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Il Triello – speciale infanzia: Sotto Scacco – Radio Flyer – The Wizard

I bambini! Qualcuno pensi ai bambini! I film d’infanzia sono sempre
stati un pallino del nostro Quinto Moro, perciò non poteva mancare un triello a
tema. C’è chi gioca a scacchi, chi tira un carretto e chi sta in fissa coi
videogiochi, ma la partita più grossa va giocata sempre contro gli adulti.

Sotto scacco – Alla
ricerca di Bobby Fischer (1993): dagli scacchi ai calci in culo

IL BUONO
“Alla ricerca di Bobby Fischer” racconta la storia (quasi) vera di un piccolo
prodigio degli scacchi che si ritrova ad affrontare le pressioni del suo
talento, e pur indorando la pillola di tanto in tanto, rivederlo da adulto mi
ha fatto capire perché l’avessi apprezzato tanto da ragazzino, quando non
sapevo nemmeno cosa fosse un alfiere.
Alla sua età, anch’io giocavo a scacchi come lui, ma solo in questa scena.

Josh Waitzkin è un ragazzino newyorkese che, incuriosito dagli scacchi,
riesce ad apprenderne le basi osservando i giocatori. La Regina degli Scacchi ha usato un po’ la stessa formula, ma bisogna lasciare da parte la sospensione
dell’incredulità perché i bambini hanno un approccio tutto loro a questo gioco,
che ne rende alcuni molto simili ad armi di distruzione di massa. Il genio
precoce di Waitzkin non è fantascienza, era uno di quelli veri, salvo poi
tirare un calcio alla scacchiera (letteralmente) per darsi alle arti marziali.

La sceneggiatura è tratta dal romanzo scritto da Waitzkin-padre, figura
ambigua all’interno del film, in bilico tra la causa dei malumori del piccolo
Josh, e la figura salvifica. Il fatto che venga fuori un personaggio così
controverso dalla SUA versione dei fatti, fa un tantino pensare.

Papà Waitzkin è interpretato dal sempre carismatico Joe Mantegna che ve
lo dico, a me stava sulle balle sin dalla prima visione, ma Joe sa muoversi
benissimo fra il babbo stronzo e il comprensivo. La figura più positiva è
ovviamente la-mamma-che-è-sempre-la-mamma Joan Allen, mentre lo spigoloso e
severissimo maestro è Ben Kingsley. Ben, con quegli occhi penetranti e il volto
impassibile funziona bene, mentre è più all’acqua di rose il secondo maestro di
Josh, il giocatore di strada: Lawrence Fishburne. Cast mica da ridere, nevvero?

Ho lasciato il protagonista per ultimo, lo sconosciuto esordiente Max
Pomerac, semplicemente perfetto nel ruolo. Non avrà fatto tanta strada, ma la
sua naturalezza davanti alla macchina da presa, con quel suo piglio malinconico
e taciturno, sono perfetti per un piccolo genio che cerca di sbocciare.

“Tu sei l’eletto…” – “Come scusa?” – “No niente, facevo una profezia”

Il talento di Josh diventa il suo tormento. Il gioco diventa pressione:
quella del padre, del maestro, dell’America intera. Si perché Bobby Fischer,
primo e finora unico campione del mondo AMMERICANO, da personaggio un pelino
eccentrico (“Un genio! O un autentico pazzo…” Cit.) sparì dalle scene proprio
dopo aver conquistato il titolo mondiale. Da qui la “ricerca” di Bobby Fischer,
un’ossessione negli ambienti scacchistici, a metà tra la smania di veder
riapparire il campione e quella di trovare un successore da glorificare sull’altare
a stelle e strisce.

Il film offre uno sguardo sulla venerazione di Fischer, divenuto negli
anni un’ombra sulle spalle dei talenti americani, come accaduto al piccolo Josh
Waitzkin. Ma sostituendo agli scacchi un’altra disciplina avremmo il tipico racconto
di genitori che vivono le proprie speranze attraverso i figli, con
ambienti-tritacarne che trasformano il divertimento in obbligo, depressione e
isolamento sociale. Bastano due scene: il piccolo Josh sotto la pioggia
cazziato dal babbo dopo una sconfitta, e l’arbitro del torneo che va a chiudere
i “genitori elicottero” nei sotterranei, coi bambini che si abbandonano ad un applauso.

