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IT – Capitolo due (2019): ma come diavolo ci difendiamo? A parolacce?

Come sapete stavo aspettando Andrés Muschietti al varco, lui ha cercato di depistarmi iniziando a firmarsi Andy, ma il risultato non cambia: la seconda parte di IT è un passo delle Termopili dalla quale non si passa, non ci è riuscito Tommy Lee Wallace no a cui il mondo dovrebbe qualche scusa.

Badate bene: non sono uno di quegli odiatori compulsivi che gongolano nel potersi lamentare in rete dei film, ci speravo davvero che Muschietti potesse fare un ottimo lavoro, ma “It: Chapter Two” è un film che a tratti mi è piaciuto (anche molto!), ma si porta dentro una serie di difetti che si notato tutti e anche parecchio.

Fatemi fare come nella storia, iniziamo subito a parlare del film prima di fare un balzo indietro nel tempo. La malvagità della città di Derry è tutta delegata alla primissima scena del film, un crimine d’odio contro una coppia omosessuale, uno dei due è interpretato da Xavier Dolan a mani basse uno dei migliori attori del film, oltre che uno dei tanti camei illustri della pellicola.
Cambio scena, incontriamo subito Bill Denbrough che nella sua versione adulta è interpretato da un James McAvoy più quieto del solito (o delle sue ultime apparizioni, fate voi), è un famoso scrittore che bazzica il cinema, sua moglie Audra (Jess Weixler) fa l’attrice e da personaggio chiave del romanzo, qui è ridotta a una comparsata di pochi secondi, subito oscurata dal regista del film tratto dal romanzo di Bill, Peter Bogdanovich che dà il via ad un tormentone: «Belli i tuoi libri, ma non sai scrivere i finali, quindi dobbiamo cambiarlo per il film». Considerando che più avanti nel corso della trama, il “finto” scrittore Bill incontrerà un vero scrittore (Stephen King, qui nei panni del gestore di un negozio di roba usata) ed insieme parleranno di finali che fanno schifo, viene quasi da pensare che Andy Muschietti e il suo sceneggiatore Gary Dauberman abbiano voluto mettere le mani avanti, una dichiarazione d’intenti se non proprio di resa nei confronti del pubblico.
«Finali? Chi io? Io faccio l’attore ormai non chiedete a me»

Chiunque abbia letto il romanzo di zio Stephen King, sa che la seconda parte del libro è decisamente la più complicata, un racconto di quarantenni in crisi che sono invecchiati sì, ma non hanno mai superato i traumi dell’infanzia, persone che hanno ancora paura del clown che li terrorizzò da bambini, ma ora hanno paure molto più adulte e complesse, roba da far (quasi) rimpiangere mummie e lebbrosi dei tempi andati. La seconda parte di IT è una roba alla Lawrence Kasdan dove ogni tanto spunta un clown assassino e con un finale decisamente psichedelico che ambisce, se non proprio al vecchio H.P. Lovecraft, diciamo almeno Stuart Gordon, via. Insomma: roba tosta che con una buona pianificazione al cinema ci potrebbe arrivare quasi inalterata, un piano che a questo adattamento in due parti è mancato.

Il primo capitolo ha deciso di giocarsela facile, puntando tutto suoi protagonisti da bambini, è stata anche una scelta obbligata per via del cambio in corsa di regista, ma era chiaro fin dall’ultima scena del capitolo precedente che l’adattamento PERFETTO del romanzo che tanti “Fedeli Lettori” sognano, non sarebbe arrivato neanche questa volta. Poco male, penso che un’opera funzioni al meglio nel formato in cui è stata pensata, quindi ad un adattamento fotocopia preferisco sempre un’interpretazione originale e qui Andy Muschietti aveva sulla racchetta una palla che poteva valere “game, set and Match”, passatemi il paragone sportivo. Da qui in poi, vi avviso, ci sarà qualche SPOILER!

