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Il Triello – speciale Horror: Paranormal Activity – Next of Kin, La casa in fondo al lago, Antlers – Spirito insaziabile

Il formato a tre titoli inventato da Quinto Moro ormai lo
conoscete, oggi affronterò tre titoli tutti del 2021, uno buono, uno decente ed
un altro brutto sfortunato, anche se lo ammetto candidamente, ho
pasticciato con le categorie perché a questi tre film andavano un po’ strette.
Cominciamo!
IL BUONO (anche da
mangiare)
“Antlers – Spirito
insaziabile” (2021)


Ho un grosso rammarico in quanto Blogger, non essere mai
riuscito a scrivere di Scott Cooper come meritava, ho apprezzato i suoi “Crazy
Heart” (2009) e “Il fuoco della vendetta” (2013) che per altro iniziava con i
pezzo dei miei Pearl Jam, il post che avevo scritto su “Black Mass” (2015) è
andato bruciato per un problema con il blog (storia vera), ma soprattutto mi
dispiace non aver mai scritto di “Hostiles” (2017), il suo film migliore di cui
avevo un titolo già pronto per il post, che mi fa ridere se ci penso ancora
oggi, dovrei scriverlo anche solo per quello.

Sono comunque felice di poter portare Scott Cooper su
questa Bara proprio con il suo esordio con un genere per lui inedito come
l’horror. “Antlers”, appesantito dal solito sottotitolo italiano, è stato
prodotto da Guillermo del Toro e tratto dal racconto “The Quiet Boy” di Nick
Antosca, anche autore della sceneggiatura a sei mani insieme allo stesso Scott
Cooper e a C. Henry Chaisson.

Bisogna dire che il racconto è piuttosto differente dal
film, nel senso che il punto di vista cambia ed è chiaro che qui ci sia lo
zampino di Cooper, che ha trovato il modo di fare sua la materia, rendendola
coerente con il suo cinema ma allo stesso tempo, con un enorme rispetto per il
genere di cui fa parte, più avanti ci torneremo promesso.
Sembrano i disegni che facevo io a scuola, forse per quello la mia maestra era sempre così turbata?

La storia è quella di Julia Meadows (un’azzeccatissima Keri Russell), insegnante
in una cittadina dell’Oregon che comincia a tenere d’occhio uno dei suoi
studenti più introversi, forse perché in Lucas Weaver (Jeremy T. Thomas) la
donna riconosce quei segni di abusi che purtroppo conosce fin troppo bene e che
sta tornando ad affrontare da quanto è ritornata a vivere nella cittadina,
insieme a suo fratello, lo sceriffo locale Paul, i silenzi e le spalle cadenti
di Jesse Plemons, lo rendono il perfetto interprete per il ruolo.

Se il racconto originale era tutto dal punto di vista del
“ragazzo tranquillo” del titolo, Cooper se la gioca al contrario, portando
brillantemente in scena una cittadina di provincia tutta basata su vecchie
miniere ormai esaurite che un tempo erano il cuore dell’economica locale, ed
ora offrono rifugio ai “cuochi” di metanfetamina (non a caso Plemons è ancora
nella zona delle operazioni) che è il
nuovo prodotto di punta locale, con tutta la decadenza che ne consegue. Questo
lo rende un film perfettamente in linea con gli altri già diretti dal regista,
ma passiamo ai difetti prima di parlare dei notevoli pregi del film.
“Certo che Cassidy disegna proprio da schifo, ma fa uso di droga per caso?”

Il prologo, così importante per gli horror qui sembra quasi
un corpo estraneo al film, di sicuro Cooper è più a suo agio nello scoprire le
carte poco alla volta, raccontandoci l’orrore nascosto dietro alla facciata
della cittadina, utilizzando i drammi dei suoi personaggi. Ecco perché quel
prologo sembra quasi una forzatura per un film che non si perde in spiegoni
sull’origine dell’elemento sovrannaturale, perché ha capito che mostrarne gli
effetti è molto più interessante, anche in termini cinematografici. Ma devo
essere onesto, questo è l’unico errore da esordiente (per un horror) che fa
Cooper, perché il resto il film fila alla grande.

