Ormai dovreste saperlo che sono un lettore di fumetti di vecchia data, ma prima di attaccare con una (brutta) imitazione di Carradine gioco a carte scoperte: il mio legame con gli Uomini-Pareggio di casa Marvel è lungo e tormentato, quasi come un ciclo di storie di Chris Claremont.
Ci sono pochissime serie mutanti che riesco a leggere, la maggior parte mi viene a noia molto presto per una semplice ragione: vedo questi tipi in calzamaglia di cui conosco nomi e storia ma fatico a sentirli come i miei X-Men, ecco perché ho amato molto il ciclo di storie di Grant Morrison, quello che provava a rompere con il passato smettendo di far agire gli Uomini-Pareggio di Xavier come quello che non sono, super eroi come tutti gli altri.
Eppure vivo un paradosso, per quanto io abbia molto apprezzato la lettura data da Morrison ai personaggi, gli X-Men che sento veramente “miei” sono quelli più assurdi, se vogliamo anche un po’ pacchiani per via dei costumi coloratissimi dei primi anni ’90. Questo mi ha permesso di capire che non è obbligatorio criticare una diversa incarnazione di un personaggio (veeeero cari i miei odiatori da “Infernet”?) solo perché non è quello con cui siamo cresciuti, perché se sono diventato anche un lettore di fumetti di super tutine, il merito è proprio di quegli Uomini-Pareggio lì, quelli dei primi anni ’90.
Ho avuto la fortuna di vivere alcuni mesi in Canada nel 1994, lì ho scoperto quei fumetti dal formato diverso dai vari Bonellidi italiani: poche pagine, grande formato, tanti colori e parecchie pubblicità nel mezzo. Ne comprai un paio a prezzi stracciati nella terra della foglia d’acero, come gli immigrati che “leggevano” Yellowkid, attratto da personaggi e disegni, ma visto che a dieci anni non leggevo l’inglese, giusto quello potevo fare. Tornato in patria, in una sortita in edicola, ipnotizzato (come al solito, abitudine mai persa) davanti alla rastrelliera dei fumetti, mio padre pronunciò la frase fatale: «Scegline uno». Invece del solito Cattivik o Dylan Dog decisi di tutto il mio futuro mettendo le mani su Gli Incredibili X-Men numero 54.
Nei giorni successivi io quel fumetto non riuscivo più a metterlo giù, lo leggevo e lo rileggevo in continuazione, era nato un amore che tutt’ora continua, ma provate a biasimarmi: storie e disegni di Jim Lee, chine di Bill Sienkiewicz, trame firmate da Scott Lobdell e ancora, tavole di entrambi i fratellini Kubert figli di papà Joe e di John Romita Junior, anche lui, figlio di cotanto padre, intento a disegnare la profezia di Jean Grey, il messaggio incompleto sul fatto che qualcuno tradirà gli X-Men. Una trama alla Terminator con un guerriero sparato indietro dal futuro come Alfiere, che non sarà l’Uomo-Pareggio più famoso, ma a cui sono particolarmente legato proprio per via di quel fumetto.
Capite da soli dove sto cercando di andare a parare, quando anche in uno strambo Paese a forma di scarpa, sbarcò la mitica serie animata “Insuperabili X-Men”, di cui avevo visto un paio di episodi in lingua originale colpito dal vocione di Wolverine, ci andai completamente sotto, dovrei avere ancora da qualche parte il mio vecchio diario di scuola degli X-Men, con un disegno di Jim Lee in ogni pagina (storia vera).
Eppure questa serie non è stata la prima dedicata agli Uomini-Pareggio, dopo le apparizioni di Stella di Fuoco e l’Uomo Ghiaccio in “L’Uomo Ragno e i suoi fantastici amici”, alla Marvel hanno nasato che questo X-Tipi avevano più potenziale del previsto, ben più della risposta Marvel al “Quarto Mondo” di Jack Kirby per la Distinta Concorrenza per cui erano nati, un po’ come ripicca di Stan Lee (storia vera). Le storie con la “seconda generazione” di studenti della scuola Xavier vendeva bene grazie alle trame del padre putativo dei personaggi, Chris Claremont, quindi venne messa in produzione una serie, una di quelle che dopo il pilota è diventata niente per dirla alla Mia Wallace.
Intitolata “X-Men – Pryde of X-Men”, un gioco di parole basato sulla presenza nel gruppo dell’eroina preferita di X-Chris, Kitty Pryde, intenta a ricoprire il ruolo del punto di vista dei giovani sul mondo di questo mutanti che rispondevano ai nomi di Wolverine, Tempesta, Ciclope, Colosso e Nightcrawler, quest’ultimo con parecchio più spazio rispetto all’artigliato canadese, che nel pilota, si limita un po’ al ruolo di tappezzeria, trovate l’episodio uscito da noi come “L’audacia degli X-Men” (sigh!) anche QUI.
