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Jimmy Bobo – Bullet to the Head (2012): Greatest Hill

Prima o poi la fine arriva per tutti e anche se sul serio
mi dispiace un casino, devo darvi il benvenuto all’ultimo capitolo della
rubrica… King of the hill!

La produzione di un film a volte può essere un labirinto,
quella di questo, in particolare, ha qualcosa di beffardo, perché
Walter Hill è sempre stato appassionato di hardboiled anche a fumetti, tanto
che ne ha scritto anche qualcuno, chissà se conosceva anche “Du plomb dans la
tête” (2008) del fumettista e scrittore francese Alexis Nolent, una graphic
novel
un fumetto adattato in una sceneggiatura da Alessandro Camon (quello
di “Oltre le regole – The Messenger” 2009) e finita poi nella mani di uno di cui potreste aver sentire parlare, un tale di nome Sylvester Stallone.

Nel pieno del suo ritorno sulla cresta dell’onda grazie ai
primi due film della serie “I Mercenari”, il nostro Sly si mette al lavoro su
questo “Bullet to the Head”, scelta bizzarra perché in tutta onestà ricorda
quei film della fase dimenticata della carriera di Stallone, diciamo che è tipo
un “La vendetta di Carter” (2000), ma con meno livore, giusto per citare un film
che avremmo visto circa in ventiquattro, ma tenetemi l’icona aperta sui film
dimenticati di Sly, più avanti ci torniamo.

“Ti conviene riempirti il bicchiere, quando Cassidy attacca a raccontare di solito si fa serata”

I problemi iniziano quando Stallone che, come ben sapete, è
anche regista e sceneggiatore, arriva ai ferri corti con Wayne Kramer – regista
sudafricano del buon “Running” (2006) – per quello che pare, fosse un dissidio
sul tono da dare al film, sta di fatto che Kramer prende la via della porta senza
nemmeno passare dal via ritirando le venti mila lire e Stallone si ritrova
senza un regista. Ma qui la trama si fa più nebulosa.

Sì, perché il co-protagonista del film, avrebbe dovuto essere
l’ex Punitore Thomas Jane, un po’
ovunque si legge del fatto che a suggerire il nome di Walter Hill sia stato lui.
Strano, perché successivamente, durante la promozione del film, Stallone si è
prodigato in affermazioni tutte a favore del nostro Gualtiero. Ma ricordatevi
una delle leggi non scritte di Hollywood: MAI fidarsi di quello che dicono gli
attori quando hanno un nuovo film da promuovere e qui mi sembra il classico
caso del capo che intercetta una buona idea di un sottoposto e poi se ne esce
con: «Ho avuto un’idea, chiamiamo Walter Hill!».

“Cosa hai detto Thomas? Chi ha avuto l’idea? Aaah mi sembrava di aver capito male”

Sta di fatto che il braccio armato di Sly, il produttore esecutivo
Joel Silver, è quello che la storia ricorderà come colui che ha dato il ben
servito a Tom Jane, in favore di Sung Kang, ufficialmente per rendere più
multietnica la coppia di protagonista. Anche qui, secondo me, era per avere
un nome in locandina da giocarsi sui mercati orientali, ma si sa che io sono
mal pensante, quindi non datemi troppo retta, piuttosto date retta a Hill che
da vecchia volpe che ne ha viste tante, ha di fatto confermato dalle pagine del
Los Angeles Times.

Walter Hill non dirigeva più un film da Undisputed e, come abbiamo visto, era relegato a spargere gemme qua
e là sul piccolo schermo. Ma
improvvisamente si ritrova a dirigere uno dei più grandi eroe dell’azione di
sempre, facciamo un breve riassunto di una carriera incredibile? Charlie, Nick, Arnold, Bruce e
alla collezione metteteci anche Sylvester Stallone, forse un po’ fuori tempo
massimo per entrambi, ma intanto mettere a referto.

“Ma hai visto che razza di filmografia ha questo Walter Hill? Cioè solo film fighi!”

Anche Walter Hill e Sly capiscono che forse si sono
incontrati un po’ troppo tardi, ma sembrano chiari su un punto: questo film va
girato come omaggio ai film d’azione degli anni ’70 e ’80. In questo bisogna
dire che hanno centrato in pieno l’obbiettivo, ma bisogna essere onesti: questo
resta essenzialmente un film di Sylvester Stallone che è stato salvato dal
disastro e dal limbo produttivo, solo perché Walter Hill come la cavalleria, è
arrivato cavalcando in piedi sulle staffe della sua sella.