«Brindiamo ad un’altra generazione di spettatori che non vorrà mai più mangiare al ristorante cinese!»

Purtroppo, qualcosa non ha funzionato. Mancanza di esperienza da parte del nostro Andy? Troppo amore per il materiale originale? Probabilmente entrambe le cose, sta di fatto che i primi quaranta minuti di “IT – Capitolo due” sono impeccabili e l’ennesima conferma che Stephen King si meriterebbe il Nobel per la letteratura. Ma arrivati alla fine dei 169 minuti di durata del film (che a tratti si avvertono anche troppo) il risultato è quello di rischiare di scontentare un po’ tutti: i Kinghiani oltranzisti che odieranno le differenze, quelli che hanno amato la prima parte (decisamente più riuscita di questo capitolo due), ma anche chi è cresciuto con la miniserie degli anni ’90, di cui questo film troppo spesso ricalca le orme senza, però, aggiungere nulla di nuovo.

La caratterizzazione dei Perdenti da adulti è quella che solo un grande scrittore potrebbe sfornare, Bill è ancora afflitto dai sensi di colpa da fratello maggiore e non è un caso che una delle scene migliori del film (quella nel labirinto di specchi del Luna Park) veda un altro bambino così simile a Georgie come protagonista.
Il pallone gonfiato (quello a sinistra!) vale come citazione al vecchio Timoteo Speziaindiana.

Beverly Marsh figlia di un padre maltrattante, si è sposata un uomo identico che clamorosamente scompare dopo la scena iniziale diventando una sottotrama dimenticata (ma perché!?) e per un film che non riesce a rinunciare alla primo capitolo per andare oltre, il confronto tra le due “Bev” vede indubbiamente sconfitta quella interpretata da Jessica Chastain talmente azzeccata fisicamente alla controparte cartacea, da dimenticarsi di essere un po’ il cuore dei Perdenti. Peccato.

Ben “Covone” Hanscom, quello del gruppo per cui ho sempre avuto un occhio di riguardo (se la cosa può interessarvi) qui si gioca tutto subito e poi finisce a fare tappezzeria, capisco che Jay Ryan sia stato preso per far esclamare alle signore in sala «Minchia che figo!», ma ridurre il
personaggio ad un modello di GQ è un po’ poco.
Passare da “Covone” a “figone” ci vuole un attimo (ma tanti addominali)

Il Mike di Isaiah Mustafa non ha nessun difetto, è quello che resta a guardia del fortino, i problemi con il suo personaggio arrivano più avanti, da lettore posso apprezzare di aver visto sul grande schermo un adattamento pregevole del rituale di Chud, ma le non meglio precisate origini di Pennywise fanno pensare più ad Incontri Ravvicinati che ad una storia horror, ma visto l’interesse generale (di Muschietti e Bill Skarsgård in particolare) di sfornare un terzo film sul Clown danzante, magari è solo un problema rimandato. Ben più attuale, invece, il piano geniale di Mike: «Non sono sicuro che un antico rituale indiano possa funzionare, intanto faccio tornare tutti i miei amici, li metto in pericolo e chissà che magari tutti insieme possa andare meglio», intonando un bel «Io speriamo che me la cavo», categoria: grande stratega!

«Ma stiamo girando una roba tratta da King o da Marcello D’Orta?»

Stanley ha il ruolo più ingrato nella seconda parte del film, Andy Bean è azzeccato per il ruolo e la famigerata scena della vasca da bagno, qui risulta molto più simile al romanzo, ma meno drammatica della versione della miniserie (Tommy Lee uno, Andy zero) e non fatemi nemmeno iniziare a parlare di quella odiosa letterina messa in coda al film, una roba degna della morale finale degli episodi di He-Man che conclude il tutto con un barattolone di miele di cui avrei fatto volentieri a meno.