Pregi? Molti, a partire dalla cura per i personaggi che sembravano usciti direttamente dalle illustrazioni di Dave Cockrum e John Byrne, ben animati grazie al lavoro della giapponese Toei, che all’epoca curava anche i cartoni Marvel dei Transformers e dei G.I. Joe. Difetti? Magneto cattivo da operetta senza vere motivazioni se non quelle del generico cattivo di turno, tutto sommato niente male per un pilota nato dirottando i fondi destinati originariamente per produrre il tredicesimo episodio della fallimentare “RoboCop: The Animated Series” per questo X-sperimento (storia vera).
A causa dei problemi finanziari in cui stagnava la Marvel in quel periodo l’esperimento targato New World Pictures non va oltre il pilota di prova, ma come in una storia di X-Chris, si chiameranno pure X-MEN ma sono quasi sempre i personaggi femminili quelli più tosti che fanno svoltare le trame per Claremont, nella realtà succede la stessa cosa grazie a Margaret Loesch, la produttrice di “Pryde of the X-Men” due anni dopo si ritrova a capo di Fox Children’s Network (la futura Fox Kids) e torna alla carica con gli Uomini-Pareggio ordinando alla Saban Entertainment una stagione da 13 episodi. Quindi se poi i Power Ranger della Saban hanno trovato terreno fertile negli Stati Uniti, un po’ bisogna ringraziare il cartone animato degli Uomini-Pareggio che ha fatto da apripista.
Problema! Responsabile dell’animazione è la sudcoreana AKOM, che in quel momento aveva le mani pienissime, tra gli episodi di “Batman: The Animated Series” e un’altra infilata di cartoni yankee tra cui i Dino Riders, risultato? Le prime puntate di “X-Men” sono animate a tirar via. Per correre ai ripari, le prime, quelle più inguardabili sono state girate nuovamente, anche a costo della continuità della storia, con episodi mandati in onda in anticipo, in grado di creare molti buchi nella trama ma per lo meno non nel palinsesto americano, che a questa serie stava rispondendo bene, molto bene!
I problemi della serie animata dedicata agli Uomini-Pareggio sono essenzialmente due: la sigla italiana e l’animazione, che per quanto migliorata non ha mai spiccato, iniziamo da questo secondo difetto, se paragonata ad altre serie animate dello stesso periodo (che tratteremo a breve su questa Bara), “X-Men” non ha uno stile suo in grado di farla emergere dalla massa, inoltre molte anatomie sono più matte di quelle disegnate da Rob Liefeld, insomma non è l’aspetto generale ad aver reso memorabile questa serie e nemmeno il suo secondo difetto, l’italica sigla.
Ricordo ancora il trauma di ritrovare questa serie sulla mia tv in italiano, io che arrivavo dalle visioni nella terra di Wolverine del cartone animato, in cui ogni nuova puntata iniziava con questa meraviglia, il tema ta-na-na-naa-na na che per me, ancora oggi è IL tema degli Uomini-Pareggio, eroico, tostissimo, quasi futuristico nei suoi suoni retrò da risultare perfetto. Tanto che persino i capoccia dell’MCU lo hanno capito e pian pianino, stanno provando a farlo tornare.
Immaginatevi la mia reazione quando ho sentito ‘sta roba con il coro dell’Antoniano e del Pupazzo UAN che è la versione italiana. Motivo per cui ho usato il titolo “Insuperabili X-Men” per il post, ma per me questa serie sarà sempre “X-Men” o al massimo il cartone degli Uomini-Pareggio. Per fortuna su Disney+ la trovate per intero senza la sigla “Italiota”, insomma come lo guardavo io da bambino.
Schivati agilmente i difetti, possiamo parlare dei pregi che sono tanti “X-Men” introduce la continuità tipica della Marvel nelle serie animate, quindi rispetto alla solita minaccia della settimana, gli Uomini-Pareggio dovevano affrontare trame che spesso richiedevano un riassunto iniziale, per mettere tutti sulla stessa pagina. Trame in grado di essere suddivise su quattro o cinque episodi che adattavano per il piccolo schermo anche interi cicli a fumetti, pescando tra i più importanti dei personaggi, guarda caso, molti da “Gli Incredibili X-Men” numero 54 o giù di lì, che mi avevano fatto perdere la testa.
In questo cartone animato non manca niente, gli alieni proto-Xenomorfi della Covata, il viaggio indietro nel tempo di Alfiere fino ad arrivare a cicli mitologici come la saga di Fenice Nera, introducendo elementi che nulla mi toglie dalla testa siano stati riferimento anche per altri X-Autori arrivati dopo. L’episodio 1×07, oltre che giocarsi al meglio la claustrofobia di Tempesta, mostrava l’isola-stato di Genosha e la sua economia basata sulla schiavitù dei mutanti prima di quanto raccontato da Morrison, oppure il senatore razzista che si ritrova trasformato in un mutante, deve essere stato materia anche per Bryan Singer, che per i suoi X-Film, ha pescato parecchio da questa serie, non i colori dei costumi, ma gli elementi importanti sì.
