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Invito all’inferno (1984): il girone dei dannati (delle produzioni televisive)

Ero pronto a metterci una pietra (tombale) sopra i film televisivi diretti da Wes Craven, ma siccome ho degli ottimi contatti (grazie Lucius!) oggi arriva il capitolo a sorpresa della rubrica… Craven Road!

Una delle costanti nella carriera dei miei registi preferiti, è la difficoltà di riuscire a trovare i fondi per produrre le loro opere, Wes Craven non è stato certo da meno, ma il Maestro di Cleveland si è sempre confermato uno alla buona, pur di assecondare il suo bruciante desiderio di fare cinema in carriera ha accettato di fare tutto, anche film porno (storia vera).

Prima di raggiungere l’apice della fama con Nightmare – Dal profondo della notte, Craven vagava in cerca di soggetti, come ad esempio il disgraziato seguito Le colline hanno gli occhi II, uscito nelle sale dopo vari rimaneggiamenti al montaggio non voluti dal maestro di Cleveland, solo nel 1985. Ma tra questi due film, zio Wessy ha avuto una piccola parentesi televisiva di cui faccio ancora in tempo ad occuparmi, visto che questa rubrica ancora si aggira attorno all’annata 1984 e 1985 della carriera di Craven. Il primo film diretto per la televisione è stato “Invito all’inferno”, e mai titolo fu più onesto e diretto di così.

Anche in formato 4:3 televisivo, i titoli di testa come da tradizione, non possono mancare!

Prodotto per il canale televisivo ABC, e trasmesso per la prima volta nel maggio del 1984, “Invitation to Hell” è uno dei lavori giovanili di Richard Rothstein, il futuro sceneggiatore di Universal Soldier, giovanile per faciloneria di alcuni passaggi oltre che per motivi puramente anagrafici.

L’inizio è se non altro sfizioso, in una ricca comunità dove tutti girano con lo stesso logo in bella vista sui vestiti, un autista di limousine si distrae a guardare due belle figliole in costume da bagno (evidentemente voleva verificare se indossavano anche loro il logo della comunità) e stira una tizia che anche lei, ad aspetto non passa certo inosservata. Sotto una cotonatura anni ’80 imbarazzante, e avvolta in una tutina rossa che la fa sembrare Diana il capo dei “Visitors” (serie popolarissima in quel periodo anche in uno strambo Paese a forma di scarpa), troviamo Jessica Jones che però non è QUELLA Jessica Jones, anche perché è interpretata da Susan Lucci, che dopo essere finita sotto le ruote dell’auto, tranquillamente si rialza è con un gesto della mano fulmina il distratto autista. Non si passa con il rosso né tanto meno sopra le passanti vestite di rosso!
Non è una puntata dei “Visitors”, è ancora un film di zio Wessy.

Come moltissimi horror, anche “Invito all’inferno” inizia con un trasloco, in questo caso quello della famiglia Winslow che dal Midwest raggiunge la ricca comunità nel sud della California, perché papà Matt (Robert Urich) ha avuto un bel lavoro nel vicino centro ricerche, dove potrà portare avanti i suoi studi su una tuta spaziale all’avanguardia.

La moglie di Matt, Patricia è fatta a forma di Joanna Cassidy (nessuna parentela giuro!), passata nel giro di poco da conturbante Replicante a miss mamma perfetta di due figlioli, la piccola Chrissy (Soleil Moon Frye) e il ragazzino in fissa con i videogiochi Robbie, non potete mancarlo visto che è interpretato dai capelli a scodella di Barret Oliver, il Bastian di La storia infinita.
«Mi racconti una storia? Una che non sia infinita però»

«Beneventi in paradiso» dicono gli amici della famiglia Winslow (citando palesemente Antonello Venditti), una nuova casa, dei nuovi mobili in arrivo, un posto bellissimo dove crescere i figli, l’unico modo per migliorare ulteriormente il loro stato sociale sarebbe entrare a far parte del misterioso club, quello con il buffo logo da sfoggiare sui vestiti. Un rito puramente simbolico di attraversare una misteriosa porta ed è fatta, sei parte dell’élite della società, con la possibilità di accedere alle feste e ai privilegi più desiderati, solo che a papà Pig Winslow tutta questa storia puzza.

