Ricordiamoceli questi anni. Sono quelli in cui un nome di primo piano di Hollywood, come quello dell’amatissimo Keanu Reeves, ha fatto della sua passione per i film di menare un traino per tutta l’industria, tanto che ora sono gli altri divi a correre per accaparrarsi un ruolo d’azione, pur non avendone i trascorsi o tante volte nemmeno la preparazione, ma solo il carisma e le ore di allenamento.
Ricordiamoceli questi anni, perché senza reinventare la ruota, ma semplicemente riproponendo la grande tradizione dei film di arti marziali, Chad Stahelski ha messo in chiaro quando l’amore per il cinema d’azione fosse un fuoco che ardeva sotto la polvere delle videoteche, quelle dove reperire titoli che per decenni sono stati schifata, soprattutto da quei cinefili con la puzzetta sotto il naso, che oggi visibilmente rosicano e odiano anche solo l’idea che esistano quattro film di John Wick, siete liberi di godervi i vostri film di Özpetek ve li lascio più che volentieri, anche perché come i Goonies nel pozzo, questo è il nostro momento, quindi godiamoci e ricordiamoli questi anni.
Quello che i fanatici di Margherita Buy non hanno capito – perché erano troppo impegnati ad odiare – sta nella natura totalmente e volutamente fittizia di questa saga, che si è aperta con un titolo piccolo, una vendetta personale per la morte di un simbolico cagnolino, alternativa al classico Maestro ucciso da vendicare di tanti film di arti marziali, solo raccontato con protagonista il più improbabile “uomo nero”, Baba Yaga, excommunicado, l’uomo che assoldi quando vuoi uccidere il diavolo, tanta enfasi, quasi al limite della parodia, per poi trovarsi davanti chi? Un ciocco di legno come il buon Keanu, tutto cuore e lentezza, giunture inflessibili per kata ripetuti all’infinito prima in palestra e poi davanti alla macchina da presa. Un giochino divertente realizzato con manifesto amore e cura per il cinema d’azione, cresciuto nel corso dei capitoli, creando un’iconografia di personaggi da cartone animato violento, un mondo che per chi guarda solo i film di Özpetek è impensabile, visto che qui sono tutti super assassini, persino i loro cani, un universo creato non con poche difficoltà, infatti il secondo John Wick dedicava fin troppo tempo a questo dettaglio che comunque i detrattori hanno continuato ad ignorare.
Il terzo capitolo, seppur ancora con qualche lungaggine, trovava finalmente l’equilibrio in una saga che sembrava già pronta per la serialità, non è un caso se da una costola di questa saga, siano già in rampa di lancio due spin-off (“Ballerina” e la serie tv “Continental”) che mi sembrano lascito e ideale continuazione della saga, visto che anche “John Wick 4” è esageratamente lungo con i suoi 169 minuti, molti dei quali, specialmente i dialoghi, sembrano già pronti per il formato della serie televisiva mentre tutti gli altri, per fortuna in maggioranza, sono la celebrazione, un modo per ripeterci ancora una volta di ricordarli questi anni, un “Last Hurrah” come direbbero i nostri cugini Yankee.
Questo quarto capitolo abbraccia la serietà sì, ma quella comunque di un cartone animato violento, pieno di abiti di alta sartoria maschile anti-proiettile, per una storia che punta all’epica come in un pezzo Power Metal, infatti più che il testo della canzone conta la tecnica nell’esecuzione, siamo qui per celebrare un requiem, se non proprio un funerale Vichingo, per restare in tema metallaro. D’altra parte l’action americano contemporaneo è bulimico, “John Wick 4” non è qui per invertire la tendenza ma al massimo per celebrarla, il difetto vero? Risulta un mezzo passo indietro rispetto a Parabellum, perché ci si ostina a spiegare ancora dettagli legati al mondo di John Wick, al quarto capitolo non servirebbe davvero più, quindi per questo il ritmo procede a strappi e si sente, per lo meno nei momenti in cui non ci si mena, quelli in minoranza, va detto.
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When ashes fall the legends rise (cit.) |
“John Wick: Chapter 4” con un occhio rivolto a quella serialità da fumetto alla quale lo stesso Keanu Reeves si ispira apertamente, riparte dal finale di “Parabellum”, gli autori della sceneggiatura sono gli stessi, Michael Finch e Shay Hatten hanno di nuovo il compito di mettere in fila una serie di MacGuffin che funzionano come innesco per le sequenze d’azione: le storie tra Wick e la Gran Tavola sono tesissime, l’assassino che si esprime a colpi di «Yeah» è deciso a restituire la cortesia, ma anche i capi della malavita non se la passano benissimo, tanto da essere costretti a rivolgersi al Marchese de Gramont per provare a chiudere i conti con Wick, quindi per fare fuori l’uomo nero, chiamano l’altro incubo vivente noto come Pennywise, ovvero Bill Skarsgård senza trucco.
