di Sitges, il film prodotto da Sony e da Amazon Prime Video (quindi aspettatevi di vederlo comparire sulla popolare piattaforma a breve), l’ultima fatica di Álex de la Iglesia fa parte del progetto “The Fear Collection”, una sorta di operazione in stile Welcome to Blumhouse.

“Laggiù ci sta un ristorantino che è una meraviglia, dopo vi ci porto”

Venezia è sempre uno scenario affascinante, infatti l’assassino di turno qui è vestito come un giullare in costume da carnevale veneziano, che invoca la vendetta, tremenda vendetta del Rigoletto, mentre passa a filo di lama tutti quei turisti molesti che visitano la città in modo superficiale, più interessati a scattare “selfie” ma soprattutto, sbarcando dalle famigerate grandi navi che sono un tema caldo in laguna.

“Grandi navi, io odio le grandi navi!”

“Veneciafrenia” significa proprio questo, neologismo coniato per descrivere la frenesia da turismo urticante che affligge Venezia, purtroppo l’unica vera novità rappresentata dal film è davvero solo sentire il nutrito cast di attrici e attori italiani (tra cui spiccano l’ex Bond Girl Caterina Murino oppure il “taxista” Enrico Lo Verso) recitare in perfetto italiano, la lingua che di solito, viene scimmiottata dalla comparse bulgare, anche perché prova a ricreare Venezia su un set in Bulgaria, se ci riesci.

Il momento esatto in cui inizia a fare il tifo per l’assassino.

Il problema di “Veneciafrenia” è che una volta digerito e compreso il fatto che si tratta della solita formula degli americani spagnoli in vacanza, il film non offre davvero niente di nuovo. Certo il sangue non manca e se per questo, nemmeno un rave clandestino con le musiche dei Die Antwoord, per la precisione il loro pezzo “Happy go sucky fucky”. Però da un regista capace di rigirare i canoni o di far iniziare i suoi film a tavoletta come Álex de la Iglesia, ci si aspetterebbe più creatività che la pura e semplice applicazione di una formula abusata.

Per una volta su questa Bara, non solo il solo giullare.

La sensazione è che il buon Álex, abbia visitato Venezia, si sia fatto incuriosire dalla protesta contro le grandi navi e abbia svolto un compitino in cui l’ambientazione è davvero l’unica novità, il fatto che alle mie orecchie poi, l’accento spagnolo assomigli al veneto, resta solo una brutta freddura che mi gioco alla fine del post, visto che spero di rivedere il registra presto, magari con trame più ispirate di così.

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