Quinto Moro non era sparito, era soltanto andato a fare un viaggio nelle terre selvagge, ora che è tornato, ci regalerà una piccola trilogia a tema da seguire nel corso delle prossime settimane, questo è il primo capitolo, buona lettura!
Immagino un’ideale trilogia delle “terre selvagge”: da “Into the wild” di Sean Penn nella storia vera di Chris McCandless come racconto di formazione al maschile, contro l’ipocrisia della società. Poi ci sarebbe il “Paese delle creature selvagge” di Spike Jonze, percorso di crescita d’infanzia tra allegoria e sogno (i due film tra l’altro condividono l’ottima Catherine Keener). La trilogia si chiuderebbe con il “Wild” di Jean-Marc Vallée e Reese Whiterspoon, percorso di formazioni al femminile. Tutti film tratti da qualche libro per un’orgia selvaggia di cinema che racconta in tre diversi tempi, modi e punti di vista i concetti del viaggio e della crescita umana. E cominciamo dal film più vecchio, quello di Sean Penn. Ma sì dai, inventiamoci qui una mini rubrica delle Terre Selvagge, e partiamo col più famoso dei tre.
Ci sono film che ti entrano dentro un po’ come gli xenomorfi di Alien, e quando ho visto “Into the wild” nel 2007 mi sono ritrovato in una sintonia meta-cinematografica col protagonista Chris “Alexander Supertramp” McCandless. Sì perché questo film può fare un effetto molto diverso a seconda dell’età in cui lo si deve. Ok, vale per qualunque film, ma il senso di ribellione alla società e alle sue ipocrisie è terreno più fertile nella gioventù bruciata. A distanza di anni ancora mi arrovello il guliver sulle strane coincidenze della storia del cinema, per cui ‘sto film usciva nel 2007 prima della grande crisi economica del nostro tempo, quando i nostri eroi ribelli non erano ancora hacker psicolabili alla “Mr. Robot” (sul discorso del tempo poi ci torniamo)
Che bei tempi il 2007, mi vien da piangere a quant’eravamo gggiovani. |
“Into the wild” è una storia – parzialmente – vera, dato che il racconto deriva un po’ dalla ricostruzione dei diari di Chris McCandless, un po’ dal romanzo di Jon Krakauer e dai contributi della sorella di Chris, Carine, personaggio che nel film è interpretato (di sfuggita) da una Jena Malone che fa da voce narrante.
Chris è un ragazzo della borghesia americana che dopo aver ottenuto la laurea, vista come obbligo ultimo nei confronti dei genitori, si disfa di tutti i beni materiali e inizia un viaggio solitario, per distaccarsi da quella “society” pregna di ipocrisia, menzogne e false promesse. E il viaggio riesce a risultare entusiasmante per la messa in opera, i bei scenari messi in mostra, la regia misurata e studiatissima e una colonna sonora strepitosa.
Society, you’re a crazy breed – I hope you’re not lonely without me (cit.) |
Questo film è stato il canto del cigno degli ideali hippie traslati negli anni ’90 in cui Chris/Supertramp fece il suo viaggio, ma che sembravano in tutto e per tutto gli anni del nuovo millennio. Sapete, nel 2007 non c’era ancora il bisogno di revival a tutti i costi, di parlare di Window ’95 e usare vecchie canzoni per far finta di stare in quel tempo lì (bei tempi). E c’è da ragionare sul doppio nome di Chris/Alex, giuro che ci ho riflettuto solo all’ultima visione per scrivere questo pezzo: Chris ad inizio viaggio si dà un nuovo nome, il “Supervagabondo Alex”. Il film è diviso in capitoli (scelta secondo me perdente) e non è un caso se il primo si intitola proprio “La mia nascita”, ovvero la rinascita di Alex come uomo nuovo e libero, un originale scevro dalle vecchie meschinità cui era stato abituato.
