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Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977): Sol – La – Fa – Fa – Do

Incontri ravvicinati del primo tipo: Avvistamento di uno o più oggetti volanti non identificati. Incontri ravvicinati del secondo tipo: Osservare UFO o fenomeni fisici provenienti da essi. Incontri ravvicinati del terzo tipo: Una pietra miliare del cinema che quest’anno compie i suoi primi quarant’anni!

“Close Encounters of the Third Kind” usciva in Italia nel febbraio del 1978, non potevo certo perdermi l’occasione di celebrare un film che rivisto oggi, risulta ancora freschissimo e per certi versi anche attuale. Una pellicola data spesso per scontata, perché viene automatico parlarne bene per forza, eppure passano gli anni, si accumulano le visioni, ma questo film mi affascina sempre di più anche per tutto quello che rappresenta, è il momento di fare gli auguri di compleanno ad un Classido!

Nel 1977, Steven Spielberg è poco più che trent’enne, ma con una gavetta alle spalle di tutto rispetto, si è fatto le ossa in tv, dirigendo il primo episodio della serie del tenente Colombo (storia vera) e quella bomba che lo ha messo definitivamente sulla carta geografica, “Duel” (1971). “Sugarland Express” (1974) è la conferma di un regista che appartiene al grande schermo, ma tutto cambia per sempre con Lo Squalo. Tutto, la carriera di Spielberg, la storia del cinema, con un solo film il regista dagli occhiali tondi inventa il concetto di Blockbuster per come lo intendiamo ancora oggi.

Per chiunque, Lo Squalo sarebbe stato un punto di arrivo con cui poter campare di rendita, sia per credibilità che per incassi fino alla pensione, ma Spielberg è fatto di un’altra pasta e per usare le sue stesse parole nel bellissimo documentario della HBO Spielberg (che vi consiglio caldamente), Stevie deve provare a tutti che Jaws non è stato un fuoco di paglia. Nella sua testa l’obbiettivo è chiaro: “Lo Squalo” è stato un incubo realizzativo per il regista, ma anche per una vasta platea di spettatori, traumatizzati a vita dall’idea di mettere i piedi in acqua, ora bisogna mettere in scena un sogno, una grande speranza da regalare al pubblico, destinata a costare il doppio, con buona pace della casa di produzione, già al limite della bancarotta che, però, crede nell’entusiasmo infantile, nel senso migliore del termine, di questo regista trent’enne. Tenete a mente queste parole “entusiasmo infantile” torneranno buone da qui alla fine.

«Ehi vacci piano piccoletto, quello è il mio braccio preferito per dirigere»

Sempre per sua stessa ammissione, Spielberg ha vissuto tutta la vita con “Close Encounters” fin da quando da ragazzo, realizzò il suo cortometraggio “Firelight” (1964), la storia del primo contatto tra umani e alieni, un progetto lasciato senza un vero finale. Ma a ben guardare l’idea sedimentò nella testa di Spielberg ancora prima, quella notte in cui i suoi genitori caricarono lui e i suoi fratelli in auto, per correre a vedere il passaggio di una meteora nel cielo, un ricordo d’infanzia, solo uno dei tanti che Spielberg utilizzerà per portare in scena “Close Encounters”.

Per la prima bozza di sceneggiatura Steven assume Paul Schrader, quindi, non proprio la pizza con i fichi che, però, non completa il lavoro per le solite differenze artistiche con il vulcanico regista che per la prima volta decide di curare lui stesso la sceneggiatura, dettaglio che fa capire quanto Spielberg ritenesse questo film una faccenda davvero personale.

Con “Incontri ravvicinati” Spielberg inizia a definire oltre alla sua poetica, anche il suo stile, proprio con questo film inizierà la storica collaborazione con il montatore Michael Kahn, contando anche Poltergeist, insieme i due hanno collaborato per ventisette film e provate a dire chi curerà il montaggio di Ready Player One? Ma dove le storie su “Close Encounters” prendono decisamente il volo, è quando s’inizia a parlare di casting, mettetevi comodi, non sarà una cosa breve.

«Se invece la suonassimo più in chiave che so… Jazz?»