Quella volontà di dire tutto senza spiegare niente si
traduce in un perfetto “Show, don’t tell” che caratterizza tutti i personaggi,
basta una carezza nel momento sbagliato per far sussultare la protagonista
persa nei suoi brutti ricordi del passato e allo stesso modo, Cooper non ci
racconta la vita di Lucas, costretto per amore verso la sua famiglia ad
un’esistenza da cercatore di carogne, che è una schiavitù che Cooper sa raccontare
alla grande, anche portando in scena la coppia di fratellini più inquietati
visti al cinema di recente.
“Vorrei vedere te al posto mio Cassidy, con la vita che faccio, tzè!”

Sapete dove Cooper si è guadagnato tutta la mia stima?
Nel suo approccio al cinema horror come vi accennavo lassù: totale assenza
della spocchia di chi arriva da un genere considerato (dai critici con la pipa
e gli occhiali) più “alto”, ma anzi una chiara volontà di approcciarsi
al genere come uno che ha studiato, ha capito e ha assimilato la lezione.
Scott Cooper riesce a raccontarci una storia drammatica anche di degrado
urbano, sfruttando un mostro grosso, con le corna, che gronda sangue e nell’aspetto non solo risulta originale, ma anche gustosamente trucido. Tutto questo senza trattare il mostro con superficialità o come il prezzo da pagare perché il suo
film venga prodotto da Guillermo del Toro e distribuito sotto l’etichetta
“Horror”, bravo Cooper! 
 
Per certi versi Cooper mi ha ricordato l’atmosfera di
certi romanzi di formazione di Joe R. Lansdale, ed ora vorrei tanto vedergli
dirigere un adattamento di “In fondo alla palude” (2000), voi invece date una
possibilità a questo film che sa parlare di un argomento trattato poco dal cinema horror, ma che Cooper ha saputo raccontare davvero bene, con un approccio che potrebbe portare nuova carne e sangue al
filone. Ok, forse avrei dovuto optare per una scelta di parole più azzeccata.
 
IL DISCRETO (anche se non so come si dica in francese)
“La casa in fondo
al lago” (2021)

 
Purtroppo tra una serrata e l’altra, tra i film che ho
perso durante la sua (breve) militanza nelle nostre sale, metteteci anche
l’ultima fatica di Alexandre Bustillo e Julien Maury, un film che visto a casa devo dire, assume tutta un’altra
dimensione, anche se per immedesimarmi per davvero, avrei dovuto tappare gli
scarichi come i banditi del rubinetto.
Un inizio rivelatore, ma anche il modo migliore per godersi il film a casa.
 
Sfortunato nelle tempistiche dell’uscita, l’ultimo film
dei registi francesi non ha proprio fatto impazzire la critica, che ormai dagli
autori di quella pietra miliare che è “À l’intérieur” (2007) si aspetta solo
una cosa: sangue, sangue, sangue!
 
Peccato perché “La casa in fondo al lago” ha altri
intenti, ovvero nasce come una sorta di found footage 2.0 in cui i protagonisti
non utilizzano più nastri e VHS come ai vecchi tempi, ma sono creatori di contenuti per Internet, youtuber e
podcaster a caccia di “followers” per i loro canali, uno spunto di partenza che
sta diventando sempre più materia per il cinema horror.
 
Qui i protagonisti sono Ben (James Jagger) e Tina (Camille
Rowe) una giovane coppia newyorkese, che viaggia per l’Europa in cerca di case
infestate per registrare le loro esplorazioni da pubblicare in video su YouTube.
I due ne trovano una ghiottissima, costruita sul fondo di una valle trasformata
nel tempo in un lago, come accade spesso in molte vallate francesi, quindi
droni, GoPro e le telecamere piazzate sopra le maschere da sub, diventano il
nuovo “occhio” del pubblico, in questo found footage 2.0 acquatico, che è
acquatico per davvero.
“Ma si chiama lo stesso found footage anche se poi nessuno più ci ritroverà mai?”
 