Alla prima visione mi colpì, ma col tempo avevo smarrito la meraviglia di questo semplice fatto: il cambio del nome era un atto di rivolta autentico per un nato negli anni ’60-’70 come Chris. Si perché gli anni ’90 oggi ci sembrano un’epoca di benessere e gloria sociale ed economica, perciò ‘sto film uscito prima della “crisi del nuovo millennio” ha il suo valore, involontario, nel raccontare epoche diverse. Il cambio del nome di Chris/Alex aveva il suo significato e peso in una società lontana dal vezzo delle molte identità dei social network e collezionisti di soprannomi (io per primo, il nostro Cassidy in fondo alla fila, ma c’è pure lui, e tutti voi che ci leggete, vero?). Credo sia un punto di confine che forse non darà la giusta dimensione agli argomenti del film, ma giuro, non mi era mai capitato di pensare a un cambiamento della società tanto rilevante da pensare che potesse inficiare la futura comprensione di un film. Perciò siamo di fronte ad un crocevia involuto, casuale ma importante. Per noi abituati ad indossare tante maschere diverse, il cambio di nome di Chris potrebbe sembrare normalissimo, ma era per lui la rinuncia totale, completa, di chi vuole essere un uomo nuovo, da zero.
Non li capirò mai quelli che si firmano con un nome di fantasia, tzè dannati hippie! |
Il decennio post 11 settembre 2001 non è certo stato un’epoca florida di critiche alla società occidentale, tanto preoccupata dalle minacce esterne da non volersene creare interne. Non c’era spazio per gli anarco-pacifisti o i sofismi hippie, benché “Into the wild” sia stato un gran successo usciva fuori tempo se paragonato al più lucido sguardo di disillusione di un Fight Club.
Quella di Alex Supertramp è una ribellione slegata da ogni logica del suo tempo, e forse è quel che diede maggior senso alla sua crociata solitaria, in un’epoca di relativo benessere economico globale. Lo stesso messaggio, nel mondo di oggi, ha più difficoltà ad attecchire.
Tante volte rivedendo vecchi film ci manca la percezione dell’epoca, del contesto sociale ed economico di allora, di come poteva funzionare la società. Due anni in anticipo o in ritardo dubito avrebbe suscitato lo stesso interesse e impatto culturale – perché comunque l’ha avuto, e per i miei gusti troppo poco.
«Ho la mia indignazione ma sono puro in tutte le mie inquadrature e dialoghi, garantito» Sean Penn ai produttori citando malamente Eddie Veder. |
Diciamolo che la visibilità di “Into the wild” ha goduto della fama di Sean Penn, nei suoi anni più brillanti davanti alla macchina da presa. Standoci dietro non ha mai realizzato granché: guardate, se proprio volete, il suo “3 giorni per la verità” in cui riesce a sprecare in un colpo solo Jack Nicholson, David Morse e Anjelica Huston. Con “Into the wild” ha mostrato limiti enormi come autore ma tutte le sue doti di venditore, più o meno meritate. Penn alla regia non fa che mostrarci ciò che dovrebbe sembrare bello e figo, ma non c’è una singola scena che adotti inquadrature e tempi di regia capaci di sorprendere perché ‘sto film “deve sembrare bello, deve sembrare poetico”. Deve “sembrare” un sacco di cose, piuttosto che “esserlo”.
Se avessi scritto il commento all’uscita del film l’avrei incensato senza se e senza ma. Altri tempi. Oggi sono più vecchio e nonostante me lo riveda volentieri ne vedo tutti i limiti, che poi sono parte del suo fascino. C’è abbondanza di ruffianerie e troppi buonismi, che per un racconto di crescita mancano di infondere il giusto senso del dramma, relegandolo tutto al finale. Se è vero che non c’è crescita senza sofferenza, le difficoltà di Chris/Alex ci sembrano poca cosa di fronte ai suoi supposti ideali, ed è qui il fallimento peggiore di Penn: non riuscire a mostrarci l’autentica lacerazione di Chris, la sua rabbia, quella che l’ha spinto su quel baratro senza lasciargli altra scelta che precipitare o spiccare il volo, anche solo planando più lontano che poteva, come poi è stato. Ci lascia davanti agli occhi il viaggio di un ragazzo buono e fiero, senza le sue contraddizioni e l’umanità più autentica. Chris diventa un personaggio bello da immaginare, ma svuotato di tanta parte della sua umanità.
