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IT (1990): la tartaruga non ci può aiutare

Mi è sembrata un’idea davvero geniale quella della distribuzione cinematografica di uno strambo
Paese a forma di scarpa quella di posticipare di un mese l’uscita di un film
appena appena atteso come il nuovo “IT” di Andrés Muschietti. Non ho capito se
lo hanno fatto per potersi lamentare meglio della pirateria che uccide il
cinema, oppure per concedere più tempo al “Miglior doppiaggio del mondo”
(risate registrate) di rovinare la prestazione vocale di Bill Skarsgård.

In ogni caso,
mentre amici all’estero mi chiedono se ho già visto il nuovo “IT” e poi
idealmente mi battono una mano sulla spalla per consolarmi, noi fortunati
Italiani abbiamo ancora qualche giorno da riempire nell’attesa di vedere quello
che è già diventato l’Horror che ha incassato più della storia del cinema.
Quale occasione migliore per ripassare, quindi, quello che ancora per qualche
giorno è l’unico “IT” disponibile (per vie legali) in questo strambo Paese a
forma di palloncino scarpa, ovvero la miniserie televisiva del 1990
diretta da Tommy Lee Wallace!

Non so bene se
sia una fortuna oppure no, ma per motivi squisitamente anagrafici faccio parte
di quella generazione che aveva più o meno l’età dei protagonisti quando la
miniserie è stata trasmetta in prima serata in due puntate da Canale 5, oppure
Italia 1? Non ricordo.
Ricordo, invece,
benissimo tutto l’antefatto, vi ho già raccontato di come qualche tempo prima il gioco preferito di noi ragazzini
delle elementari era “Giocare a Twin Peaks”, ma nemmeno il mistero sulla morte
di Laura Palmer, ha potuto reggere il confronto con l’arrivo del Clown di
Stephen King, vi assicuro che nei giorni antecedenti alla messa in onda della
prima puntata, l’aria era elettrica come in un pezzo dei Pooh (come mi è venuta
questa?), la sensazione era che TUTTI sarebbero stati davanti alla tv a
guardarla.



Un’intera generazione di spettatori, qui gentilmente rappresentati da Stan.

Non so se fosse
l’effetto del passaparola e per quanto la popolarità di Stephen King allora e
oggi fosse sconfinata, dubito che ci fossero così tante persone che avessero
già letto il libro prima di vedere la miniserie televisiva, non vorrei passare
per quello schiavo dei suoi ricordi (ingigantiti) infantili, ma se chiedete a chi
c’era tutti ricordano quando hanno passato “IT” in prima serata.

Dovete capire che
il vostro amichevole Cassidy di quartiere è sempre stato un bambino strano, che
crescendo è migliorato poco, conoscevo Stephen King solo per via dei
grossi tomi con su scritto “KING” che vedevo in giro per casa e che leggeva mio
padre, avrei fatto la conoscenza di zio Stevie pochi anni dopo, ma in compenso
mi piacevano già gli horror, quello sì.
Stessa cosa non
si poteva dire i molti miei compagni, completamente all’asciutto del genere se
non per qualche titolo formativo come i Goonies
o Scuola di Mostri, questo spiega
perché i miei compagni di dividevano fondamentalmente in due: da una parte
quelli che già si cagavano addosso dalla fifa prima di vedere anche un solo
minuto della miniserie e quelli che spavaldi avrebbero iniziato a soffrire di Coulrofobia
per il resto della loro vita solo dopo averla vista.



Il preferito dell’associazione psicologi per l’infanzia.

A casa mia lo
stavamo guardando tutti (mia madre per ben due minuti, record!) e il giorno
dopo a scuola tutti i commentare le scene più paurose e a fare a gara per chi
doveva interpretare il Clown nei giochi pomeridiani, ma soprattutto tutti ad
ipotizzare come sarebbe terminata la storia della seconda parte che avremmo
visto (benestare dei genitori permettendo) solo quella sera. Vi posso giurare
che nessuno in quei momenti ha mai pronunciato la parola “HYPE” nemmeno per
errore e che nessuna associazione genitori è insorta per le messa in onda in
prima serata, eravamo così negli anni ’90, più rustici.