“X-Men” malgrado l’animazione ballerina e i colori sgargianti dei pigiami, ha sempre trattato in modo piuttosto serio temi e personaggi, non mi spingo a dire adulto, ma almeno intelligente. Le posizioni estremiste ma motivate facevano di Magneto il perfetto Malcolm X della causa mutante, Jubilee, malgrado il suo idiotissimo potere (le mani che sparano lucine di Natale, bella forza) ereditava il ruolo che Kitty Pryde ricopriva in “Pryde of the X-Men” diventando il nuovo punto di accesso al mondo degli X-Men per il pubblico.
Wolverine che entra in scena con lo stuzzicadenti in bocca (simbolo universale di maranza ignoranza) viveva tutto il suo dramma, tra la faida eterna con il “gemello” Sabertooth, fino al trauma di Arma X in grado di rendere perfettamente omaggio al classico a fumetti omonimo, fino ai suoi drammi amorosi con la rossa Jean Grey, quelli che hanno generato un meme diciamo, famosino, che ancora spopola sul web.
Ci sono passaggi in cui Bestia cita a memoria il monologo del mercante di Venezia, che in bocca ad un mutante suona doppiamente efficace, elementi quasi adulti in una serie che utilizza le trame per fare riuscita metafora di razzismo, segregazione razziale, AIDS, perché parliamoci chiaro, gli X-Men erano per loro stessa natura inclusivi, quando ancora la questione non era un elemento chiave nei palinsesti e pensate un po’? Milioni di persone nel mondo si sono appassionate a questi personaggi a ai messaggi che sapevano veicolare perché erano fighi, scritti bene, basati su belle storie a fumetti e in grado di intrattenere, oltre che a farsi carico di parlare dei problemi della società, con spunti anche serissimi.
Basta dire che nei primi episodi di questo cartone, un X-Men tira malamente le cuoia, ok tornerà in una forma ancora più sofferente, però per essere un cartone da pomeriggio qui da noi (sabato mattina negli Stati Uniti e Canada, posso confermare), non è affatto poco, anzi.
Se da noi, in uno strambo Paese a forma di scarpa ci siamo limitati a storpiare la sigla riempiendola di cori di “Mutande! Mutande”, in Giappone hanno fatto di peggio, con una sigla semi metallara in odore di Ken il guerriero, molti dei dialoghi e delle caratterizzazioni dei personaggi risultavano più leggere, ma nel Paese del Sol Levante (e forse anche grazie a personaggi come Sole Ardente) da quelle parti sono andati giù di testa per gli Uomini-Pareggio, assorti a stato di icone perfette anche per il mondo dei videogiochi. Quindi dopo i Power Ranger, segnate un’altra tacca alla cintura di “X-Men”, la serie di videogiochi Marvel vs. Capcom non sarebbe mai esistita senza questo cartone animato.
“X-Men” con la sua continuità bella fitta, poteva permettersi anche ospitate da parte di un sacco di personaggi illustri dell’universo Marvel, più che al mitico Longshot e alle sue sortite del Mojoverso, un universo di teledipendenti in grado di anticipare parecchia ossessione per i “Reality-Show”, penso anche alle apparizioni di Capitan America o ancora di più di Ms. Marvel, quella giusta, quella di quando Carol Danvers era ancora scosciatissima e misconosciuta, ma fondamentale per dare spessore (e poteri) ad uno dei personaggi più riusciti della serie, si parliamo di Rogue.
Tanto lo so che l’episodio che avete visto e rivisto più volte resta la puntata 1×10 (“Come the Apocalypse”) per via di quel fotogramma lì, quello che ha colpito l’immaginario di tutti tanto che oggi, con l’annuncio della serie sequel “X-Men ‘97”, tutti su “Infernet” stanno facendo i paragoni, diciamo a posteriori.
Ma superato questo, e le pettinature sempre più cotonate della rubapoteri, Rogue ne esce come un personaggio sfaccettato, ha la tentazione del bel Gambit a portata di mano ma non può nemmeno sfiorarlo senza ucciderlo. Un personaggio tosto e drammatico capace di spiccare anche in una serie così corale, se Bryan Singer ha scelto proprio Rogue al posto della Jubilee (in precedenza Kitty Pryde) di turno, ci sarà un motivo no?
Insomma, “X-Men” resta un piccolo caso diventato un grande titolo di culto (ho detto culto, smettetela di pensare a Rogue… Degenerati!) che mi sono rivisto con grande piacere, vedremo cosa saprà fare l’annunciato “X-Men ‘97”. Intanto potrò continuare a canticchiarmi la sigla giusta: tana naaa naaa na na! Na na!
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