Prima dell’azione bisogna fare buon riscaldamento, questo quarto capitolo ha tutto il tempo che vuole a disposizione quindi abbiamo una scena nel deserto e poi si torna a New York, anche soltanto per ritrovare Winston (Ian McShane), Harbinger (Clancy Brown) ma soprattutto per un ultimo saluto al mitico Charon, in alto i calici per Lance Reddick, che ci ha lasciati troppo presto pochi giorni fa, si merita questo e altro.
Shimazu (Hiroyuki Sanada) e Akira (Rina Sawayama) ormai stanno a questa saga come la fotografia composta al 110% di luci al neon, se già per il cinema americano i neon sono sinonimo di ambientazione giapponese, “John Wick 4” non è qui per cambiare le regole, ma al massimo per stilizzarle ancora
di più rappresentando l’apice di questo momento cinematografico da conservare nella
memoria, perché un giorno lo rimpiangeremo.
Con la porzione di film ambientata ad Osaka arriva, oltre ad uno dei momenti migliori non del film, ma dell’intera saga in termini di scene d’azione, abbiamo anche l’entrata in scena di Donnie Yen, che come in tutte le sue sortite americane, ruba la scena anche in ruoli da comprimario. Qui dietro gli occhiali da sole di un personaggio che è doppiamente canonico, visto sembra riprendere lo Zatōichi di “Rogue One” perché lo ribadisco, “John Wick” non è invenzione ma celebrazione di una tradizione che è gloriosa, anche se fa storcere il naso agli appassionati di Özpetek.
Va detto che qualcosa bisognava fare per portare in scena il personaggio di Caine, il classico nemico/amico del protagonista, suo speculare prima avversario e poi alleato come nella tradizione (anche qui) dell’Heroic bloodshed. Già di suo il Maestro Donnie Yen è spudoratamente più preparato di Keanu Reeves, trasformarlo in una “Furia Cieca” in un Daredevil Donnie era l’unico modo per costringerlo ad abbassare il suo numero di giri per concedere a Reeves di passare comunque per un dilettante a suo confronto. Anche perché parliamoci chiaro, non esiste al mondo qualcuno che sappia comunicare con il corpo, come un ballerino del menare come fa Donnie Yen, se soltanto i fanatici di Margherita Buy, più ciechi di Caine quando si parla di uscire dal loro praticello, potessero vedere Donnie Yen come lo vediamo noi appassionati, capirebbero cosa vuol dire poesia in movimento.
La lunga sequenza ad Osaka è uno spettacolo, Chad Stahelski sforna una varietà di coreografie di combattimento da perderci la testa, le costruisce attorno ai personaggi, al loro stile di lotta e alla loro arma, poi incastra le scene una dentro l’altra, anche se è chiaro che la lunga sequenza si compone di più momenti, sembra una tirata unica, che inizia con Wick solo, pistola e Nunchaku, contro una serie di sgherri pronti ad essere battuti come tappeti, per arrivare al primo di tanti scontri con il Caine di Donnie Yen, che tiene alta la bandiera, anche di quelli come me che gli occhiali da sole non se li toglierebbero mai.
Se non vi bastasse il Maestro Yen, la rissa reale ad Osaka, che termina nel modo più canonico possibile (i colpi di scena sono pochi, efficaci ma diluiti nell’abbondante minutaggio, quindi non vi rivelerò nulla) sia uno dei momenti più alti ed esaltanti di questa saga. L’unica colpa che posso fare a Chad Stahelski e di avermi illuso, perché dopo questa lunghissima tirata, quando ho visto il protagonista riprendere fiato in metropolitana, ho sperato fortissimo che “John Wick 4” si iscrivesse alla lista dei film che alimentano la mia teoria per cui, tutti si meritano una bella scena in metro, purtroppo qui è solo un dialogo, ma me lo faccio bastare perché più avanti Stahelski si è abbondantemente fatto perdonare per avermi illuso.