Gli scacchi sono per gente calma e pazien… ma anche no.

Non sembra mai che dietro la macchina da presa ci sia un esordiente,
almeno in quel ruolo. Steven Zaillian aveva la mano calda, reduce com’era dagli
script di “Risvegli” e “Schindler’s list” (robetta proprio) qui si è buttato
pure sulla regia, senza sbavature. Certo aiuta la solidità del cast e della
crew, come il maestro Conrad Hall alla fotografia, che tira fuori scene con
luci e chiaro scuri fantastiche, specie nelle scene alla scacchiera.

Il film è ben confezionato, l’unica pecca è vedere l’ottimo script
trasformarsi nella tipica “ascesa del protagonista perché sì”. Il montaggio e
tutto il pathos nel finale ci restituiscono il senso di sfida, ma l’avversario
è solo messo lì solo per glorificare il protagonista. Solito schema visto mille
volte: il rivale è freddo e all’apparenza imbattibile, l’eroe dev’essere
tormentato, il talento naturale/proletario che ha superato e sconfitto le
brutture dell’ambiente tossico degli scacchi. E certo. La storia del vero
Waitzkin insegna proprio questo. O no?

“Il mio maestro di scacchi me le dava più forte!” (il vero Josh Waitzkin, versione 2.0 è quello che sta vincendo)

Arrivando al finale le carte migliori sono già spese, resta l’aspetto
più zuccheroso con la bontà del protagonista – che offre il pareggio pur con la
vittoria in tasca, mentre negli scacchi l’offerta del pareggio è pura
constatazione e non gesto d’onore. Il finale sembra negare lo spirito stesso
del film, che dovrebbe essere di liberazione dalle pressioni e dalle
aspettative, mentre lascia intendere che forse s’è davvero trovato il nuovo
Bobby Fischer. E invece…

Invece il VERO Josh Waitzkin si ritirò dagli scacchi professionistici a
soli 23 anni, e non fece mistero d’aver perso interesse a causa dell’eccesso di
aspettative (cresciute anche a causa del film). Se dopo gli scacchi si diede
alle arti marziali, menando tanto forte da levarsi più soddisfazioni sul ring
che alla scacchiera, due domandine sulla rabbia repressa me le farei. 

P.S. per quanto sia un film un po’ dimenticato, Il Zinefilo ne ha
parlato QUI,
e vi consiglio di leggerlo per completezza. 

Radio Flyer (1992):
quand’ero bambino io, gli aeroplanini di carta volavano più lontano

IL BRUTTO
(diciamo “diversamente bello”)

Partiamo dall’elefante, anzi il bufalo, nella stanza

Rivedere i film d’infanzia è un’esperienza. Non sempre positiva. Mi
chiedevo come mai “Radio Flyer” non fosse così gettonato nella filmografia
di Richard Donner, uno che non ha bisogno di presentazioni. La risposta è nel
film, strutturato (male) come un flashback (che forse non è un flashback), in
cui il buon Tom Hanks si mette a raccontare una storia sulla sua infanzia, in
cui lui è Elija Wood (sì, Frodo) e il suo fratellino Joseph Mazzello (il Tim di
Jurassic Park). Cast buono, buonissimo, con Lorraine Bracco mamma single e “il
Re” – ma non “quel” Re – Adam Baldwin.

Film che raccontano la violenza sui bambini non ce ne sono tanti là
fuori, o almeno non la raccontano dal punto di vista dei bambini, il che fa
rientrare “Radio Flyer” in una categoria molto ristretta, anche se il modo in
cui lo fa è decisamente all’acqua di rose.

Su con la vita bambini, un patrigno orco non è nulla in confronto a velociraptor affamati e l’Oscuro Signore di Mordor.