Ci sono tante belle cosine “alla Walter Hill” in questo film
di Walter Hill, in questo Tom Jane Sly ci aveva visto giusto, ma oltre
la superficie non si va, vi tedierò con dovizia di dettagli da qui fino
alla fine del post (e purtroppo della rubrica), ma questo film è un “Greatest hits” dei migliori momenti del cinema del nostro Gualtiero, potremmo quasi chiamarlo
un “Greatest Hill” che, poi, è anche la definizione migliore che potremmo dare del
regista e del suo cinema.

“A quel punto lo guardi e gli dici: Io ti spiezzo in due”, “Walter
quella era la fra…”, “Ho detto: Io ti spiezzo in due!”

“Bullet to the Head” ad una prima occhiata sembrerebbe un “Buddy
movie”, genere che è stato codificato da Walter Hill con il suo monumentale 48 Ore, ma per sua stessa ammissione
Gualtiero è arrivato a definirlo un “Anti-Buddy movie”, perché sì, i due
protagonisti sono agli antipodi e si ritrovano a collaborare, ma tra di loro
non nasce un mutuo rispetto, un rapporto di amicizia virile, fino alla fine i
due si sopportano poco e quando tutto termina, ognuno per la sua strada.
Inoltre, come, anzi, molto più che per “Danko”, la coppia è sbilanciata in favore
di uno dei due componenti, Sung Kang fa tutto giusto, ma non ha certo il carisma
necessario per competere e non fa che coprire il ruolo di spalla di
Stallone che si mangia tutte le scene.

A voler proprio essere pignoli, è un po’ la metafora del
film, nella strana coppia composta da Hill e Sly, il film pende tutto dal lato
di Stallone e mi sembra evidente dal risultato finale che Gualtiero non abbia
rimesso le mani alla sceneggiatura del film, ma se per questo nemmeno Sly – che
pur in vita sua, due cosette di un certo livello, le avrebbe anche scritte – altrimenti certi passaggi molto
frettolosi della storia non ci sarebbero stati, forse entrambi si sono limitati
ad eseguire i compiti per cui sono famosi: uno dirigere e l’altro far il divo
del film.

Il gioco è quello di indovinare tutti i film da cui sono prese le foto segnaletiche.

Poteva finire tutto così? Poteva non esserci una nota di (tri)colore
da aggiungere? Eh no! In questo strambo Paese a forma di scarpa non ci facciamo
scappare niente e qualche genio (non trovo parole più adatte) della nostra distribuzione,
ha pensato bene che un film con Stallone, dev’essere pubblicizzato come
merita, cioè stiamo parlando di ROCKY, di RAMBO, gli Italiani vanno al cinema a
vedere i suoi film solo se s’intitolano come il nome del protagonista che interpreta.
Cos’è sto “Bullet to the Head”? Un film di John Woo? Un pezzo dei Rage against
the machine? Dài, non scherziamo, questo film va intitolato come il protagonista!

Ed ecco come mai, solo qui da noi, solo in uno strambo Paese
a forma di scarpa questo film s’intitola JIMMY BOBO (storia vera). Perseverando
diabolicamente lungo una strategia disastrosa, per dare una parvenza di
democrazia, la casa di distribuzione Italiota ha pensato bene di mettere online
un sondaggio, per permettere al pubblico di scegliere il titolo del film. Oh
bravi! Hanno capito che era una cazzata, dài sentiamo queste tre opzioni: la
prima “Jimmy Bobo”. La seconda, “Le regole di Jimmy Bobo” e la terza ”Il codice
di Jimmy Bobo”, non ci credete? Controllate i risultati. Se volete approfondire invece vi consiglio il post di Doppiaggi Italioti sul tema.


“Che problemi avevate con Bullet to the Head? Doveva proprio rovinarlo per forza?”

