Chi ha preso il cervello di JFK? Che cosa significa per noi ora? Yeah. Oh, è una solida sicurezza, però posso dirti che questa non è una bugia. Il mondo intero sarà presto diverso, il mondo intero sarà risollevato e no, non sono impazzito, sto solo canticchiando un pezzo a tema per scaldare i motori e darvi il benvenuto al nuovo capitolo della rubrica… Like a Stone.
Nato il quattro luglio e The Doors possono essere considerate biografie con il coltello tra i denti, perché l’obbiettivo del nostro Oliviero Pietra era sempre lo stesso, raccontare la verità e di conseguenza, destabilizzare, far sorgere dubbi e in generale, smontare le certezze relative ad un intero decennio, gli anni ’60 degli Stati Uniti, quelli che hanno deciso delle sorti di tutto il mondo. Quindi ecco perché proseguendo sullo stesso filone, Stone qui completa un’ideale trilogia, con un’altra biografia, a suo modo basata sul procuratore distrettuale di New Orleans, Jim Garrison, che all’epoca dei fatti fu uno dei pochi a mettere in dubbio la verità sull’omicidio del Presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, la verità dichiarata per lo meno, ovvero la tesi ufficiale successiva all’indagine della Commissione Warren, la quale stabilì che Lee Harvey Oswald fu il solo esecutore materiale dell’attentato.
Il vero Jim Garrison, un po’ per i suoi trascorsi (in particolare alcune sue affermazioni piuttosto forti riguardo al tema dell’omosessualità) un po’ per l’inevitabile berlina mediatica, risultava decisamente più controverso della sua scintillante versione cinematografica, ma questo mi permette di introdurre il discorso, perché se “JFK” chiude un’ideale trilogia di biografie, a suo modo ne apre una seconda, quella che ha un po’ (anzi, un altro po’) etichettato Stone come il regista dei presidenti, anche se proprio come questo film – e in generale la filmografia di Oliviero ci insegna – per capire davvero qualcosa, bisogna scavare e andare più a fondo.
Vi ricordate quando ho iniziato questa rubrica, sono partito con una premessa ballerina, una mia bizzarra associazione mentale per cui mi era impossibile trattare Oliver Stone prima di Brian De Palma, perché così ho conosciuto il cinema di due registi che hanno collaborato insieme, ma non sono mai diventati grandi amici, anche se un tema comune lo avevano (oltre al cinema ovviamente), mi riferisco proprio all’omicidio Kennedy, di cui De Palma è sempre stato ossessionato, almeno quanto la sua fissa per lo sguardo, che ben si sposa con il singolo evento più analizzato e studiato da ogni angolazione, come i fatti avvenuti a Dallas il 23 novembre del 1963, per altro stessa data della messa in onda del primo episodio della serie Doctor Who. Un caso? Un Complotto? Dubitate gente, dubitate.
De Palma ha raccontato più volte l’omicidio Kennedy nei suoi film, direttamente o da altre angolazioni, ma lo ha sempre fatto per far convivere le sue grandi ossessioni nella sua arte, perché il punto di vista del regista del New Jersey è sempre stato di una persona reticente alla leva, assolutamente e incrollabilmente contro la guerra del Vietnam, lo abbiamo visto. Il punto di vista di Oliver Stone è leggermente diverso, nel corso della rubrica abbiamo parlato dei suoi trascorsi, figlio di una francese e di un americano piuttosto conservatore, il nostro Oliviero in Vietnam ci è andato come volontario, giovanissimo e convinto di combattere una guerra giusta, come la Seconda Mondiale in cui ha combattuto suo padre, salvo poi scoprire sulla sua pelle che di giusto laggiù nel ‘Nam, non c’era un bel niente.
Immaginatevi le notti del giovane soldato Oliver (arruolato come William), lo zaino troppo pesante come cuscino, dopo ore di marcia nella giungla con la costante e logorante tensione di un nemico invisibile, pronto a spuntare in qualunque momento. In una situazione del genere la mente vaga, quanti pensieri avrà fatto quel giovane soldato? Sulla vita che si stava perdendo, su come sarebbe stata una volta tornato, ma poi, sarebbe davvero tornato? Non riesco proprio a non pensare che Stone laggiù, non abbia vagliato tutte le opzioni possibili, anche quelle storiche, per la caduta di tessere in un lungo effetto domino, se lui si trovava impantanato in quella guerra senza senso, la vera ragione doveva essere anche storica, gli eventi del 23 novembre del 1963 erano il colpo dato alla prima tessera. Per un reduce del Vietnam come Stone, l’omicidio di JFK è una faccenda dannatamente seria, ma non solo, anche molto personale.