“Radio Flyer” è il nome commerciale di quei tipici carretti giocattolo,
rosso fiammante, famosi tra i bimbi americani, e qui elevato a una specie di
metaforone sull’infanzia. La formula è la solita del “new kid in town”, i
fratelli Mike e Bobby si trasferiscono in una nuova città con la mamma
divorziata. Per ritrovare serenità la mamma si risposa con un autentico maschio
americano che ama la sua canna da pesca, la sua birra, e menare i “suoi”
bambini. Ma in questo caso mena solo il più piccolo, perché così fanno i veri
uomini.

Nonostante il tema tosto, i momenti drammatici sono “smontati” e
ammorbiditi da un continuo idealizzare l’infanzia, perché va bene restituire
l’aura sognante, ma certi toni da favoletta me l’hanno fatto rivalutare al
ribasso. Sembra mancare la mano ferma di un regista, clamoroso trattandosi di
Richard Donner. La verità è che il buon Richard era stato chiamato rimettere il
progetto sui binari dopo un avvio disastroso. Il primo girato (ad opera dello
sceneggiatore David Evans, improvvisato alla regia) buttato nel cesso insieme
al cast, alla sceneggiatura e a qualche milione di dollari.

Tabula rasa, più o meno, perché insieme al nuovo script preteso da
Donner – ma sempre scritto da Evans – venne fatto il re-casting dei
protagonisti. Tra l’altro uno dei fratellini rispedito a casa era Luke Edwards,
che ritroveremo più avanti nel triello.

“Mamma, quello è Superman?” – “Quasi tesoro, è Richard Donner” – “E ci salverà?” – “Di sicuro ce la metterà tutta” [Ciao Richard, ci manchi vecchio]

Donner manda a segno almeno un colpo, quello che al netto dei difetti
mi ha reso “Radio Flyer” indimenticabile: la scelta registica per cui il
patrigno orco, il Re, non veniva mai inquadrato bene. Mi colpì già da bambino.
Del Re vediamo il corpo, le sue mani, la sua sagoma in ombra, il volto si
scorge appena in una o due scene. Proprio com’è lo sguardo basso di un bambino
che cerca di tenersi alla larga dal mostro, non osa guardarlo e teme di
attirarne l’attenzione. Il Re è un’ombra, un mostro che incombe e non si sa
quando colpirà.

Purtroppo le parti drammatiche soffrono della struttura episodica del
racconto, la voce narrante tiene insieme il racconto, ma sembra fare più danni
che altro. Tom Hanks venne tirato sul carretto in post-produzione per
aggiungere un narratore e una morale sulla solidarietà fraterna (che c’entra
pure poco), e sono quelle scene a dare il colpo di grazia, perché alla fine ci
viene detto che non dobbiamo credere proprio a tutto quello che ci viene
raccontato. Sul serio Tom? Non hai chiuso quella bocca per quasi due ore e te
ne esci così?

Insomma, idee buone e potenziale sprecato, ma dategli una chance perché
non è certo brutto. Solo che a me brucia quella magia scorta in uno sguardo
d’infanzia, svanita nella delusione di un film molto meno bello rispetto al
ricordo.

The Wizard – Il
piccolo grande mago dei videogames (1989): ti sogno California, e un giorno io
verrò
IL DISCRETO
(nonostante la marchetta sfacciata)

Non scrivo sulla Bara perché sono sponsorizzato, ci scrivo perché me nintendo.

Di sicuro il più noto di questo triello, sia grazie ai passaggi tv che
all’affermazione dei videogiochi nella cultura pop, oltre che per essere una
spaventosa marchettata alla Nintendo – all’epoca massima potenza dei
videogiochi. Se non fosse per le scene “pubblicitarie”, saremmo di fronte a un
buon film sull’elaborazione del lutto e del trauma, e su come i videogiochi possano
diventare un modo per incanalare le energie, affrontare le angosce e i traumi,
come può fare ogni altra passione. 

Non so cosa sia più imbarazzante: la pubblicità al “Guanto Magico” o il fatto che Lucas sia il tipico testimonial da videogame anni ’80. La parola CRINGE non era ancora nata, ma qui potete sentirla.