Già perché il suo primo incontro con Jessica Jones non è stato proprio pesche e crema, alla guida della sua auto la donna lo ha quasi buttato fuori strada, facendo poi compilare il CID risolvere la situazione al suo grosso sgherro, per altro interpretato da Nicholas Worth, che era già stato diretto da Craven nel 1982, nel film Il mostro della palude, e avrebbe ripreso lo stesso ruolo anche in Darkman, come abbiamo visto.
Fun fact: Si intravede per un secondo, quando incrocia lo sguardo con il protagonista sulle scale, ma anche in questo film Craven ha voluto con se il mitico Michael Berryman!

Papà Pig Winslow è interessato a fare bene il suo lavoro e a godersi la nuova vita con la sua famiglia, questo famigerato club può aspettare, per ora la priorità è la tuta spaziale che sta costruendo, che merita almeno un paragrafo, visto che nel film diventerà centrale.

A ben guardarla, non è diversa da qualunque altra tuta spaziale abbiate mai visto in un film, la novità è rappresentata dalla tecnologia al suo interno, oltre che poter sparare raggi laser (eh?) e fiamme (EH!?) da un comodo cannoncino portatile piazzato sotto il braccio destro (alla faccia degli incontri ravvicinati pacifici, ma poi le fiamme nello spazio? Vabbè), il casco di questa futuristica tecnologia permette di individuare le forme di vita, confermando la loro natura non-umana… Time Out Cassidy!
La fantascientifica tecnologia del 1984

Cioè, fatemi capire, una tuta progettata per i viaggi su Venere, in grado di confermare a chi la indossa se la forma di vita incontrata è umana oppure no? Se diamo per scontato che per umano si intenda il vostro abitante medio del pianeta Terra, mi sembra abbastanza ovvio che qualunque creatura sia viva sul pianeta Venere, che sia essa fungo, spora o mostro tentacolare verdastro sbavante e con un mono occhio ciclopico, è da intendere come non umana, che cavolo serve una scritta sulla visiera del casco che ti conferma “Not-Human”? Vabbè fine Time Out Cassidy!

La differenza in una storia così, la fa quasi tutta la regia di Wes Craven, che sfrutta la funzione della tuta per giocarsi una mossa alla Alfred Hitchcock, ovvero quella di dare al pubblico più informazioni sul mistero, di quante ne abbiano i personaggi all’interno della storia. Zio Wessy lo fa con un’inquadratura dall’interno del casco su Jessica Jones in visita al laboratorio, che accende i segnalatori della tuta come le lucine su un albero di Natale: Not-Human. Not-Human. Not-Human.
Quella cofana di capelli ha ben poco di umano.

“Invitation to Hell” non è proprio il film del maestro di Cleveland che non conoscete e che dovreste vedere a tutti i costi, inutile girarci attorno, ma pur essendo una trama non sceneggiata da lui, mantiene un minimo di continuità nelle sue tematiche classiche, in particolar modo l’occhio critico nei confronti della struttura capitalistica, l’élite qui è rappresentata come diabolica, e soprattutto inumana nel vero senso del termine. Per un iconoclasta come Craven, l’occasione di dare una picconata ad uno dei valori cardine dalla società americana.

Tre artigliate? Tre fiammelle? Tre cacchette? Certo che è proprio bruttino questo logo.

