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Jawbone (2017): Una faccia piena di pugni

«Vanquished by a sorry jawbone the victory was not in the
arm, not in the weapon, but in the spirit» Book of judges.


Non credo esista
un singolo sport che sia stato glorificato al cinema più del pugilato, sono
sicuro che senza dovervi sforzare troppo, vi verranno in mente mille titoli di altrettanti film
dedicati alla Boxe e quasi tutti migliori di Southpaw.
Sulla base del
titolo, temevo guardando “Jawbone” di trovarmi davanti ad una replica in salsa
inglese del film di Antoine Fuqua, per fortuna mi sono ricreduto, non aspettatevi davvero niente di innovativo da questo film, però
concedetegli una possibilità perché al pari del suo protagonista è meglio di
come appare.
Una cosa che mi
irrita di tanti che il cinema si ritrovano a farlo davvero, è la mancanza di
rispetto per i classici, sono profondamente convinto che prima di fare un
film, dovresti prima guardarne tanti e avere l’intelligenza di capire perché alcuni sono diventati dei classici così amati dalle persone capaci di restare
nel tempo, prima di arrivare ed atteggiarsi a grande campioni del passato, devi farti delle belle ore in
palestra ed ecco perché “Jawbone” funziona, perché non è Rocky, ma dimostra di averlo visto e capito.



La faccia di chi sa, la faccia di chi ha capito.

Diretto (bene) da
Thomas Q. Napper, uno che ha all’attivo tanti cortometraggi e la regia di
parecchie seconde unità registiche, “Jawbone” è quasi tutta responsabilità di Johnny
Harris, Inglese, classe 1974, particine in tanti film provenienti dalla terra
di Albione e come la maggior parte degli attori britannici, un gran talento a
recitare. Harris questo film lo ha scritto, prodotto e interpretato nei panni
del protagonista Jimmy McCabe, una prova davvero alla Sly Stallone in questo
senso.

Eppure, “Jawbone”
non ambisce ad essere il Rocky inglese, ha uno spirito diverso, per certi
versi è il classico film che potrebbe capitarvi di vedere ad un film festival,
con il suo ritmo lento e le inquadrature lunghe impegnate a seguire il
protagonista, mettete in preventivo questo se doveste decidere di vederlo, ma
al pari di Jimmy McCabe il film sale di colpi con il secondo tempo.
All’inizio il
nostro Jimmy è poco più di uno scarto d’uomo, l’ombra del promettente pugile
delle giovanili che era, vive nei sobborghi di Londra e la maggior parte della
sua giornata la passa per terra, metafora della sua condizione, anche perché è
troppo sbronzo per fare altro. McCabe vive nelle case popolari ed è uno che riesce
ad attaccar briga anche nell’educatissimo e calmissimo ufficio scartoffie inglese,
dove dovrebbe solo fare una file e farsi assegnare il nuovo appartamento, perché
quello dove sta è pericolante, ma per lui è troppo complicato anche quello ed
in un attimo scatena un casino. Non so cos’avrebbe mai fatto se si fosse
trovato in coda alla posta in uno strambo Paese a forma di scarpa di mia e
vostra conoscenza.

Quando sei troppo stupido (o troppo ubriaco) per capire che sei già con il culo a terra.

McCabe resta
senza casa, una pancia vuota e una faccia piena di pugni (cit.), il nostro
Jimmy è uno di quelli che quando si trova a terra, probabilmente inizia a
scavare, non è affatto il picchiatore con il cuore d’oro che sogna di non
essere più un bullo come il Rocky di Stallone, è un testone arrabbiato
talmente abituato a perdere che non capisce nemmeno quando sta vincendo. Johnny
Harris lo interpreta proprio così, come uno che stringe i denti non per
potersela giocare contro il campione del mondo, ma al massimo per stare
resistere un altro giorno, facendo una strada diversa e meno gloriosa di quella
di Rocky, alla fine si guadagna i favori del pubblico, come la citazione
iniziale che apre il film: la vittoria è nello spirito.

Per ritrovare il
suo Jimmy torna alla vecchia palestra dov’è cresciuto, la Union Street Boxing
club (in onore del Union Street Theatre, dove Johnny Harris ha imparato a
recitare. Storia vera), dove non solo ritrova i suoi vecchi allenatori, ma
altre due prove viventi che gli attori inglesi sanno essere dei talenti che
levati, ma levati proprio.

Ray Winstone in una grande prova (un’altra!).

Il proprietario
della palestra William Carney (il grande Ray Winstone in una prova
asciuttissima) che guarda Jimmy due minuti e gli dice: “Se ti sento che puzzi d’alcool
anche una sola volta sei fuori” e lo riprende sotto la sua ala, forse perché
quando lo guarda, lo ricorda più come giovane promessa del ring, che vecchio rottame.