L’unica spiegazione che mi sono dato, è che il genio che ha
partorito questa ideona, sia stato lasciato dalla ex fidanzata in favore di uno
che assomigliava a Sylvester Stallone e quando ha avuto l’occasione ha voluto
vendicarsi. Oppure ha voluto rendere omaggio ad una pubblicità del 2002 in cui
compariva proprio Sly, magari la ricordate, peccato che lo sveglione forse troppo
impegnato a ridere per il nome “Bubi”, si sia dimenticato la frase che seguiva
e che resta applicabile anche al titolo italiano di questo film: per essere
credibili il nome è importante.

Nel film Sylvester Stallone interpreta un italo-americano
con un sacco di trascorsi tra la marina militare e le patrie galere di nome
James Bonomo (no, non come la scimmia), detto Jimmy Bobo più o meno per lo
stesso motivo per cui le persone contraggono il vostro nome quando vi chiamano,
comodità e poi, se va bene, nel corso del film lo chiameranno così due volte per
puzza, in compenso, i colpi che piazza in mezzo alla fronte dei suoi nemici,
sono molti di più, quindi era proprio necessario dare rilevanza al nome?
Ma forse l’autore della mirabile scelta, voleva concedermi
la possibilità di chiudere l’icona che ho lasciata aperta lassù, “Jimmy Bobo –
Bullet to the Head” è talmente un omaggio alla carriera di Stallone che cita
anche i suoi film meno famosi, forse il più famigerato di tutti, mi riferisco a
“Oscar – Un fidanzato per due figlie” (1991), film che ho visto centinaia di
volte da bambino, anche perché era diretto dal mio amico John Landis.
In quel film, il personaggio di Stallone diceva di aver
lavorato alle dipendenze di uno chiamato “Jumpin’ Jimmy” Bonomo e, a
ben guardare, anche lì era presente un sicario con un ruolo nelle vicende della
trama e il personaggio di Sly, aveva una figlia di nome Lisa che nel film di
Landis era Marisa Tomei, mentre qui la tatuatrice Sarah Shahi.

La tatuatrice carina, con i tatuaggi brutti.

“Jimmy Bobo – Bullet to the Head” inizia con un blues
tosto e cazzuto composto da Steve Mazzaro, si parte con una scena in bianco e
nero e con il titolo del film (quello vero) che compare su una gigantesca
scritta composta dalle amate luci al neon di Walter Hill, bastano i primi
secondi per mettere in chiaro che questa pellicola è un Greatest hits Hill
del cinema di Gualtiero.

Jimmy Bobo fa da voce narrante alla storia come il
protagonista di Ancora vivo, ha un
compare con cui lavora come sicario eliminando bastardi come il galantuomo
della prima scena («Non ti piace il tuo lavoro cazzone?», «In questo momento lo
adoro» BANG! BANG!) peccato che il suo socio venga fatto fuori malamente in un
bar da un sicario, un armadio del modello Jason Momoa, non credo sia in vendita
all’Ikea, altrimenti andrebbe a ruba presso le signore.

Conosco tipo mille donne che rapite da Momoa, non vorrebbero essere salvate da nessuno.

A Bobo la cosa non va giù e vuole fare di tutto per beccare
Momoa e vendicare l’amico, tangenzialmente Momoa lavora per l’Adebisi di Oz (Adewale Akinnuoye-Agbaje, salute!) e
un Christian Slater che recita parecchio sopra le righe, due ricconi impegnati
in un piano di gentrificazione loschissimo, su cui indaga anche lo sbirro Taylor
Kwon (Sung Kang) che si allea con Bobo seguendo l’antico adagio: “Il nemico del
mio nemico è mio amico”. Forse, una roba così.



Tutta questa sfilza di nomi serve solo a dare un’idea di
spessore ad una trama che, invece, è piuttosto lineare e che potremmo
riassumere così: Bobo vs. Momo, il resto attorno è grasso che cola e momenti
alla Walter Hill senza tirar via la mano.

Chichichi Bo Bo Bobo Curucuru curucurucu Momoà (Quasi-Cit.)

“Bullet to the Head” è tutto tranne che un brutto film, è
facilone, per me tutta la questione “trama” si risolve nella scena della festa –
un momento alla “Eyes wide shut” (1999) in misura molto minore – in cui un
convintissimo Christian Slater non confesserà mai dove si nascondono i suoi
complici e dopo un solo comodo sganassone di Bobo Sly, viene colto da un caso
grave di “Lalalismo” ovvero la propensione dei personaggi a cantarsela (facendo
appunto La-la! La-la! La-La! La-La!) ad una velocità di favella paragonabile a
quella del rapper più capace.