Inutile girarci attorno, spogliato di tutto “The Deep
House” sarebbe solo l’ennesima storia di ragazzi che visitano una casa
infestata, per di più diretta utilizzando la tecnica del found footage quindi
se cercate l’originalità non bussate a questa port… AHAHAH capito no? La porta
perché il film si chi… Ok, la smetto.
 
Per di più Alexandre Bustillo e Julien Maury si fanno
prendere da una certa voglia, leggermente fighetta devo dirlo, di fare
l’ennesimo discorso sullo sguardo: spunta una bambola durante l’esplorazione SUBBAQQUI? Ok, quindi perché non far
dire ai protagonisti una frase tipo «Le bambole orribili funzionano sempre»,
rendendo più sottile quella parete immaginaria che separa pubblico e
personaggi. Non è nemmeno un caso se poi, in un caso di “Io scippavo e m’han
scippato” (cit.) chi entra in tuta da sub nella casa per riprendere, scopre a
sua volta che le presenze, attraverso vecchie filmati e pellicole a loro volta
riprendevano gli incauti ospiti. Insomma la tentazione di citare “L’occhio che
uccide” (1960) è fortissima per Bustillo e Maury che lo fanno spudoratamente, tanto che una delle telecamere dei protagonisti è
soprannominata proprio Peeping Tom, più chiaro di così si muore (ripresi da una
cinepresa).
“Mettiamola così, dovesse andare male siamo pronti per girare Avatar 2 con Cameron”
 
Se riuscite ad immergervi (ah-ah), in questa premessa vagamente fighetta, quello che troverete è la vera forza di “La casa in fondo
al lago”, un film che va in controtendenza con tutto il cinema mondiale, infatti
i due registi non solo hanno fatto costruire un set realistico, tutto
realizzato con materiali in grado di resistere all’acqua, ma poi si sono
affidati al lavoro di un direttore della fotografia come Jacques Ballard,
grande esperto di riprese acquatiche, il tutto rifiutandosi di farsi aiutare –
come succede spesso oggi – dagli effetti speciali per simulare le ambientazioni
sottomarine, posso dirla fuori dai denti? Dimenticatevi i ciuffi di capelli finto svolazzanti di Aquaman.
Bella casa, molto tranquilla e spaziosa, ecco forse un po’ umida.
 
Blake Lively sarà stato in acqua più sulla locandina di Paradise Beach che per tutte le riprese del film,
stesso discorso per Kristen Stewart in Underwater
(che tornerà di moda più avanti nel post), perché parliamoci chiaro, il fatto che The Abyss ai tempi non incassò quanto
sperato, ha fatto cambiare le abitudini di Hollywood, ormai lo sappiamo che si
gira quanto più in sicurezza possibile (per fortuna), ma a perderci è proprio
il cinema, che come ci ricordano Bustillo e Maury sarà pure il trionfo della
finzione mostrata, ma se quando lo stai realizzando, giri quanti più elementi
dal vero, il risultato finale aumenterà la riuscita dell’opera. 
 
La parte migliore di “La casa in fondo al lago” sta tutta
qui, quel realismo aiuta a tenerci in tensione durante l’esplorazione, poi tra
buio, freddo percepito e catene, in alcuni momenti il film mi ha fatto pensare
un po’ a Clive Barker e tanto basta per posizionarlo sul secondo gradino di
questo Triello.
 
