Vi ricordate di Taika Waititi? Quello che tanti di voi odiano per aver diretto Ragnarok, ma che dovreste amare per aver diretto uno dei più geniali film sui Vampiri e… Beh, anche per l’unico film su Thor che ha davvero qualcosa da dire (tiè!).
“Jojo Rabbit”, molto liberamente ispirato al romanzo “Il cielo in gabbia” (2004) di Christine Leunens, era un progetto nella testa dell’attore e regista neozelandese da ben prima di What we do in the shadows, ma per portare al cinema una storia così era necessaria una certa affermazione e la libertà creativa che solo il successo di un parco a tema film della Marvel può darti, perché con buona pace di zio Martino Scorsese, Waititi è uno dei pochi che, fino a questo momento, è riuscito a fare il suo cinema, anche lavorando per i tizi della grande “M” rossa.
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Waititi ha il suo modo di rispondere alle polemiche (lo tiene a portata di mano) |
Il problema, non di questo film, purtroppo, ma di tutti quanti noi, è che viviamo in tempi veramente bizzarri, dove sembra che qualcuno (anche parecchio altolocato) possa permettersi di inneggiare impunito all’odio verso il “diverso” e invece di essere preso a pernacchie e sputi, trova anche un grande riscontro di pubblico. Assurdo, perché l’altra faccia della medaglia è una società in cui ogni gesto, affermazione e comportamento social(e) viene messo alla berlina dai difensori della morale, dei diritti, delle minoranze e soprattutto dei bambini: un campo minato pieno di nostalgici del ventennio da una parte e signore Lovejoy dall’altra.
In questa polveriera di “…ismi” Taika Waititi entra a gamba tesa con un film che si presenta come una satira sul Nazismo, in cui per non farsi mancare proprio niente, il regista ci mette proprio la faccia, interpretando l’amico immaginario del protagonista Johannes “Jojo” Betzler, un tale di nome Adolf Hitler. Boom! Polemica assicurata! Perché tanto ormai se un film non genera qualche polemica in rete, non viene nemmeno preso in considerazione per la distribuzione. Vi ho già parlato dei tempi bizzarri, vero?
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«Ognuno ha l’amico immaginario che si merita», «A me proprio il Babau doveva toccare?» |
Mi ero già espresso sulla questione, ma ci torno perché il caso lo richiede: trovo ammirevole la capacità di quei pochi che possono permettersi di utilizzare la più alta forma di verità (l’ironia) per parlare di tutto, anche dei temi più caldi e, invece di beccarsi gli insulti, riescono a portare a casa risate e approvazione, a patto, ovviamente, di usare questo potere con tutta la responsabilità che da esso deriva. Ad oggi riconosco questa capacità in serie come Big Mouth, nei lavori di Leo Ortolani, nei discorsi ai Golden Globes di Ricky Gervais e… Beh, da oggi anche in Taika Waititi che con “Jojo Rabbit” firma un film bello e quanto mai al passo con i tempi, quelli bizzarri di cui sopra.
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Però io “Il monello” di Charlie Chaplin lo ricordavo leggermente diverso. |
Parliamoci chiaro: “Jojo Rabbit” ha un inizio micidiale, super satirico che sembra strizzare l’occhio al cinema di Wes Anderson (anche per la trovata visiva delle “farfalle nello stomaco), poi abbraccia un registro molto più canonico e classico di quanto la sua premessa lascerebbe intendere. A volte si incarta un po’ nel ritmo, ma Taika Waititi trova sempre il modo, grazie ad una battuta fulminante (ma che ridere fa la gag sui cloni?), oppure ad un momento toccante e non melenso, di far funzionare un film che viene voglia di consigliare a tutti e che risulta memorabile, perché mai come ora la memoria è fondamentale.
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«Lo vedi quel signore laggiù? Si chiama Roberto Benigni, dicevano lo stesso di lui nel 1997» |
Ormai ripeto le cose allo sfinimento stile nonno Simpson, ma perché sono vecchio convinto che i primi cinque minuti di un film siano fondamentali, quelli di “Jojo Rabbit” sono al fulmicotone. Ognuno ha l’amico immaginario che si sceglie, Jesse Custer aveva il Duca, Woody Allen aveva “Bogie” e il piccolo Jojo (un bravissimo Roman Griffin Davis, perché recita naturale come un bambino e non come uno strano adulto in miniatura) che crede fermamente nelle dottrina del Führer, può contare sui consigli di Adolf Hitler in persona e la scena della sfilza di “Heil Hitler” è tutta da ridere.
Sulle note di I want to hold your hand Komm gib mir deine hand dei Beatles prima e di quella poesia sghemba che è “I don’t want to grow Up” di Tom Waits, assistiamo alla routine del nostro Jojo presso il campo di addestramento della gioventù hitleriana, un luogo da favola filtrato dal punto di vista del giovane e indottrinato protagonista, dove, invece di consultare il manuale delle giovani marmotte, si lanciano libri nel fuoco e si disegnano identikit degli odiati ebrei.
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«Quegli imbecilli, che marciano con il passo dell’oca come lei, dovrebbero leggerli i libri invece di bruciarli!» (Cit.) |
Tutti i personaggi di “Jojo Rabbit” sono determinati dalla loro aderenza (oppure distanza) dai principi di allineamento cari al Nazismo, il più aderente alla dottrina è proprio Jojo, ma attorno a lui ruotano una serie di personaggi tutti molto riusciti e affidati all’attore o all’attrice giusta (persino Rebel Wilson per una volta funziona, praticamente un evento!), in quello che è un romanzo di formazione tutto sommato molto classico, in cui i dettagli contano e il confronto con il “diverso” alimenta la scintilla per il cambiamento.