I toni a scuola
dopo la messa in onda della seconda parte erano meno esaltanti, ma il mio
compagno di banco [NOME CENSURATO… E ringrazia che non ti faccio fare una
figura di m…] era ancora talmente traumatizzato dal pagliaccio che mi
sembrava di essere seduto accanto a Stan il Boy Scout, ho temuto seriamente che
tornasse a casa per replicare la scena della vasca da bagno, quella con “IT” scritto
sulle piastrelle con il sangue, una di quelle immagini entrate a far parte della
memoria collettiva generale.



“Ah ah [NOME CENSURATO] se l’è fatta nei pantaloni!”.

Il mio rapporto
con il romanzo, invece, è stato a dir poco viscerale, ho amato quel tomazzo più
di qualsiasi altro libro, malgrado il fatto che sia l’unico romanzo di zio
Stevie che contiene una scena che avrei tranquillamente tagliato via (e King in
carriera ne ha scritte anche di veramente sceme), ovvero quella di sesso nelle
fogne tra i giovani protagonisti, che ho sempre trovato grossolana come
metafora e sbagliata come tempi: chi farebbe sesso in una fogna, quando un
clown assassino potrebbe essere ancora in giro?

A parte questo
problema (decisamente minore) il romanzo è un capolavoro assoluto che ho letto
e riletto con coinvolgimento assoluto, pensate che durante la mia prima
lettura, completamente immerso nei Barren di Derry, sentendo il letto muoversi
ho fatto il pensiero più immediato e razionale possibile: Pennywise mi sta
scuotendo il letto, appena abbasserò questo libro lo vedrò al fondo del letto
tutto ghigno e pom pom (storia vera). Con immenso sforzo di coraggio abbassando
il libro, ovviamente vidi che al fondo del mio letto non c’era proprio nessuno,
era stata solo una piccola scossa di terremoto per fortuna innocua a muovere il
letto (storia vera, secondo estratto), la mia reazione? Ah beh, è solo un
terremoto, niente pagliacci, posso tornare a leggere.



Ecco, più o meno come mi sono sentito io quel giorno.

Ho rivisto la
miniserie di Tommy Lee Wallace dopo aver letto il romanzo e poi ancora qualche
settimana fa, per prepararmi al nuovo film con la mia Wing-Woman, un’altra che
se la ricorda quella prima Tv a metà degli anni ’90.

Ora so che come sempre Internet si è infiammato per la solita polemica utilissima (voi non
mi vedete, ma sto sbadigliando, sembro il leone della MGM) riguardo al fatto che
il film di Andrés Muschietti sarebbe il remake di questa miniserie televisiva.
Assolutamente no, semplicemente sarà forse il primo adattamento davvero ben
fatto del capolavoro scritto da Stephen King nel 1986, perché è proprio
nell’adattamento che la mini di Tommy Lee Wallace fa acqua da tutte le parti.
Eppure, rivedendo
il film mi sono reso conto che sì, è davvero brutto, ma brutto anche forte, ma
malgrado questo il film di Wallace ha creato quintali di iconografia, imponente
nel non proprio sfoltito panorama delle maschere Horror quella di Pennywise, il
clown assassino in grado di traumatizzare un paio di generazioni. Questo fa di
lui un titolo ideale per la mia non-rubrica dei Bruttissimi di rete Cassidy!


Lo ricordo a
tutti che l’intento dei “Bruttissimi” è quello di parlare di quei film
oggettivamente brutti, ma che hanno saputo comunque diventare mitici, non è una
celebrazione del brutto fine a se stessa, ma un modo per ricordarci che anche
un adattamento scritto con i piedi può regalare dei brividi.
Il primo che
cercò di portare sul piccolo schermo il capolavoro di zio Stevie fu proprio un
suo grande amico, ovvero George A. Romero che fece una nutrita pre produzione
collaborando gomito a gomito con lo sceneggiatore Lawrence D. Cohen (quello di
“Carrie” di Brian De Palma), ma purtroppo l’occhialuto regista dovette
rinunciare al progetto per precedenti impegni sul set del remake “La notte dei
morti viventi” (1990) di Tom Savini, che poi è più o meno lo stesso motivo per
cui la Leggenda non ha diretto anche “Pet Sematary” (1989), sfiga: abbiamo perso
due collaborazioni tra King e Romero quasi in un colpo solo.
Bisogna anche
dire, però, che la miniserie non è stata certo affidata ad uno sprovveduto, Tommy
Lee Wallace amico e protetto di John Carpenter, si è fatto le ossa sul set di tanti film del Maestro, anche come aiuto regista, nel 1990, ad esempio, insieme
a Carpenter ha scritto un altro film per la tv, ovvero El Diablo.