Sul set di Jaws, Richard Dreyfuss sente parlare dell’idea di questo film dal suo regista e, come dire, si… S’innamora del soggetto? No, non rende l’idea. Si mette in testa che dovrà recitarci per forza? Nemmeno. Diciamo che sviluppa una specie di ossessione, non è arrivato ad incatenarsi al cancello di casa di Spielberg, ma è arrivato a tanto così dal farlo. Spielberg ha altre idee, gli propongono Jack Nicholson (che avrebbe probabilmente terrorizzato gli alieni), ma Steve ha un solo nome in testa: Steve McQueen. Ora, se mi leggete, avrete intuito che ho una predilezione per gli aneddoti cinematografici, quello che sto per raccontarvi, non vorrei esagerare, ma è uno dei miei preferiti di sempre (storia vera).

Una delle scene più iconiche, in un film pieno di momenti da antologia.

Spielberg idolatra McQueen dai tempi in cui interpretava Nevada Smith, uno dei personaggi che ha ispirato al regista il suo Indiana Jones, pur di averlo nella parte dell’elettricista Roy Neary è pronto a tutto, anche ad incontrarlo al bar. Che poi bar, parliamo di un locale di Hollywood dove per entrare, fai la fila come alle ultime elezioni qui da noi.

McQueen all’ingresso, viene accolto come Re Priapo, Spielberg deve sgomitare tra chi vuole offrire da bere al divo e tra signorine che gli s’incollano addosso tipo velcro. Ma Spielberg non ha intenzione di mollare, nemmeno quando McQueen gli fa riempire il bicchiere. Dramma! Il regista è completamente astemio (storia vera). Senza perdersi d’animo il nostro attacca a raccontare la sua storia, anche se a metà bicchiere vede più lucine che in tutto il film finito. McQueen pare non considerarlo, impegnato a svuotare bicchieri e collezionare numeri di telefono di signorine. Spielberg, invece? Uno straccio, roba che tra un po’ il barista lo usa per pulire il bancone. Ad un’ora illegale del mattino, McQueen si è bevuto una distilleria ed è ancora impeccabile, Spielberg? Un caso umano abbracciato ad uno sgabello che blatera frasi sbiascicate, bicchieri totali bevuti: uno.

Ecco, la vista di Spielberg doveva essere più o meno così.

McQueen improvvisamente apre bocca per dire al regista «Tu questo film lo devi fare perché sarà bellissimo, ma io non posso recitarci». Immagino che Spielberg abbia consumato la sbronza in tipo un secondo. La motivazione di McQueen non fa una piega, nell’ultima scena, Roy Neary dovrà per forza piangere una lacrima, è fondamentale per il film, ma McQueen un po’ per status un po’ per approccio non è uno che piange al cinema (storia vera). M’immagino Spielberg con gli occhi rossi che capisce che questo film, non si può fare senza Richard Dreyfuss.

Devo anche raccontarvi la storia di “Incontri ravvicinati”? La prima scena è di una forza assoluta: nel bel mezzo del deserto di Sonora, vengono ritrovati tutti in fila gli aerei della famosa squadriglia 19, scomparsa sopra il triangolo delle Bermude nel 1945 ed è solo il primo segnale, in India le persone pregano come messe di fronte al secondo avvento, mentre nel deserto del Gobi viene ritrovata una nave, in una delle mie scene preferite del film, perché sembra che abbia richiesto chissà quale enorme trucco cinematografico, in realtà sfruttando la falsa prospettiva, Spielberg ha inquadrato il deserto, mettendo in primissimo piano davanti alla sua macchina da presa, un piccolo modellino della nave (storia vera).

Come parcheggi una nave in mezzo al deserto? Con la magia del cinema, bellezza.

Ma questa storia su scala globale poi si concentra su Muncie, nell’Indiana dove il piccolo Barry Guiler (Cary Guffey) viene portato via da strane luci nel cuore della notte, senza che sua madre Jillian (Melinda Dillon) possa fare nulla. Nessuno crederà al racconto della donna che svilupperà un’ossessione per una montagna dalla punta piatta, la Torre del diavolo, nel Wyoming. La stessa identica visione che inizierà a tormentare anche Roy Neary (il grande Richard Dreyfuss), il messaggio è stato lanciato all’umanità, la montagna è un obbiettivo quasi biblico che solo i più sensibili e i più determinati riusciranno a raggiungere, questo è l’inizio del film. Poi migliora.