Esaurita presto la carica propulsiva (ma irresistibile) di Adolf l’amico immaginario che nel corso del film compare sempre meno man mano che Jojo diventa sempre meno allineato, il film si basa molto sull’incontro e lo scontro (di vedute) con la giovane ebrea Elsa (un’impeccabile Thomasin McKenzie), per assurdo questa che è la parte più importante della storia, è anche la porzione di film in cui Taika Waititi, palesemente fuori dalla sua zona di sicurezza cinematografica, zoppica un po’ di più a livello di ritmo, ma è apprezzabile la volontà del regista di portare il suo cinema fuori dalla commedia pura a cui ci ha abituato, provando altre strade e se riesce ad ottenere così tanto dal suo cast, non è certo un caso, evidentemente essere diretti da uno che è anche un attore (per di più così spigliato) piace parecchio agli attori che rispondono “presente”. Oh! Questo è quello che ha fatto sembrare vivo anche quell’armadio dell’Ikea di Chris Hemsworth, anche se odiate Ragnarok questo lo riconoscerete, no?
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«Tu conosci quella cieca di Anna Frank?», «Ti sembra il caso di citare film di Kevin Smith?» |
Tutti i personaggi oltre ad essere molto ben recitati sono scritti in punta di penna, mai appesantiti da troppe spiegazioni o sovrastrutture, infatti vivono tutti di idee suggerite (ma molto chiare per il pubblico) piuttosto che ribadite e sottolineate con il pennarellone a punta grossa. Ad esempio, capiamo tutto quello che serve sapere sul Capitano K (un Sam Rockwell in grande spolvero), dal modo in cui si sofferma un po’ troppo (per un Nazista) a guardare il suo socio Alfie Allen, il Theon Greyjoy di Giocotrono.
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Rockwell riesce ad essere trasandato anche in alta divisa. |
Menzione speciale per Scarlett Johansson, attrice sottovalutata e anche qui bravissima, nei panni di una mamma sola (niente battute facili, please!) forse già vedova, alle prese con Jojo, un figlio indottrinato dal Führer, da portare sulla retta via più con l’esempio e le buone maniere che con le brutte («Niente politica a tavola, questa tavola è la Svizzera»), perché a volte si ottiene di più con tempo e pazienza, a patto, ovviamente, di averne di tempo a disposizione. Un po’ come se il Nazismo fosse una fase preadolescenziale che un giorno verrà superata e dimenticata, gran modo di ridimensionare in modo satirico, qualcosa di orribile e fin troppo radicato.
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«Due complimenti da Cassidy nel giro di due settimane, oh yeah!» |
Taika Waititi arriva in meta (è neozelandese, quello è il LORO gioco) con una serie di momenti uno meglio dell’altro, qualche gag spassosa (come il divertente Yorki e il suo bazooka che mi hanno fatto molto ridere), oppure scene in cui ti ritrovi aggrappato ai braccioli della poltrona (la perquisizione da parte della Gestapo) e al regista basta a volte davvero poco, tipo soffermarsi ad inquadrare un po’ troppo a lungo in una certo momento del film un paio di scarpe, per regalarsi discreti sobbalzi al cuore sullo stesso paio di scarpe, mostrate in un contesto tutto diverso. Quando vedrete la scena capirete al volo, non potete mancarla e poi oh! Mica solo Tarantino ha il monopolio sui piedi al cinema, che cavolo!
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«No one expects the Spanish inquisition Gestapo!» (Quasi-cit.) |
“Jojo Rabbit” premiato a Toronto e presentato a Torino, pare avere la strada spianata fino al Dolby Theatre di Los Angeles che di solito verso febbraio si popola di gente famosa vestita bene e tappeti rossi. L’aspirazione è un po’ quella, il che può spiazzare visto che la premessa era uno Hitler buffo, ma i fatti parlano di un film che utilizza l’umorismo a volte come ascia, più spesso come fioretto e lo alterna ad una certa dose di delicatezza, tanto da renderlo bello e aggiungerei anche necessario, per chi vorrà e potrà capirlo, per gli altri ci sono sempre le polemiche vuote che lasciano la situazione inalterata.
Sì perché in questo bizzarro e ben poco coraggioso mondo, ci sono fin troppe persone che pensano di avere Adolf Hitler come migliore amico (immaginario), solo che quello che parla nella loro testa non fa battute su Jesse Owens come quello di Taika Waititi, ma gli dice cose ancora meno politicamente corrette. Senza stare a scomodare proprio Charlie Chaplin che aveva tutto un altro spessore e ben più genuina e condivisibile furia nel cuore, Waititi dimostra di aver capito quello che conta davvero, ovvero che solo un pagliaccio armato di ironia, può metterne in ridicolo un altro armato di odio e che la bellezza sta lontana dal famigerato Gleichschaltung, l’allineamento alla dottrina che tanti (troppi) ancora oggi vorrebbero.
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Lui tiene alta la quota dei bambini grassi e miopi (sei uno di noi!) |
Ultima prima di andare, giuro, qualche minuto prima dell’ultima scena del film, mi sono ritrovato a pensare con un certo grado di sicurezza: «Ora parte David Bowie» (storia vera). Quindi, questo ve lo dico: sì parte un pezzo di David Bowie ed è la ciliegina sulla torta di un film molto bello… Via, filare, andate a vederlo… RAUS!