Una porzione consistente della filmografia di Stone consiste nella sua produzione di documentari, iniziata ufficialmente nel 2003, una continuazione quasi naturale per un regista da sempre votato ad usare la macchina da presa per raccontare la realtà. Da questo punto di vista “JFK”, da noi appesantito dal solito chilometrico sottotitolo italiano, rappresenta proprio questo, in parti uguali una biografia Jim Garrison ma allo stesso tempo l’esposizione di una tesi, portata avanti utilizzando il cinema e va detto, Hollywood al suo meglio, visto che il film si sarà portato a casa “solo” due Oscar (miglior fotografia e miglior montaggio, scusate se è poco) ma è stato uno schiacciasassi al botteghino, capace di portarsi a casa duecento milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti, attirando il pubblico con un cast nutrito, uno di quelli che può permettersi un nome famoso anche nel più piccolo dei ruoli, ma soprattutto un tema caldissimo, una ferita scoperta per il popolo Americano, senza contare il fattore KEV, perché il Costner sposta ancora oggi, figuriamoci nei cuori del pubblico degli anni ’90.
Ed ora perdonatemi se parto per la tangente come la teoria della pallottola zigzagante, ma qui è necessario affrontare una doverosa questione: Stone è sempre stato etichettato in base alla posizione (sempre rigorosamente scomoda, perché la verità lo è) del suo ultimo film, quindi il giudizio su di lui rimbalza tra il “Macho man della sinistra” (ovvero uno sporco Comunista) oppure il rigido conservatore e reduce (insomma, Fascio), come sempre la verità sta nel mezzo, Stone ha sempre criticato chi a suo giudizio si meritava la critica, senza ragionare per logiche di schieramento o di partito, da qui il suo puntare il dito contro Presidenti e amministrazioni in parti uguali Democratiche o Repubblicane, ma di base – e in tal senso Nato il 4 Luglio dovrebbe averlo messo in chiaro – parliamo di un uomo che nei valori sani degli Stati Uniti, ci crederebbe anche, diciamo nel lato Springsteeniano dell’America ecco. Stone s’incazza quando quei valori, che sulla carta sarebbero anche giusti e condivisibili, vengono calpestati. Ecco perché “JFK” è una crociata cinematografica, un grosso “Solo contro il mondo”, la storia di un testardo (come Stone) abbastanza determinato nel suo andare a sollevare tutti i sassi per rivelare le vipere che si nascondono sotto di essi.
Normale che tutto questo sia ammantato, non solo nella bandiera a Stelle e Strisce, ma anche in un’aurea agiografica abbastanza vistosa, perfettamente incarnata nella scelta di affidare il ruolo di un burocrate, controverso e anche pistino, a colui che negli anni ’90 era IL DIVO più rovente del mondo, Kevin Costner. Porto avanti la mia tesi? Lo faccio alla moda di Stone e comincio dai punti deboli del film: ci sono passaggi assolutamente canonici, se non proprio melensi del copione firmato dal regista a quattro mani con Zachary Sklar, basato sul libro dello stesso Garrison “Sulle tracce degli assassini” e su quello di Jim Marrs, ovvero “Fuoco incrociato: Il complotto che ha ucciso Kennedy”.
Il personaggio del KEV che si prende così tanto del suo lavoro da ignorare la famiglia, tanto che la moglie Liz (Sissy Spacek) prima lo molla e poi decide di riprenderselo, proprio quando alla tv assiste all’attentato al fratello di JFK, ovvero la prova della bontà delle teorie del marito. Tutta roba che sarà anche successa davvero, ma che viene trattata in modo molto canonico, non vorrei dire con un tono da Soap Opera ma quasi, da uno Stone che ha veramente un sacco di altra roba da raccontare, in cui è chiaro, gli stava ben più a cuore, perché le notti insonni laggiù nel ‘Nam ad interrogarsi mille volte su come ci fosse finito lì, gli avevano acceso dentro un fuoco che arde chiaramente in ben altri passaggi di “JFK”, a questo proposito, parliamo della “Director’s cut”.
Nei 189 minuti di durata, Stone riesce a raccontare parecchio di una storia bella densa, un complotto con tantissimi nomi e personaggio coinvolti, posso dire che questa versione risulta assolutamente riuscita, l’unico difetto sta nel grado di interesse del pubblico per la vicenda, perché di suo “JFK” è un film eccezionale la cui versione da 206 minuti, la Director’s Cut, aggiunge delle parti ma non stravolge il senso del messaggio, al massimo dedica qualche minuto in più al personaggio del “Cavaliere della tavola rotonda” recalcitrante se non proprio mezzo traditore, impersonato da Michael Rooker, ma soprattutto aggiunge spazio all’infangamento mediatico subito da Garrison, novello Parsifal della situazione. Infatti nella “Director’s Cut” tutta la sua apparizione televisiva, nel Talk Show dove viene trattato come un paranoico che straparla, risulta molto più lunga per ribadire il concetto. Io ve le consiglio entrambe, la prima al momento la trovate su Disney+ la seconda va cercata su qualche copia fisica, dipende da quanto tempo (o interesse) avete per questa storia in cui Stone, si mette ancora una volta il coltello tra i denti e armandosi di macchina da presa, si addentra in un’altra giungla, quella del complotto dietro alla morte del presidente Kennedy.