«Non ti ho già visto da qualche parte? Non sei Apollo Creed?» , «Zitto o ti becchi un pugno»

Anche rivedendo “Incontri ravvicinati del terzo tipo” per questo compleanno, sono giunto alla solita conclusione: un film composto da tante scene avvincenti, una migliore dell’altra che fanno sì che il ritmo resti sempre molto alto. Un “Aspettando Godot” che gioca con le aspettative degli spettatori, promettendo alieni che arrivano solo in quegli straordinari trentacinque minuti finali che, al pari di Roy, ci dobbiamo conquistare dimostrando di essere motivati e di stare al gioco, ma che per i primi 100 sono un viaggio tra i generi cinematografici.

Cinema, dentro tanto altro grande cinema.

Sì, perché ci sono tanti film dentro “Close Encounters” c’è il thriller d’avventura con la montagna da raggiungere, contro tutto e contro tutti, ma ci sono anche riferimenti biblici, dramma e commedia, perché Spielberg, Ebreo figli di divorziati, inserisce entrambi gli elementi nella storia, molto prima di

Schindler’s list ed E.T., perché gli alieni creati da Carlo Rambaldi qui, sono antenati del piccoletto telefono dipendente, ma c’è anche la storia di una famiglia che va in pezzi, quasi il passato mai raccontato dell’Elliot di E.T.

“Close Encounters” prende le distanze da tutta la fantascienza degli anni ’70, nessuna volontà di fare metafore sulla guerra fredda o altro, Spielberg vuole guardare allo spazio e all’ignoto con gioia e per farlo riempie il suo film di momenti di una tenerezza del tutto nuova per la fantascienza di allora. Tutte le scene con Roy e la sua famiglia sono realistiche e coinvolgenti, tipo la bimba che si lamenta della mosca nel purè, mentre il padre, in preda all’ossessione, usa le patate schiacciate per scolpire la montagna. Quante volte avete fatto lo stesso anche voi davanti al purè? Io sempre!

A volte giocare con il cibo, ti fa diventare parte dell’immaginario collettivo.

Ci sono momenti davvero comici (tipo la spassosa scena «È una follia non sei nemmeno vestita»), drammatici (quel «Crybaby, crybaby, crybaby» che Spielberg ha pescato dai cassettini della sua memoria e che ti spacca il cuore), ma anche avventure con corse contro il tempo in auto e l’horror, il rapimento del piccolo Barry ha i precetti del film di paura, per la capacità della scena di farti credere che vedrai qualcosa di spaventoso da un momento all’altro, quando, in realtà, ci vengono mostrate solo le apparizioni delle astronavi, giochi di luce, forse i più grandiosi mai visti al cinema, frutto del magnifico lavoro del direttore della fotografia Vilmos Zsigmond combinati al leggendario tema musicale di John Williams.

Luci, colori e musica, per quasi tutta la durata del film gli alieni si manifestano a noi e ai personaggi così, spaventando chi è in grado di pensare alle conseguenze (gli adulti) ed emozionando i puri di cuore, come i bambini, che non a caso scambiano le apparizioni per enormi coni gelato volanti, oppure ancora meglio per giocattoli. Nella scena in cui Cary Guffey guarda fuori dalla finestra e con un sorrisone da tempia a tempia dice “Toys! Toys!” sapete chi c’era in equilibrio su una scala, impegnato a sventolare un giocattolo in mano per ottenere tale risultato? Proprio Steven Spielberg (storia vera) che nel film ci fa capire che solo chi ha un entusiasmo infantile come il suo, troverà la via verso l’illuminazione finale.

«Vieni mamma! Quando ci ricapita una cosa così!»

Tutti i personaggi, in qualche modo, regrediscono ad uno stato infantile, disegnano la montagna oppure la modellano come se stessero giocano, il messaggio degli alieni, una mistura di luci e colori che sembra un grosso giocattolo interattivo. La celeberrima cinquina di note del tema principale è stata selezionata da Spielberg e John Williams, scegliendo tra un campionario infinito di combinazioni possibili (storia vera), fu il grande compositore a scegliere le cinque note giuste, l’idea era due note singole, due ripetute e una singola, cinque note totali che ricalcano per numero e struttura la parola “Hello”. A volte la storia del cinema può essere un motivetto semplicissimo.