Su sette perdenti, di fatto, ne restano solo due che funzionano più che altro perché sono protagonisti di simpatici battibecchi e affidati ad attori davvero azzeccati: Eddie era un bambino ipocondriaco con una madre apprensiva, è cresciuto per diventare un James Ransone ancora più complessato con una moglie pressante (colpo di genio? Farle interpretare alla stessa attrice Molly Atkinson: Sigmund Freud analyse this!), mentre quello che vince di prepotenza la sfida tra attori resta il Richie Tozier di Bill Hader, con lo stomaco sempre rivoltato e le “Frasi maschie” pronte ad avvenire, uno che imita Jabba the Hutt e John McClane, fingendo spesso la sicurezza che non ha. In un film che inizia con un crimine d’odio in una città due righe omofobica, il suo “piccolo sporco segreto” è un’invenzione del film che dà spessore all’adulto complessato del film, ma soprattutto rende ufficialmente MikiMoz un profeta, andate a rileggervi i commenti a questo post per conferma.
Richie senza parole, dopo l’anticipazione di MikiMoz Moz il Profeta.

Ma superati i primi quaranta impeccabili minuti di film, “IT – Capitolo 2” pecca di troppo amore, non può esserci un vero film tratto dal romanzo di zio Stevie senza i parallelismi tra infanzia e maturità dei personaggi che dal primo film erano stati zappati completamente via. Qui sono anche ben fatti, ma denotano l’impossibilità di questo secondo capitolo ad emanciparsi dai piccoli protagonisti che hanno conquistato il pubblico nel 2017. Andy Muschietti si barrica in un secondo atto che ammazza il ritmo e mette a durissima prova l’attenzione del pubblico, perpetuando lo stesso schema ripetitivo per ognuno dei Perdenti, con il clown Pennywise centellinato (proprio come accade nel romanzo), ma con il risultato di annoiare e lasciare il pubblico che non ha mai letto il libro con la voglia di vedere più scene come quella riuscitissima del clown alle prese con la bimba con la voglia in faccia.

«Vorrei spaventarvi di più, ma ormai siete grandi per avere paura dei clown»

Eddie contro il lebbroso, Ben e i suoi turbamenti amorosi per Bev (con tanto di citazione «baciami ciccione!» conferma che Muschietti ha continuato a seguire la strada già battuta da Tommy Lee Wallace) e la stessa Bev che deve vedersela con l’inquietante sig.ra Kersh in una scena che era stata malamente anticipata dalla campagna promozionale del film, un po’ come spararsi da soli in un piede.

No, non si è bloccata la proiezione del film, è proprio così la scena.

Tutta questa porzione di film non solo è ripetitiva fino allo stremo, ma ci impedisce di affezionarci all’incarnazione adulta dei personaggi che si vedono spesso superati in termini di minutaggio dalle controparti infantili che ancora tengono banco e, se proprio devo dirla tutta, i famigerati “Salti paura” (meglio noti come “Jump Scare”) in cui Muschietti eccelle, li ho trovati molto meno riusciti, non solo perché il suo modo di farli attendere al pubblico sembra troppo spesso un esercizio di stile, ma soprattutto perché gli effetti speciali in grafica computerizzata mostrano il fianco, in certi momenti mi sembrava di stare guardando un episodio del cartone animato “The real Ghostbusters” che quando voleva sapeva essere più pauroso di questo film, anche se, forse, era un mio ricordo d’infanzia.

«Ti sei ricordato di cambiare l’acqua nella ciotola di Pennywise?»

Come faccio a restare in tensione, quando la premessa di questa lunga serie di “spaventelli” inizia con: “Finché siamo stati insieme, Pennywise non ha potuto sconfiggerci… Separiamoci!”. Ma siete scemi? Lo sapete che negli horror non bisogna separarsi e per giungere alla conclusione che già sapevano, va via un’ora buona di pellicola. No, non ci siamo proprio.