Nick Castle, il Maestro Carpenter e Tommy Lee Wallace insieme nel loro gruppo i Coupe Devilles.

Il problema
principale della miniserie è un altro e sta quasi tutto nella sceneggiatura
davvero non all’altezza, per infilare a forza le 1300 e qualcosa pagine del
libro di King, nelle circa tre ore della miniserie Lawrence D. Cohen e Tommy
Lee Wallace hanno fatto un lavoro barbaro.

Se avete letto il
romanzo, la sensazione è che Wallace e Gromit Cohen abbia detto: «1300
pagine? Ma voi siete pazzi!» e ne abbiano strappate via circa la metà,
dopodiché hanno capito che erano comunque troppe, hanno accartocciato un altro
centinaio di pagine pescando a caso, del mucchio di carta (stropicciata)
avanzata, hanno tirato fuori un adattamento.
Bisogna anche
dire che non è stata tutta colpa loro, i produttori con in testa solo il
budget hanno imposto limitazioni di varia natura, la già citata scena di sesso
è sparita proprio perché Tommy Lee Wallace l’ha sempre considerata (anche lui)
fuori luogo, ma la storiella che riassume bene l’apertura mentale dei
produttori è quella del mitico John Ritter (che qui interpreta il mio preferito
Ben Hanscom) che da grande appassionato del romanzo, con malcelato entusiasmo
chiese ai produttori: «Quando vedremo la Tartaruga?» in tutta risposta si sentì
rispondere «Tartaruga? Ma cosa sei pazzo?» (Storia vera).
La prima parte
della miniserie tutto sommato funziona, i piccoli protagonisti sono presentati
tutti piuttosto bene, è facile per lo spettatori ricordare le loro
caratteristiche e i loro nomi, se vi state chiedendo come mai il gruppetto
prende il nome dei “Sette fortunati” (fortunati? Con un Clown assassino alle
costole?) è perché Tommy Lee Wallace voleva un nome che ricordasse I Magnifici sette per questo ha
sacrificato il classico (e bellissimo) “Club dei perdenti”.



Non avete che da scegliere, tanto è facile indentificarsi con ognuno di loro.

Certo, molti
dialoghi fanno male alle orecchie per quanto sono brutti, tipo quello tra
Beverly e il suo fidanzato violento e tutta l’operazione risente di un formato
televisivo vecchio stampo, dettaglio che si nota, cavolo se si nota! Ma il
problema principale forse sono i cali di ritmo, sembra sempre che Wallace
voglia conservare i momenti migliori per dopo, ma nel frattempo il pubblico
deve cercare di sorpassare dei momenti di stanca anche notevoli.

Dove davvero la
miniserie crolla è nella seconda parte, quella che per stessa ammissione di
Wallace è la meno riuscita, le versioni adulte dei protagonisti non sono in
grado di coinvolgere lo spettatore come le loro controparti infantili, dal
mucchio di attori spicca giusto Richard Thomas, ma forse più per la sua
caratteristica coda di cavallo, John Ritter ad esempio, il più famoso del cast
spesso è impegnato ad andare anche troppo sopra le righe. In generale, tutti
sono incastrati in scene frammentarie, oppure troppo lunghe, come la cena al
ristorante cinese che dura un’infinità in rapporto al tempo a disposizione.



La barba di John Ritter contro la coda di cavallo di Richard Thomas, chi vincerà?

Il vero buco
nell’acqua del film è il finale: il ragno gigante è una patacca inguardabile
che non farebbe paura nemmeno al più sensibile aracnofobico, mosso con i fii
sembra più un addobbo caduto da un carro di carnevale che un orribile mostro,
ma la vera delusione sta nel fatto che senza aver letto il romanzo e avendo
sforbiciato brutalmente la parte della tartaruga (che non ci può aiutare), la
vera natura di Pennywise è incomprensibile al grande pubblico. Di fatto, quello
che il pubblico può capire da questa miniserie è che IT è un ragnone
gigante (per altro orribile) che ogni 30 anni si traveste da Clown per papparsi
qualche bambino come se fosse una stantia diceria sui Comunisti, quando nel
romanzo era qualcosa di molto più profondo e malvagio mutato in un ragno solo
per diaboliche ragioni che Wallace semplicemente non ci racconta.

Sei talmente brutto che nemmeno i Sofficini ti fa il sorriso.