“La-la! La-la!”, “No Bobo. Mi chiamo Bobo, sempre di monosillabi si tratta”

Con la stessa fretta viene anche eliminato Adewale Akinnuoye-Agbaje (Salute!) e la sua USB piena di dati sensibili dalla trama, Momoa lo uccide e lascia campo libero al finale, perché tanto questo vogliamo vedere: Bobo la vecchia gloria del cinema d’azione, contro Momo, il preferito delle signore che nel 2012 non era riuscito a sfondare con il remake di Conan (in cui lui era giusto, ma tutto il film era sbagliato) e qui toccava arrangiarsi ad interpretare la parte del nuovo che avanza. Forse, altrimenti lo rimettiamo in frigo, se uno di quelli per la conservazione dei cadaveri meglio.

“Bullet to the Head” è ambientato a New Orleans e usa la
voce narrante del protagonista (come Johnny il bello), è un “Boddy movie” poliziesco più sbilanciato verso l’attore
famoso che compone la coppia e ha anche una scena in una specie di sauna (come Danko) e si ricorda più che altro per il
finale, dove Bobo e Momo si scontrano in una fabbrica abbandonata (come I Trasgressori) usando delle asce da
pompieri (come Strade di fuoco) e
per 91 minuti spaccati regala scambi di battute anche spassose («Mi piace il tuo
spirito di sacrificio da samurai», «I Samurai sono Giapponesi io sono Coreano»),
momenti di puro carisma di Stallone (il gesto pugno-pollice-mano «Bang, down, owned»
è mitico), alcune sbirciate di donne nude dove possibile (come in tutti i film
di Hill), parolacce e violenza senza tirar via la mano (come in tutti i film di
Hill) e scene dirette alla grande, tipo l’esplosione del molo davanti a casa di
Bobo, lo scontro nel bagno oppure il duello con le asce (anche qui, come in
tutti i film di Hill).

Sly Stallone, classe 1946. Ci rimanda tutti in palestra (vergognandoci)

L’unico difetto di un film così è l’aspettativa, perché da
Walter Hill e Sylvester Stallone, insieme nello stesso film, ti aspetti
qualcosa che sia come minimo la Bibbia del film d’azione occidentale, in
realtà, come tutti i film di Hill non ha incassato niente e se Stallone si fosse
impegnato un po’ di più (perché quando vuole e la storia lo richiede, è un attore più emotivo di come lo vediamo qui) forse sarebbe stato ricordato meglio, di
sicuro non si merita la valanga di pernacchie che spesso lo anticipano, quelle
riservatele tutte al genio che ha deciso di dargli questo titolo cretino in uno
strambo Paese a forma di scarpa.

Perché “Bullet to the Head” sarà anche più sbilanciato verso
Stallone, ma è Walter Hill quello a farci una figura migliore, perché risulta
essere un film vecchia scuola, più guidato dal carisma che da una trama solida,
che strizza l’occhio a tutto il cinema giusto, quello i cui canoni sono stati
tracciati proprio da Walter Hill.

Come si fanno la manicure i duri.

Perché il nostro Gualtiero è davvero uno che quando è venuto
giù in ciabatte a dare uno strappo a Stallone e a salvargli dal disastro un
film, porta a casa un titolo orgogliosamente di genere con tutte le suo cosine
al suo posto e che di davvero risibile ha solo il titolo. Mentre quando ha
potuto lavorare, ha scritto pagine intere della storia del cinema, senza mai
portare a casa il successo al botteghino e il credito presso critici e
pubblico che si dovrebbe ad un grande uomo di cinema come lui.

Alla fine essere il re della collina vuol dire questo, una
condizione ingrata in cui hai tutti gli occhi addosso, se sbagli qualcosa tutto
ha l’eco di una tragedia e la tua condizione è invidiata, difficile da
difendere e ancora di più, da mantenere a lungo. Eppure, non tutti possono
essere il re della collina, ci vuole il talento, le spalle larghe per
sopportare le critiche e la statura artistica per sostenere la corona, un
giorno tutti saliranno sul carro del vincitore, ma ricordatevi che qui alla
Bara Volante ci siamo già schierati: Hail to the king (of the hill)!
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