L’inizio di “JFK” è perfettamente in equilibrio tra documentario e cinema, la cronaca dei fatti è esposta come il discorso di apertura di un processo da parte dell’accusa (e non è un caso che il film trovi il suo apice proprio in un’aula di tribunale) con la discriminante che dentro questo “documentario” spunti il KEV a commentare le reazioni dei suoi concittadini («Dio mi vergogno di essere americano oggi») e tutto sia raccontato con un ritmo e un montaggio impeccabile. Malgrado le tante informazioni da fornire, le descrizioni sulle traiettorie di tiro e i voli pindarici sulle macchinazioni della CIA, dell’esercito e in parte della Mafia, “JFK” non molla mai l’osso, non perfette fisicamente allo spettatore di calare l’attenzione, anzi il senso di minaccia è costante perché è chiara la foga, l’esigenza narrativa che muove Stone, letteralmente un uomo in missione con un conto aperto. Dopo aver raccontato il Vietnam da tutti i punti di vista, gli mancava davvero solo raccontarne l’origine, perché esponendo la sua tesi, l’avvocato dell’accusa Stone, mette in chiaro che se Kennedy non fosse stato ucciso, lui non sarebbe mai diventato un reduce di una guerra che sarebbe finita prima, molto prima.
L’analisi di un titolo come “JFK” potrebbe trasformarsi nell’elenco delle macro sequenze chiave, quelle con cui il personaggio impersonato dal KEV smonta tutte le tesi della commissione Warren, che ammettiamolo, parte già sospetta, non solo perché è sospetto il capro espiatorio selezionato, ovvero Lee Harvey Oswald (perché sì, ad un certo punto della sua carriera Gary Oldman era talmente un assoluto umanoide da aver impersonato anche il grande incubo americano pre 11 settembre, ovvero l’attentatore solitario), a sua volta zittito eternamente da un altro attentatore come Jack Ruby. In una girandola di personaggi apparentemente infinita (tanto che Stone qui riesce nell’impresa di infilare nuovamente nello stesso film Walter Matthau e Jack Lemmon, fateci caso) l’avvocato dell’accusa Oliver Stone, per bocca del suo alter-ego impersonato da Costner, espone tesi, porta prova e soprattutto mette in crisi con la più potente mossa di Judo del mondo: facendo domande.
Ci sono momenti incredibili in “JFK”, ma quello che apprezzo di più è il modo in cui il film riesca a seguire il filo logico della tesi esposta dall’Avvocato dell’accusa Oliver Stone, grazie ad una serie di micro sequenze, ognuna con la stessa importanza della precedente (e con la stessa enfasi) perché una alla volta, sono prove accumulate, verità da scagliare contro il muro di bugie della commissione Warren. Stone nella sua arringa si gioca momenti satirici, come far pronunciare a Wayne Knight la frase «Chiunque può procurarsi un fucile in Texas» e altri drammatici, ma con la testardaggine che ha sempre sfoggiato nel DNA del suo cinema, utilizza i fatti per smontare bufale vendute come realtà, ad esempio l’impossibilità fisica di sparare tre colpi a quella velocità con un residuato bellico come il fucile Carcano, il tutto mentre rimestando sotto ogni sasso, porta alla luce il torbido.
Cercherò di spendere due parole per gli attori, ma sono talmente tanti che potrei scrivere un post su “JFK” solo per tentare di citarli tutti, fin dalla prima visione mi ha colpito, oltre al fatto che Oldman sia riuscito ad impersonare un altro grande cattivo (la scena di come avrebbe fatto le scale a super velocità è quasi tragicomica una volta illustrata da Garrison), soprattutto la prova di Kevin Bacon, carcerato omosessuale pronto a tutto pur di accorciarsi la pena, personaggio tutto tranne che positivo ma mai recitato come un cliché. L’unico che sfiora forse questo pericolo è il Clay Shaw di Tommy Lee Jones, ruolo inedito per il roccioso Texano che però al servizio di Stone, si è sempre lanciato in personaggi anche sopra le righe, lo vedremo nel corso della rubrica. Menzione speciale per Joe Pesci, che da solo riesce a rappresentare la quota Scorsesiana (per altro Maestro di Stone, quindi sensato), con un personaggio che sembra finito qui dopo essere scappato da un film di zio Martino ed essere passato al vaglio della cura Stone per i dialoghi.