Eppure, Tommy Lee
Wallace, che arrivava da cose con un certo brio come “Ammazzavampiri 2” (1988) in
certi passaggi si ricorda la lezione imparata lavorando con il suo mentore John
Carpenter, ovvero che il non mostrato fa più paura di quello che si vede, proprio
per questo le pennellate horror sparse qua e là lungo le quasi tre ore del
film, per il ultimi 27 anni (…GULP!) hanno fatto sì che nel mondo la fobia dei
Clown proliferasse.

Certo, questa
miniserie è il classico adattamento che in certi momenti campa di rendita
solo perché il materiale originale è talmente ottimo che proprio una
porcheria non potrai mai tirarla fuori (Chi ha detto il film di “Watchmen”?),
ma le singole scene sono entrate nell’immaginario, la già citata morte di Stan,
i biscotti della fortuna con il loro macabro contenuto, il palloncino che si
gonfia nel lavandino del bagno di casa di Beverly per poi esplodere imbrattando
tutto di sangue, oppure le singole apparizioni di Pennywise, a partire proprio
dalla prima scena, con il piccolo Georgie con la cerata addosso ad inseguire la
barchetta lungo il rigagnolo di pioggia a bordo strada, oh sì… Certo che
galleggiano Georgie… Galleggiano tutti. Tra queste c’è una, o più scene che
allora vi hanno strappato almeno un brivido, non c’è “Beep beep Richie” o Silver
che vi possa salvare.


Mai parlare con i clown sconosciuto nei tombini.

Rivedendolo con
gli occhi del me stesso di 30 (o 27) anni dopo, trovo incredibile che un film
del genere fosse passato in prima serata, approvato da tutto quel fermento
popolare di allora, erano davvero altri tempi, perché le scene in grado di
traumatizzare il pubblico certo non mancano, anche perché staremmo qui a
parlare della fuffa, se Tommy Lee Wallace non avesse seguito il suo istinto e
non si fosse fidato dell’ottimo provino di Tim Curry che in questo film
semplicemente, giganteggia.

Sì, perché per
fare da ripieno a Pennywise sono stati presi in considerazione una bella banda
di soggetti molto raccomandabili come Malcolm McDowell ed Alice Cooper, per un
po’ anche Rozz Williams cantante e fondatore della band Christian Death
sembrava il candidato migliore (storia vera) almeno fino all’arrivo di Tim
Curry, la cui esperienza sotto il trucco del diavolone di “Legend” (1985) e
soprattutto negli scosciati panni di Frank-N-Furter in quel super culto che è “The
Rocky Horror Picture Show” (1975) hanno fatto di lui la scelta ideale per la
parte, il resto se lo è guadagnato con la sua recitazione.


Un mostro nascosto tra le lenzuola stese, chissà chi starà citando il buon Tommy Lee.

Malgrado il make
up di Pennywise non fosse ancora definitivo (nel corso del film lo vediamo
cambiare forma del volto almeno un paio di volte) Tim Curry non solo sopporta
le lunghe ore di sessione di trucco, ma la leggenda vuole che passasse quasi
tutto il tempo isolato dal resto del cast, per una semplice ragione: erano
tutti troppo spaventati da lui!

Curry regala un’interpretazione
fatta di tanto mestiere e spesso va sopra le righe, ma il risultato finale
funziona proprio come funzionava per il Joker di Jack Nicholson (tanto per
restare in zona clown), il modo in cui saltella, sgrana gli occhi e cambia il
tono della voce lo rende un essere veramente diabolico un mostro spaventoso in
colori sgargianti che è entrato a testa alta (e collezione di palloncini
colorati) tra le maggiori maschere horror in buona compagnia insieme a Michael, Jason, Freddy e Christine,
niente male per un filmetto televisivo così pieno di difetti.


Ultima foto del clown giuro, anche perché il post è quasi finito.

Se la prima volta
che ho fatto la spaventosa conoscenza di Pennywise avevo l’età dei giovani
protagonisti, ora, 27 anni dopo sembro più Bill, Ben, Richie e tutti gli altri
nella loro versione adulta, ma IT sta per tornare ed è nuovamente affamato,
preparate la fionda, prendete il mazzo di carte e Silver, allenatevi allo
specchio con gli scioglilingua, avremmo bisogno di tutto l’aiuto possibile, perché
tanto lo sapete: la tartaruga non ci può aiutare.

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