Chiarito questo punto però “Invito all’inferno” soffre di parecchi problemi di ritmo, il secondo atto è stiracchiato per portare a 96 minuti di durata, una storia che poteva tranquillamente essere raccontata senza lungaggini, in un episodio di una serie televisiva (alla moda di “Ai confini della realtà” giusto per fare un titolo) da 45 minuti. Non è complicatissimo intuire il mistero dietro al club gestito da Jessica Jones, ma se non volete rovinarvi la visione nel caso decideste di recuperare questo film, da qui in poi… SPOILER! 

Patricia decide che vuole a tutti i costi i vantaggi del fare parte della crema della società, quindi insieme ai figli attraversa il misterioso portale e da quel momento, cambia atteggiamento. Diventa più aggressiva e spericolata in tutti i sensi, certo, con i limiti di una produzione televisiva, quindi non aspettatevi capriole erotiche, il massimo che avremo è una Joanna Cassidy in sottoveste, e fatevela bastare.
«Di’ un po’, Eddie, hai un coniglio in tasca o sei contento di vedermi?» (Cit.)

Dopo aver lottato con moglie indemoniata e figli bisbetici (chiusi entrambi dentro un armadio, in una scena abbastanza al limite del tragicomico), papà Matt decide di indossare la sua tuta per recarsi alla festa di Halloween del club e fare luce sul mistero.

Mi sembra il caso di citare un altro horror… Non aprite quell’armadio.

Qui mi tocca ribadire il concetto, davvero ti serve una tuta per identificare chi è “Not-Human”, quando alla festa ti trovi della gente vestita da gerarca Nazista in alta uniforme? Cioè mi trovassi uno vestito da SS ad una festa, lo capirei benissimo da solo di essere finito in un gran casino, non avrei certo bisogna della tutina da astronauta della Lego a confermarmelo no?

Quando non sei quello vestito peggio ad una festa.

In ogni caso attraversato il portale Matt, capisce perché il titolo “Invito all’inferno” è davvero una dichiarazione d’intenti per il film. La sua tuta gli permette di provare ad andare a riprendersi le anime dei suoi cari intrappolate laggiù, in quello che un Wes Craven costretto ad arrangiarsi, rappresenta come la comunità in cui i Winslow si sono trasferiti, però con la fotografia mandata in acido il più possibile. Gli intenti sono quelli di rappresentare l’inferno come il posto dei sogni, quello in cui puoi vivere se segui le regole della famigerata “American Way of Life”, ma il budget concede giusto l’effetto dei vecchi album di figurine 3D, però quando li guardavi senza indossare i caratteristici occhialini di carta con le lenti rosse e blu.

E Dante Alighieri… MUTO!

Nel finale poi va un po’ tutto in vacca, Matt con il potere dell’aMMMore riesce a liberare le anime della sua famiglia e a sconfiggere Jessica Jones, immortale e onnipotente sulla terra, ma capace al massimo di strepitare come una matta in quello che dovrebbe essere il suo elemento naturale, l’Inferno. Insomma un altro cattivone che parte leone e finisce beh, con una parola che fa rima con leone (muflone?). Fine della parte con gli SPOILER! 

Fa girare la testa pensare che subito prima del suo apice narrativo e creativo, raggiunto creando Freddy Kruger, il nostro Wes Craven abbia diretto questo filmetto che regge finché basato sul non mostrato e sulle atmosfere, ma crolla miseramente quando gli effetti speciali migliori, sembrano quelli del tunnel di luce della giostra dell’antico Egitto di Gardaland.
«Non mi piace più questa giostra papà, possiamo tornare a casa?»

Ma purtroppo sembra il destino dei grandi maestri del cinema, in particolare di quelli particolarmente iconoclasti come Craven, questa stessa storia con qualche revisione in fase di sceneggiatura e un budget decente, avrebbe potuto essere un film ben più Craveniano di così, però ci tenevo ad averlo in questa rubrica, anzi prossimamente affronteremo anche un’altra sortita televisiva del maestro di Cleveland, sempre qui lungo Craven Road non mancate!

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