Menzione speciale? Facile, Donald Sutherland, che se la gioca di puro carisma in quella che per me, è la scena d’azione del film anche se di fatto, è un dialogo tra due personaggi sullo sfondo dei maggiori monumenti di Washington, ovvero la continuazione diretta degli scontri verbali (dialoghi diretti come combattimenti nell’arena) di Talk Radio, tra tutte le prove raccolte dal protagonista, quella sa di pistola fumante infatti Stone la dirige così, anche perché deve rappresentare l’ultimo slancio di motivazioni per Garrison per dare l’assalto finale al muro di menzogne, ecco, ed ora parliamo del KEV, doveroso.
La scelta di Kevin Costner, e per di più del Kevin Costner DIVO degli anni ’90 è una manifesto programmatico per Stone, il vero Jim Garrison sarà anche stato controverso, il suo invece è un monolite di puri sentimenti americani, il primo e più fedele dei cavalieri della tavola rotonda della Camelot messa su da Kennedy, un eroe che è puro cinema (quindi finzione) e che per questo, poteva essere incarnato così bene solo da Costner, lanciato a bomba contro l’ingiustizia e il muro di bugie che per Stone hanno minato alle fondamenta i valori dell’America che lui ritiene migliore, quella giusta, quella come l’ho definita lassù Sprinsgteeniana. Trovo altamente simbolico che usando la sua versione puramente cinematografica di Garrison, Stone utilizzi come arma principale per opporre i fatti (o la pura e semplice fisica, come la spiegazione sulla traiettoria dello sparo… «All’anima della pallottola») alle bugie proprio un film, il celebre film di Zapruder, che ha messo su pellicola il momento esatto del colpo fatale, sottolineato da Stone e dal KEV con un passaggio che non si dimentica: «Indietro e a sinistra. Indietro e a sinistra»
La prova di Costner è come al solito incredibile, un attore da lanciare in faccia ai predicatori della fantomatica “espressività” a tutti i costi (qualunque cosa voglia dire), per lui “JFK” rappresenta l’altra faccia del clamoroso dittico “Costner in completo da uomo salva l’America” che guarda caso, va sotto braccio con un film di De Palma, poi chiedetevi perché nella mia testa Oliver e Brian hanno il posto a sedere uno accanto all’altro eh?
Resta il fatto che quel monologo finale, esattamente come Talk Radio, resta uno dei più belli e allo stesso tempo mai citati della storia del cinema, tra riferimenti a Cesare e quel finale («Non dimenticate il vostro Re morente») Costner non cambia mai espressione o livello di motivazione cambia solo il tono di voce rotta dalla commozione mentre si spreme una singola lacrima maschia, in equilibrio perfetto tra documentario e finzione cinematografica, tra cinema e voglia di raccontare la verità, il film termina con la famiglia Garrison che “cavalca” verso l’orizzonte con un gruppo di pistoleri del passato, di fatto per la Storia con la maiuscola hanno perso, ma è la verità che li rende vincitori.
Un passaggio che mi fa impazzire è quando Garrison sostiene di ripetere al figlio di tenersi in buona forma, per l’anno 2038, quando i documenti verranno desegretati. In questo cortocircuito di cinema e realtà al servizio della verità messo su da Stone, “JFK – Un caso ancora aperto” ha contribuito a beh, riaprire il caso o per lo meno, a riportarlo all’attenzione e per farvi capire di quanto per Stone, l’omicidio Kennedy sia una faccenda del tutto personale, nel 2021 il regista è tornato sul luogo del delitto con il suo documentario “JFK Revisited: Through the Looking Glass” che mi sono visto in coda al film per poter scrivere in maniera completa questo post. Il fatto che abbia poi passato una settimana a pensare a traiettore di pallottole era un piccolo prezzo da pagare per chi vuole pilotare la Bara (storia vera).
Il documentario riporta la stessa tesi ma questa volta, per bocca di testimoni, esperti forensi, studiosi e persone coinvolte, quindi non attrici e attori, ma alla fine, ribadisce tutti i punti salienti già descritti nel film, alla luce però dei documenti desegretati, il bello è che riesce ad essere un grosso «Ve lo avevo deeeeeeto!» da parte di Stone, senza entrare proprio in modalità Nelson Muntz, ma restando professionale.
Dopo aver raccontato il Vietnam dal punto di vista dei soldati e con “JFK” anche da quello della Storia con la “S” maiuscola, cosa restava ancora ad Oliver Stone? Poteva finalmente dirsi pacificato? Mai nella vita! A questo punto mancava davvero solo un punto di vista su quella guerra maledetta, quello di coloro che come occidentali ci hanno insegnato essere i cattivi, che poi, erano cattivi per davvero? Ma di questo parleremo qui sulla Bara, tra sette giorni, non mancate.
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