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Lucius dai lezioni tu a Reeves, che di usare un Nunchaku proprio non è capace! |
Sempre per il principio per cui questa saga, pesca e omaggia chi il cinema “di menare” lo ha reso grande e molto amato senza raccogliere un grammo dei frutti portati dalla visibilità di cui gode Keanu Reeves, nel lungo (lunghissimo!) secondo atto del film, una delle porzioni migliori vede come protagonista il Killa di Scott Adkins e anche qui, conciarlo come il Ciccio Bastardo di “Austin Power” non è un tentativo di candidarlo all’Oscar sulla scia del successo di Fraser, quando un modo per rallentarlo, perché Scott potrebbe usare Keanu per spazzare il pavimento, tenendo una mano dietro la schiena. Se poi ci mettiamo dentro il fatto che Adkins ha sempre voglia di far vedere di saper anche recitare oltre che menare, il suo Killa è minaccia ma anche alleggerimento comico, una sorta di Yuri Boyka ritirato e appesantito, come accade a molti sportivi in pensione.
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Most complete fighter Ciccio Bastardo in the world (pur di stare ad Hollywood Scott è pronto a tutto) |
Bisogna superare il lungo (lunghissimo!) “bla bla bla” di metà film, reso dinamico proprio dalla presenza ghignate di Killa, per arrivare sulle note di una cover di Back in black, ad un’altra scena spaccatutto ambientata di notte, in mezzo agli Champs Elysées a Parigi, anche questa composta da due macro sequenze. Prima una in auto, dove Wick usa la Mustang come se fosse il cavallo da cui prende il nome, con tanto di armi raccolte al volo da terra come un pistolero motorizzato, per arrivare alla rissa nel traffico, con le auto usate come sponda o contro cui lanciare addosso sgherri come l’enorme Marko Zaror, che io ve lo dico, rappresenta la cartina al tornasole umanoide per capire se chi sta scrivendo il proprio parere su “John Wick 4” i film di menare li guarda davvero, oppure è salito sul carro del vincitore, se nel pezzo nessuno cita Zaror, l’autore fa parte della seconda categoria (storia vera).
Ho parlato di canone, di celebrazione del genere, quindi la conferma di quanto il cuore di Chad Stahelski stia dal lato giusto, per me è arrivata nel momento esatto in cui tutti i pezzi sulla scacchiera si allineano e la “storia” porta in scena la caccia all’uomo e la gara, per raggiungere un luogo di preciso di Parigi, che il regista decide di raccontare nel modo migliore possibile, ovvero suonando la serenata a Walter Hill. Se non vi bastasse il primissimo piano sulle labbra della DJ della notte di colore, che parla ai “guerrieri”, direi che l’utilizzo di Nowhere To Run metta definitivamente in chiaro come Stahelski si sia inchinato alla corte del Re della collina.
Anche la scalinata da scalare, in salita menando e non in discesa ballando come Joker, mette in chiaro quanto “John Wick 4” sia celebrazione ed esaltazione dei classici del genere per un film lungo, pieno di momenti esaltanti e che ti trasforma idealmente nel personaggio di Keanu, perché al finale si arriva sfatti ma gasati. Non è un caso se proprio Zaror, uno dei tanti “Boss” di fine livello, rispedisca Wick giù dalla scalinata due volte, l’unico artista marziale a non essere stato appesantito da cecità o maniglie dell’amore di gomma, quindi anche quello che mette più in difficoltà il protagonista, tanto che per superarlo sempre come impone il canone del genere, bisogna allearsi con il nemico/amico Caine, in quella che è un’altra scena madre di un film in cui non mancano.
Ora, io non vorrei sembrare esagerato, ma vi prego fatemi sapere la vostra quando avrete visto il film, ma Chad Stahelski che ci dice la sua, ispirandosi in qualche modo a “Barry Lyndon” (1975) mi è proprio piaciuto, non solo perché è una trovata volutamente fuori moda, perfetta per questo mondo pieno di assassini regolati solo da antichi rituali, ma perché offre a tutto il film quell’atmosfera da requiem che è perfetta non solo per l’arco narrativo di un personaggio come John Wick, ma anche per questo ultimo “Hurrah” che svolge alla perfezione il suo compito, ovvero quello di farci celebrare al meglio un momento cinematografico da conservare nella nostra memoria collettiva come un bel ricordo.
Il cinema di menare è sco parso come le videoteche, se ne trova traccia nelle bancarelle dei mercatini e vive solo nei cuori (in fiamme) di chi lo ha amato per davvero, prima di lasciare che questa saga continui nel modo per lei più naturale possibile, ovvero tra gli spin-off e sul piccolo schermo, ricordatevi quello che i fanatici di Özpetek non capiranno mai: il cinema di menare ha vinto, siamo qui per celebrarne il requiem, lunga vita al cinema di menare!