Proprio sul ring,
invece, Jimmy ritrova il suo vecchio allenatore Eddie, un gigantesco Michael
Smiley, a cui basta una faccia scura per farti capire quanto il suo personaggio
sia stato deluso da Jimmy in passato, una prova di recitazione lavorando per
sottrazione, applicata ad un personaggio che se avete fatto un po’ di sport come
si deve in vita vostra (uno qualunque) non farete fatica a riconoscere: quella
dell’allenatore di provincia, quello che ti tiene in campo, sul ring, o sul
tatami (o dove volete voi) per tenerti fuori dai guai, quello che ti insegna l’etica
prima dello sport, stare al mondo prima si stare in campo, avete presente, no? Forse
ne avete conosciuto uno così anche voi, solo che qui è fatto a forma di Michael Smiley, poteva andarci peggio.



“Vai ragazzo come ti ho spiegato, senza paura”.

Avete già capito
come va a finire, no? Se avete visto più di due film (non porno) in vita vostra già
sapete che arriverà la litigata come tra Rocky e Mickey, ma anche 
l’occasione
da non farsi scappare, più per obbligo, fame e disperazione che per vera
rivalsa ed insieme a lei arriva il terzo attorone inglese che giganteggia
nelle sue scene, è Ian McShane
(scusate se è poco) locale magheggione (perché Gangster non si dice, non è
educato) che offre a Jimmy un combattimento rigorosamente illegale, contro uno
molto più giovane di lui, l’imbattuto Damien Lee e pure una bistecca al sangue nel suo ristorante. Jimmy
accetta, forse più per la bistecca che per altro viene da pensare.



Ian McShane, uno che per cena si mangia i film a cui prende parte.

Sempre in virtù
di quei due film di cui sopra, vi starete chiedendo quando arriva il classico “Training
montage”, arriva adesso perché Jimmy si allena, ma è tutto volutamente anti
spettacolare, un tripudio di fatica, sudore e muscoli doloranti che tornano a
fare quello che sanno fare, ma che per un po’ hanno dimenticato. Dimenticatevi
le cinque uova più famose della storia del cinema (insieme a quelle di Alien),
qui niente scalinata di Philadelphia, toglietevi dalla testa “Gonna fly now”,
ma la musica non manca ed è quella dell’ottima colonna sonora del film
composta da Paul Weller, mitico chitarrista dei The Jam che qui azzecca tutti
i pezzi giusti, compreso quello dai toni bassi, elettronici, quasi Industrial
che sottolinea il sangue sputato da Jimmy e tenetemi l’icona aperta sulla
colonna sonora che dopo ripasso.

Jimmy ogni tanto qualcuno cerca anche di schivarlo però.

Se la storia non
vi ha ancora preso e non avete ancora trovato un motivo per fare il tifo per
questo avanzo d’uomo che più che Rocky a tratti ricorda il Randy the ram di “The
Wrestler” (2008), aspettate il finale che si fa perdonare in pieno una storia
che non inventa niente ed è identica a tante che avete già visto, però
recitata e diretta bene, come i combattimenti, dove Thomas Q. Napper sforna una
buona varietà di inquadrature, da fuori dal ring (il punto di vista dell’allenatore),
ma anche da dentro, con la MDP molto vicina ai pugili, una qualità che si vede
tutta nell’ultimo match, Napper è bravissimo a far arrivare al pubblico l’andamento
del combattimento, il modo in cui Jimmy si trascini a fatica, resista per
miracolo e si ritrovi travolto dal suo avversario, roba che tu sei in poltrona
ma proprio come Jimmy ti trovi a pensare “Sono caaaaazzi” (Cit.).

Dai vai, campione sei anche con un occhio blu, se prendi qualche sventola ne ridai di più (Cit.)

Riprendendo l’icona
lasciata aperta lassù, la colonna sonora fa il suo dovere, incessante e
ovattata, come dopo i pungi in faccia, esalta senza glorificare, sostiene senza
sbavare nulla, l’ultima parte del film è bellissima, i più bei venti minuti di
boxe che vedrete al cinema quest’anno, finisce tutto con il pezzo, sempre di Paul
Weller, “The ballad of Jimmy McCabe” che non è “The Wrestler” di
Bruce Springsteen (ma lassù non ci arriva nessuno) proprio come il film non è Rocky,
però ha lo spirito giusto, gli attori giusti, la colonna sonora giusta, perché la
vittoria non è nel braccio, non nell’arma, ma nello spirito.

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