«Uno di questi giorni devo riuscire a orgasmizzarmi didascalizzarmi» (quasi cit.) |
Può anche sembrare un film “on the road”, cosa che secondo me non è. Tra un flashback e un cambio di scenario manca il senso nudo e crudo del viaggio, in cui si sente lo scorrere della strada. Ogni esperienza di Supertramp viene trasformata in un vignetta aka “momento fottutamente didascalico”. Un viaggio a compartimenti stagni che “deve” portare in una certa direzione per poi fermarsi lì, aggiungere un flashback e via con un altro capitolo. La sceneggiatura è così schematica da non lasciare troppo spazio alle emozioni, ma Penn deve ringraziare Eddie Vedder che coi suoi testi, musiche e vocalizzi sembra l’unico ad aver colto un po’ dello spirito di Chris.
Dubito che senza quella colonna sonora il film avrebbe comunicato gli stessi concetti con altrettanta efficacia. Sembrerà antipatico dirlo, ma io ho quest’immagine di una pubblicità progresso con un ragazzo sulla sedia a rotelle e una palla da basket in mano che lancia il suo messaggio di solidarietà, poi il fuori onda ci mostra che quello non è un vero paraplegico, si alza dalla sedia con la palla in mano e chiede se la scena è venuta bene. Ecco, è un po’ così che mi sembrano la regia e la sceneggiatura di Sean Penn davanti alla storia di Supertramp, mentre i pezzi di Eddie Vedder ci liberano dall’imbarazzo di scene simili, restituendo un po’ di idealismo ed epica davanti all’eccesso di situazioni schematiche.
Oh, poi tutta la confezione è buona e bella, pure troppo, con una fotografia P-E-R-F-E-T-T-A dalla prima all’ultima inquadratura. Ma questa bellezza artefatta è un limite, e ricordo che alla prima visione il finale mi fece incazzare non poco: sembrava la negazione di tutto ciò che voleva comunicare, con la sconfitta di chi si allontani dalla società piuttosto che celebrarne l’autentica rinascita come uomo al di fuori di essa, pur pronto a soffrirne il fato. La vittoria degli schemi narrativi sull’anarchia del viaggio: distacco, rinascita, scoperta, fallimento lontano dalla società.
Sciolgo le trecce e i cavalli – corrono – e le tue gambe eleganti – ballano |
Chris/Supertramp non inizia il viaggio come una “ricerca di se stesso” ma come un atto di accusa nei confronti del mondo, della società e soprattutto della sua famiglia. Ma tutto l’idealismo non si rivolge al protagonista, ma alla sua rappresentazione. Chris appare immutabile, un’icona d’acciaio priva di debolezze fino agli ultimi 10 minuti: del suo percorso emotivo cogliamo ben poco. Forse quello di Chris è il viaggio che ciascuno vorrebbe fare ma non ha il coraggio né le motivazioni sufficienti, ma alla sceneggiatura manca il sentimento e l’empatia verso ideali tanto astratti, ripresi col distacco della narrazione alla lontana di una sorella che non ha potuto condividere quel viaggio. Ci lascia belle cartoline come fotografie al centro di un romanzo che non ci è stato permesso di leggere, solo un racconto per sentito dire.