Il piccolo Jimmy è un bambino taciturno, incapace di relazionarsi con
l’ambiente esterno e con gli altri. A questo aggiunge continui tentativi di
fuga da casa per raggiungere la mitica California, che poi è una delle poche
parole che Jimmy pronuncia. Dopo l’ennesima fuga, divenuto ingestibile per una famiglia
spaccata, Jimmy sta per essere spedito in un istituto ma uno dei suoi fratelli
non ci sta, così lo rapisce per evitargli una possibile sorte alla Randle Murphy. Inizia così un viaggio on
the road, i fratellini in fuga da una parte, papà e fratello maggiore che
cercano di riprenderli, e lo scagnozzo stronzo pagato dalla mamma (un po’
stronza pure lei).

È una specie di “Rain Man” 2.0, riprende la formula con un tempismo
sospetto, visto che il film di Levinson sbancava botteghini e premi solo un
anno prima.

Dove l’ho già vista questa scena? (p.s. lo skateboard è strumento di datazione anni ’80 più sicuro del Carbonio 14)

I fratellini in fuga conoscono una ragazzina sbandata – pure lei non
tanto a posto con la famiglia – che li trascina verso un torneo di videogiochi.
Ve lo dico, mi ha sempre dato un po’ fastidio quest’idea che non appena i
ragazzini si accorgono del talento di Jimmy pensano subito di sfruttarlo per
vincere il malloppo di un maxi-torneo di videogiochi. A renderlo più
sopportabile c’è il fatto che il torneo si svolge in California, perciò Jimmy finalmente
potrà andarci, il fratello e la nuova pseudo-fidanzatina forse incasseranno un
mucchio di soldi e sono tutti contenti. Senza vergogna ‘sti ragazzini.

Il cast conta una sfilza di nomi e volti d’epoca, dal giovane Fred
Savage, alias quello che si faceva raccontare La Storia Fantastica dal Tenente
Colombo (e poi da Deadpool), alla frizzantina Jenny Lewis, passando per
Christian Slater e Beau Bridges.

Il piccolo Luke Edwards nei panni di Jimmy l’ho sempre trovato
strepitoso, chiuso nei suoi modi da bimbo autistico, ma con gli occhi della
tigre non appena vede uno schermo.

Quella roba nera sulla sinistra si chiamava “cabinato”. Quella roba al centro si chiamava “occhi della tigre da ultimo gettone”

A tenere alto il ritmo e l’affezione verso i personaggi ci pensano i
due “villain”. Il primo è un adulto, il “cacciatore di bambini” da cui
scappare. Il secondo è l’insopportabile Lucas, il fighetto bravissimo ai
videogiochi per cui vale il discorso fatto prima con “Sotto scacco”: l’eroe =
talento naturale/problematico/umile, antagonista = campione
studiato/freddo/arrogante.

Al netto dello script lineare, le dinamiche tra i personaggi sono
funzionano, e in un prodotto del genere tanto basta. Demolito dalla critica
dell’epoca – che non fatico a immaginare popolata da vecchiacci infastiditi da
queste diavolerie tecnologiche che corrompono i nostri bambini, qualcuno pensi
ai bambini! – “The Wizard” fu un buon successo commerciale, guadagnandosi i
giusti passaggi tv per farsi conoscere.

Condannato dal suo essere datato e relegato a una nicchia di appassionati,
è stato come un primo sguardo alla frontiera, in un’epoca in cui era
impensabile l’esplosione planetaria dei videogiochi, ma aveva anche il cuore
dal lato giusto. “The Wizard” è una commedia per famiglie, con inseguimenti e
gag più o meno riuscite. La storia del piccolo Jimmy con la sua inseparabile
valigetta di metallo, il suo trauma e la “sua” California svelata nel finale, bastano
a dare spirito a un film altrimenti grottesco nella smania pubblicitaria. Se invece volete sapere tutto su dove trovare i flauti per saltare nella Warp Zone in “Super Mario Bros. 3”, chiedete a Cassidy.

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