La combinazione di note e colori per comunicare è stata usata anche da Roland Emmerich nel suo Independence Day, solo uno dei tanti film che si è abbeverato alla fonte di Spielberg (pensate anche alla scena delle nuvole che si addensano all’arrivo dell’astronave madre), ma “Close Encounters” è un enorme gioco di cinema che richiama altro cinema, la passione di Roy per “Pinocchio” («Quanti anni hai? Se vuoi arrivare a nove vieni a vedere Pinocchio») sottolinea la natura infantile del personaggio e il film guardato in tv, “I dieci comandamenti” (1956) anticipa il messaggio quasi biblico di questo primo contatto. Roy incarna il livore dei Santi e di coloro che sono ossessionati dalla ricerca dell’illuminazione, Richard Dreyfuss è perfetto perché è lo stesso che ne Lo Squalo faceva le boccacce a Quint, mentre qui, sfruttando tutta la gamma del suo talento, è l’uomo bambino che rappresenta anche il nostro stupore, ma anche l’illuminato pronto a tutto per raggiungere la meta, la faccia di Dreyfuss che urla ossessivamente agli scienziati «Who the hell are you People?» mette in chiaro che Steve McQueen bene, ma questo personaggio era nato per essere interpretato da Dreyfuss.

L’eterno uomo bambino che gioca con i trenini…
… Il santo affetto da visioni mistiche.

In questo grande gioco cinematografico, gli ultimi 35 minuti sono un capolavoro, dopo averci promesso per tutto il film, prima la montagna e poi l’incontro con gli alieni, Spielberg sa benissimo che questo è il momento di raccontarci il suo sogno. Anni dopo il regista ha affermato che montare quei 35 minuti finali è stata la sfida più complicata della sua carriera, ma il risultato finale è qualcosa di straordinario, un altissimo momento di cinema, infatti proprio di quello si parla, di cinema nel suo stato più puro.

Con il titolo di lavorazione finale “Watch The skies” (che dovrebbe ricordarvi qualCOSA) e un gigantesco set blindato a cui si poteva accedere solo con un tesserino di autorizzazione (tanto che una volta pure Spielberg è rimasto bloccato dalla sicurezza per esserselo dimenticato a casa, storia vera) l’ultima spettacolare scena è un set cinematografico, gestito da un regista, proprio per questo Spielberg, per il ruolo di Claude Lacombe non ha voluto sentire ragioni, poteva essere soltanto una persona al mondo a ricoprire quel ruolo, uno dei suoi miti cinematografici: monsieur François Truffaut. Sarebbero graditi degli applausi, grazie.

«S’il vous plaît, solleviamo più in alto questa Cercueil Volant»

Parliamoci chiaro, nell’anno 1977 l’unico uomo su questo globo terracqueo più innamorato del cinema di Spielberg, era proprio Truffaut, padre fondatore della nouvelle vague, l’uomo che proprio in virtù di quell’entusiasmo di cui sopra, ha regalato al mondo quel testo sacro di “Il cinema secondo Hitchcock”. Se “Effetto notte” (1974) è un film teorico sul cinema, Spielberg con “Close Encounters” risponde con la sua versione di un film sul cinema e proprio per questo doveva avere Truffaut a tutti i costi, anche se il famoso regista, durante una telefonata transoceanica con Spielberg ammise candidamente che il suo inglese era poca cosa e che non era un attore, ma solo uno che interpretava la parte di sé stesso dei film. La risposta di Spielberg? Una dichiarazione d’intenti «E’ proprio quello che devi fare» (storia vera).

Proprio il personaggio di François Truffaut (che incollava bigliettini con le sue battute scritte per aiutarsi con l’inglese, negli angoli ciechi del set) a cui Spielberg chiede di pronunciare la frase «Personaggi ordinari in circostanze straordinarie» che da sola riassume quasi tutta la produzione cinematografica del regista con gli occhiali tondi. No, sul serio, prendetevi un minuto per elaborarla, Spielberg e Truffaut nello stesso film, come Jordan e Magic Johnson che giocano nella stessa squadra, roba da capogiro.

Il superiore magistero tecnico, dei due più grandi teorici di cinema, forse di sempre.

Spielberg gira tutto il film in 35mm, tranne questi ultimi minuti, girati in Panavision da 70mm, proprio per sottolineare l’importanza del finale, non c’è una singola inquadratura fuori posto, un controllo di spazio e tempi invidiabile, dai carrelli laterali che seguono Truffaut fino all’intuizione di mostrare la nave madre contrapposta all’oggetto più grosso di tutto il film, la Torre del Diavolo che ormai il pubblico conosce a memoria e fa subito capire le dimensioni dell’astronave che per Spielberg doveva essere un enorme città volante arrivata sulla Terra.