La narrazione fuori campo slega il racconto, con quelle vicende famigliari di cui non vogliamo sentir parlare per tutto il film. Perché ci sta che siano state la causa scatenante, ma strapparci alle avventure di Chris per riportarci a quelle meschinità e sensi di colpa pare una bestemmia, o una forzatura nel dover per forza spiegare qualcosa che non avrebbe bisogno d’esser spiegato. Perciò la grande impresa manca di un genuino contatto con la realtà e la natura del viaggio, ridotto ai passaggi forzati di un capitolo e l’altro. Così anche i più sinceri incontri di Chris appaiono fantasie che si salvano dalla bruttezza didascalica per la bravura di attori e attrici.
«Cazzo, non siamo i protagonisti ma siamo la vera anima hippie del film» |
Amo “Into the wild”, mi è sempre piaciuto, ma quando lo rivedo sono sempre combattuto tra la sua natura poetica e quella artefatta. Mi chiedo come possa vederlo chi non abbia provato a fare un viaggio in solitaria. Chi non si addentri mai tra i boschi e le montagne. Chi non abbia avuto una famiglia di ipocriti bugiardi. Chi conosce solo l’indignazione preconfezionata verso la società dalle cartoline con frasi ad effetto postate sui social network. Chi non abbia rischiato qualcosa distaccandosi dal proprio piccolo per vedere quant’è grande il mondo e quanto piccole e misere le nostre preoccupazioni quotidiane.
Ok, sto parlando come un vecchio di merda lo so. Datemi la pensione e andrò a guardare i cantieri. Ma quanto si può giudicare un film così? Quanto è diverso per una generazione o per l’altra? Per alcuni resta un capolavoro, per altri sarà una robetta, o una marchetta, perfino un’assurdità. Forse la risposta è tutta nella colonna sonora di Eddie Vedder, che coi suoi pezzi riesce a tracciare un percorso di emozioni, tra l’organo da requiem e le grida sul pezzo “The Wolf”, che senza parole dice più di tutti i dialoghi nel film. Poi ci pensano le liriche di “Long nights”, “Society” e “Guaranteed” a sfanculare la società e raccontare l’amarezza che si nasconde nel viaggio di un giovane uomo deluso e disilluso. Eddie ha composto brandelli di poesia umanistica e naturalistica, ora sognante e malinconica, ora ingenua. E per quanto sia uno dei miei pezzi preferiti musicalmente, la chiusura “Hard sun” appare quasi fuori contesto, ma rientra in quei casi in cui le parole contano meno del tono e dello spirito.
Indimenticabile: la mitica Supermela! |
La voce di Eddie risuona più emozionante ed emozionata dello stesso Emile Hirsch che, come mi fecero notare all’epoca dell’uscita del film, pur mettendocela tutta non riusciva a scatenare l’empatia che serviva – anche se per un giovane americano della borghesia, quella faccia era perfetta. Ha perso una squintalata di chili per apparire magrissimo, funziona come figura ascetica ed è stato bravo in quei passaggi dove la rabbia e l’orgoglio di Chris devono emergere.
Il cast di contorno funziona alla grande, nota di merito a Catherine Keener nel ruolo dell’inguaribile hippie e madre ferita, William Hurt sia spregevole che umano, e il vecchio Hal Holbrook che con poche scene lascia il segno. Eppure la validità dei personaggi di contorno sembra confermare la debole scrittura di un Chris inventato, mentre questi uomini e donne appaiano così autentici nei loro piccoli spazi, fiaccati da colpe e fallimenti, come Chris non sembra mai.
Se non avete mai visto “Into the wild” dovreste dargli una chance, avendo la bontà di guardarlo con occhi più antichi di quelli di oggi: prima della società iperconnessa, prima della disillusione dal mito dell’occidente faro di libertà, fiaccato da troppe ipocrisie, dalla sporcizia nascosta sotto il tappeto delle nostre famiglie presuntamente perfette e felici. E se avete il gusto del buon rock malinconico potrebbe bastarvi anche solo la colonna sonora di Eddie Vedder. Ascoltare per credere.
La buona musica è reale solo se condivisa.
P.S. Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film! Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI. Per quanto riguarda la colonna sonora del film invece, restate da queste parti, ho qualcosa in mente.