IL BRUTTO
LO SFIGATO
Paranormal Activity – Next of Kin (2021)
 
Si, hanno fatto un altro “Paranormal Activity”, non
chiedetemi a quanti siamo arrivati perché ho perso il conto (credo ottantadue,
almeno percepiti), guardandolo ed essendoci di mezzo quel volpone di Jason
Blum, mi è venuto istintivamente da pensare che alla sceneggiatura già pronta
scritta da Christopher Landon (autore
dei “Paranormal Activity” dal numero due al numero cinque), il vecchio Giasone
abbia deciso di far inserire a forza un paio di scene notturne, giusto per
vendere il film come parte della redditizia saga inaugurata da Oren Peli nel
2007, che ai tempi spese l’irrisorio budget in parti uguali di macchine da
prese in affitto e bibite energetiche per stare sveglio la notte a girare
(storia vera).
 
“Paranormal Activity – Next of Kin” è la storia di Margot
(Emily Bader) e della sua piccola troupe di documentaristi, impegnati a girare
tra la comunità Amish locale, che per la ragazza è anche un’occasione per
indagare su sua madre Sarah, scomparsa in circostanze misteriose lasciandola
sola decenni prima.
“Facciamogli l’inganno della cadrega” (cit.)
 
Quindi un classico horror con ragazzi all’interno di una
comunità chiusa, che ben presto si rivelerà essere piuttosto inquietante, che però viene
“sporcato” con momenti classici da film della saga di “Paranormal Activity”,
oppure il contrario a seconda dei punti di vista, perché la sfiga di questo
film sta tutta qui: non è abbastanza classico e ripetitivo nella formula per
essere il solito “Paranormal Activity”, oppure è troppo “Paranormal Activity”
per conquistare il pubblico che non ne può più di statici…BUUU! Il che è un
paradosso, perché per quello che mi riguardo è uno dei “Paranormal Activity” che mi
ha divertito di più.
 
Se “The Marked Ones” (2014), era un horror con una sua
storia indipendente, che solo negli ultimi cinque minuti finali per puzza, si
riagganciava alla saga di “Paranormal Activity”, questo nuovo film parla ancora
di famiglia (come tutti i film della saga), ma cerca di svecchiare la formula,
per altro mescolandola con quella del found footage, infatti per certi versi mi
ha ricordato più V/H/S/ che la saga nata dalle bevande energetiche di Oren
Peli.
“Cercavo un posto per fare la cacca, ma questi continuano ad inquadrarmi”
 
Jason Blum ha affidato la regia a William Eubank, regista
di Underwater (che lo avevo detto che
sarebbe tornato) che al netto della solita storia, popolata da personaggi
parecchio toncoloni, che puntualmente si infilano nei casini invece di scappare
alla prima situazione propizia, firma un film dove alla faccia dell’effetto mal
di mare tipico dei found footage, ogni azione per quanto concitata risulta
sempre estremamente chiara e comprensibile.
Il dramma del perdere le lenti a contatto.
 
Eubank dirige il suo film utilizzando le stesse macchina
da presa dei cineasti protagonisti della storia, questo gli permette di potersi
giocare un “rallenty” in una delle scene più ad effetto del film, perché è
piuttosto chiara la volontà di provare ad esplorare nuove soluzioni per la saga. Pur
continuando a parlare di famiglia e di maledizioni, sempre in un ambiente
chiuso (in questo caso la comunità Amish), Eubank gira molte scene all’aperto e
anche di giorno, ma la volontà di rottura dello schema sta anche nel suo
tradimento della tecnica del found footage, generosamente sporcata dal caro
vecchio montaggio cinematografico che aiuta il regista a portare in scena un
finale gustosamente anarchico per un film in cui la parte migliore alla fine è
proprio la regia, il che in un found footage, per di più associato alla saga di
“Paranormal Activity” non è proprio la normalità ma anche la prova del talento
di William Eubank, che dal punto di vista visivo non è davvero secondo a
nessuno, certo se poi gli affidassero anche una sceneggiatura e una storia come
si deve su cui lavorare sarebbe meglio per tutti, lui per primo.
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