Poi dicono che le dimensioni non contano, tzè!

Il far percepire diventa fondamentale e la musica la fa da padrona, Spielberg dopo aver consultato matematici ed esperti di Ufologia sa che musica e luci, sono il secondo modo più scientifico per comunicare con una civiltà aliena, il primo sarebbe la matematica che, però, al cinema (e non solo!) non risulta molto emozionante, quindi da grande uomo di cinema, utilizza due elementi puramente cinematografici come luci e musica in maniera creativa. Se volete sapere da dove nasce la fissazione per i “Lens Flare”, le scie di luce che piacciono tanto al maledetto (nonché scopiazzatore ufficiale di Spielberg) GIEI GIEI Abrams, ora lo sapete.

John Williams sceglie una tuba per “doppiare” la voce della Nave madre, mentre i rumori di scena e le luci ripetono il motivetto che dopo 130 minuti sappiamo a memoria Sol – La – Fa – Fa – Do. Volete provare una cosa divertente? Togliete l’audio durante questa scena e guardate solo il gioco di luci, ad un certo punto inizierete a “Vedere” le note che compongono la parola “Hello”. Signore, signori, come Steven Spielberg e John Williams insegnarono al mondo (e a parte della galassia) come si usa la musica al cinema!

Du – Du – Du – Du – Duuuuuuuuuu (la famosa nota “Du”).

Tutta questa scena, coordinata da due registi (Truffaut a recitare e Spielberg a dirigere) diventa il più grande omaggio possibile al cinema, ad un certo punto se aguzzate la vista vedrete tra la folla anche Lance Henriksen una delle più grandi facce da cinema di sempre (ed occhio, che alla fine del post, su Lance trovate una sorpresina), mi piace pensare che sia stata una scelta di Spielberg per sottolineare il momento in cui dalla nave madre vengono restituiti i piloti dei caccia scomparsi nel 1945, sani, integri e non invecchiati nemmeno di un giorno. Esattamente come il cinema, la nave aliena di Spielberg ci restituisce i personaggi come li abbiamo sempre visti, congelati su pellicola in un momento della loro vita («Non sono invecchiati, Einstein aveva ragione» , «Einstein probabilmente era uno di loro»).

Allo stesso modo Roy viene consegnato in eterno al cinema, lui, il più puro di cuore e motivato di tutti (esattamente come Spielberg) salendo a bordo della nave madre è destinato a restare per sempre così, per sempre il Richard Dreyfuss dell’anno 1977. Per questo il suo ultimo sguardo indietro risulta così importante, l’ultima volta che il personaggio vede la sua vita e il suo pianeta, quella lacrima non poteva mancare. La profezia di Steve McQueen era azzeccata, Steven ne è valsa la pena rischiare il coma etilico per questo finale!

Eternamente consegnato e consacrato al cinema.

In questo senso gli alieni di tre tipologie diverse, lo spilungone in stile marionetta, i piccoletti soprannominati “Puck” che sembrano bambini e la creatura creata da Carlo Rambaldi che saluta e conclude il film non sono creature minacciose, ma dei portatori di conoscenza per l’umanità (nel film gli scienziati dicono «Siamo al primo giorno di scuola»). A distanza di quarant’anni dalla sua uscita, “Incontri ravvicinati del terzo tipo” è invecchiato benissimo, il papà di tutti i moderni Arrival. Perché il messaggio di Steven Spielberg è chiaro: un film che ci invita a guardare al futuro con speranza e curiosità, a valutare l’integrazione come uno scambio di reciproche conoscenze e non un’occasione per avere ancora paura, un inno all’entusiasmo infantile, come dicevo all’inizio, del tipo migliore possibile, quello di Spielberg, quello che aiuta a produrre capolavori come questo. Auguri di buon compleanno “Incontri ravvicinati”, anzi per dirla alla tua maniera Sol – La – Fa – Fa – Do.

Cassidy, indegno rappresentate della razza umana, porge i suoi auguri!

Ed ora, un sacco di altre chicche per completare il Blogtour della festa! La novelization del film presentata da Il Zinefilo. Il Zinefilo traduce in esclusiva il ricordo di Lance Henriksen delle riprese del film. Non quel Marlowe con un ricordo personale. Le locandine italiane dell’epoca presentate da IPMP

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