Quando arriva il famigerato momento di concludere, “IT – Capitolo 2” non aggiunge molto alla versione già portata in tv da Wallace, Pennywise diventa ancora una volta un grosso ragno per motivi non ben specificati e Muschietti cala la maschera e fa la cosa che gli riesce meglio: la butta in caciara.
Una volta dentro, vale tutto, anche inserire una scena (molto ben fatta, devo dirlo) in cui si omaggia spudoratamente il mio film preferito, il Jack Torrance di “Shining” (1980) e se devo dirla tutta la scenetta del Volpino innocuo, mi ha un po’ ricordato Ray che evoca l’uomo di Marshmallow. Per un film che inizia facendo battute quasi metacinematografiche su brutti finali modificati, ho trovato abbastanza significativo il fatto che nell’ultima inquadratura finale, Muschietti anziché concentrarsi sui suoi protagonisti che se ne vanno verso l’orizzonte, non riesca proprio a resistere dalla tentazione di allargare l’inquadratura, per mostrarci l’insegna di un cinema che trasmette “A Nightmare on Elm Street 5: The Dream Child” (1989).
«Mai una volta che scendiamo qui sotto per cercare la tartarughe Ninja, mai! Sempre quel cacchio di Clown!»

A tratti “IT – Capitolo 2” sembra quasi un remake non autorizzato di uno dei seguiti di “Nightmare” piuttosto che qualcosa tratto dal libro di King, se non fosse che, per lo meno, la pellicola riesce a dare un minimo di rilevanza sulla questione chiave della storia: degli adulti che per poter finalmente crescere, devono dolorosamente fare i conti con il loro traumatico passato.

Ecco perché Richie deve perdere Eddie per trovare se stesso, Beverly e Ben devono quasi affogare (letteralmente) nelle loro paure per poterle superare e in questo senso l’assenza di Audra dal film penalizza il personaggio di Bill.
Tutto da buttare? Per me no, personalmente non ci ho creduto nemmeno un secondo alla storia che questo nuovo IT sarebbe stato l’adattamento perfetto del libro, anche se il “Capitolo 2” è rimasto attaccato al materiale originale come i protagonisti alla loro infanzia. La parte che ho apprezzato di più è proprio lo scontro finale, così diverso dal libro.
Non voglio fare il Freud del Piemonte perché non ne ho la qualifica, ma per superare un trauma bisogna prima di tutto guardarlo in faccia, capire che non fa così paura come nei nostri ricordi e poi provare a minimizzarlo per poter arrivare a superarlo per sempre. La prima reazione davanti allo scontro finale è spiazzante, da spettatore ti trovi a pensare: «Davvero lo sconfiggono con una gara di parolacce?». Cioè, ma è la profezia del soldato Frost di Aliens – Scontro finale, come diavolo ci difendiamo? A parolacce? Sì, esatto, proprio così.
Aliens Pennywise – Scontro di parolacce finale.

A mente fredda, invece, realizzi che un mostro che basa la sua forza sulla paura, può essere sconfitto solo così: guardandolo in faccia e riconoscendolo per quello che è “un clown di merda”, per dirla alla Richie. Che sia un bullo che cerca di spaventarti facendo la voce grossa, oppure un politico che aizza l’odio della folla per una manciata di voti, Pennywise è l’incarnazione di un male attualissimo che andrebbe sconfitto ridendogli in faccia, a testa alta e a muso duro, viene da mordersi le nocche che un finale così potente e al passo con i tempi e che, soprattutto, parla di coraggio, sia andato diluito in un film che ha avuto troppa paura di affrancarsi dal materiale originale.

La sensazione a fine visione è quella di un’occasione mancata bella grossa, di un film che, purtroppo, non aggiunge molto alla miniserie di Tommy Lee Wallace, se non forse un clown che farà vendere parecchi Funko. Ma, forse, era proprio la direttiva in quest’epoca in cui il post modernismo al cinema domina, dare una mano di bianco e qualche effetto speciale alla miniserie degli anni ’90 e vai così che vai bene, peccato, però, Andy, quanto ti ricapita un’occasione così, tra ventisette anni, magari?
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